Quale teatro al confine dell’Europa? Dalla Tunisia un reportage culturale e politico sulla situazione artistica in uno dei paesi più legati allo scambio intercontinentale tra le sponde del Mediterraneo.
È forse colpa della luce – la stessa che ammaliò la generazione di pittori e poeti all’alba del secolo scorso – o del vivace scorrere delle giornate tra le chiacchiere dei flaneurs, che saziano l’aria dei caffè nelle ore di punta, se tutto ciò che “agli europei appare calma e apatia orientale” − come ebbe a dire Jung quando mise piede per la prima volta in Tunisia −, sembrò allo psicologo viennese una sorta di “maschera” che nascondeva un’irrequietezza. Non sarà un caso allora che le maschere nel teatro tunisino – in un’accezione tutta araba della commedia dell’arte dove c’è Bantalune e lo zanni veste di polverosi stracci − abbiano così tanto spazio, e che proprio l’irrequietezza dell’instabilità economica e sociale − ma anche psicologica ed emotiva − portata spesso sul palcoscenico, sia una sorta di motore drammatico nel processo di sorveglianza e denuncia che il teatro ha da sempre svolto in questo piccolo laboratorio politico, colorato di bianco e di azzurro, sempre in balia di imprevedibili cambi di scena.
Alla vigilia della ripresa, dopo due anni, delle JTC −Journées Teathrales de Carthage in attesa − causa Covid − del fittissimo programma che riguarderà, dal 4 al 12 dicembre la competizione tra spettacoli da tutto il mondo – ivi compresi carceri tunisini e Licei –, basta posare il piede sul suolo d’Affrica, per scoprire che il mondo del Teatro − al cambiare dei dittatori, partiti, colonizzatori più o meni dichiarati, o sotto il sempiterno trucco del manto da pecora − è rimasto lì, dov’è sempre stato: disincantato dalle lusinghe, e impegnato in una sorta di missione. È un esercito spesso di giovanissimi, che riempie la caffetteria della 4éme Art, il Teatro Nazionale, quello dei maestri del Nouveau Theatre: Fadher Jaziri, Mohamed Idriss, Habib Masrouki e dell’ultimo dimissionario direttore, Fadel Jaiibi, che se ne sta spesso su un alto sgabello accanto al botteghino, col ciglio imbronciato del vecchio innovatore ormai imborghesito, che non ha nessuna intenzione di togliersi di mezzo.
Sui tavoli del Café l’Univers invece, sul Viale Habib Bourghiba – cuore pulsante della Capitale, termometro delle vicissitudini politiche di tutto il mondo arabo dalla Primavera araba in poi −, dove anche le donne bevono birra e fumano montagne di tabacco, gli attori si danno appuntamento con gli abiti e le acconciature alternative, tra i carri armati e i vecchi ficus strapieni di passeri assordanti. «Prima del 2011 qui ci passavamo testi e libri messi all’indice da Ben Ali, con l’aiuto dei camerieri», ci dice Khaouter, che fa la regista di cinema, con alle spalle una lunga esperienza in teatro. «Ora va meglio. Ma c’è ancora molto da fare contro il potere», confessa mentre sistema i capelli sotto il baschetto verde con la stella rossa.
Diritti civili, lavoro, la Libertà, quella urlata nella Rivoluzione 2011, e ancora oggi motivo di lotta sociale – contro la religione, la corruzione, l’immondizia, la burocrazia; contro tutto e tutti insomma; un boomerang inaspettato che ha colto di sorpresa proprio quei governanti – Bourghiba prima, ma soprattutto Ben Ali, quello fuggito e successivamente morto in Arabia Saudita − che hanno permesso al Teatro di innervarsi nella società e di fornirgli pericolosi argomenti. E di far prosperare drammaturghi e attori. Jalila Baccar (la bravissima moglie di Jaiibi), spesso osteggiata dalle autorità – Violences, Qamnsoun, spettacoli forti, carichi di rigore stilistico, coraggio e denuncia −, è ancora in scena; o gli emergenti Riadh Samaali, e Sami Nasri – Croissant et étoile; Le soldat de la lune − attuale Direttore del Polo teatrale della Cité de la Culture, l’imponente struttura che svetta nello skyline di Tunisi, sede istituzionale del Teatro dell’Opera, e di decine di sale, cinema, spazi espositivi e laboratori di scenografia, che dal suo ufficio, dove l’ampio orizzonte arriva lontano fino al mare aperto, ci confessa di lavorare ad un progetto che riguarda la professione teatrale: «Gli attori, i drammaturghi, i tecnici dello spettacolo avranno presto una legge che li inquadrerà nella loro professione, e che garantirà maggiori diritti».
Nel Paese dell’ UGTT, la potente organizzazione sindacale, scoglio sul quale hanno naufragato i molti tentativi di revisionismo islamico – e che concede un premio internazionale a un tecnico di cinema durante le Journées Cinématographiques de Carthage −, i lavoratori dello spettacolo conquistano garanzie e dignità, anche maggiori, a volte, di nazioni considerate democratiche, tra cui la nostra, che aspetta una legge simile da sempre. Dalle due importanti accademie di formazione superiore, una a Tunisi l’altra a El kef tra le verdi montagne al confine con l’Algeria − diretta da Ryad Zammel che ha lavorato per anni come attore in Italia − , escono fieri attori spesso impiegati dallo Stato nelle periferie dimenticate; festival e rassegne dappertutto, la capitale, Tunisi che vanta ancora un primato di edifici teatrali storici – spesso purtroppo snaturati − da far invidia alla stessa Parigi. Se n’è accorta infatti la Francia, con un Istituto di Cultura attivissimo, e l’Europa con i suoi bandi creative che includono la Tunisia − e la inondano di contributi − del fermento che c’è sotto i minareti svettanti, sempre pronti ad alzare il volume dei muezzin per coprire la voce del dissenso; che non smette mai di puntare il dito.
Perfino negli angoli più sparuti del territorio, nei villaggi più indigenti fino alle sabbie del deserto, dove nemmeno le Maisons Culturelles − veri e propri teatri pubblici, modernissimi e presenti in realtà spesso disagiate − arrivano, e dove gruppi di attori formano compagnie dinamiche, scendendo nelle strade e nelle piazze polverose del sud. Gafsa, Kasserine, Sidibouzid, in quel sahel, maledizione politica e sociale di ogni governante, dove i minatori posso tirare una corda fino a farla spezzare – la Rivoluzione dei Gelsomini è nata qui −, si riempiono le platee improvvisate dei marciapiedi o delle dune di sabbie. Guai però a chiamarlo teatro di strada. È il trentenne regista e attore Faycal Rezgui, dell’associazione Teatrale di el Guettar, un’oasi incuneata tra montagne e deserti di sale, che in strada, come ama definirlo lui, mette in scena un teatro di dolore, dove scorre il sangue della sua gente. «Dopo la rivoluzione, nel 2011, siamo usciti dalle sale teatrali», racconta − mentre traduce l’arabo con Google −, delle «trecento repliche davanti alla moschea, a causa degli integralisti islamici» o delle fughe, quando questi li inseguivano con coltelli e bastoni. «Ora la mentalità è cambiata, ma non abbiamo vinto noi. Nessuno vince.»
Che sia lo stesso, di sangue, che ossessionava lo psicologo viennese − il quale ne sentiva l’odore in Tunisia, “come se la terra ne fosse imbevuta”−, o più probabilmente, quello degli operai vittime degli incidenti sul lavoro, quel messaggio, carico più di emozioni che di parole, viaggia in tournée anche internazionali, dove si confronta, e si fonde.
Tra gli ultimi protagonisti di questa contaminazione, Luca Bruni, coreografo e danzatore, direttore dell’associazione Oplas/Centro regionale della Danza in Umbria, che ha appena realizzato la prima Piattaforma della Danza Contemporanea Italiana. Nel Grande Viaggio del Divino Dante, che ha aperto la rassegna (dal 10 al 14 novembre) interpretato dallo stesso Bruni e da Mario Ferrari – con la partecipazione di Massimo Belli, lettore della Divina Commedia −, danzano i giovani ballerini della compagnia di Syhem Belkhodja. Il pubblico apprezza, curioso, riempie le sale, applaude anche all’indigesto verso, l’ennesima dimostrazione della calda ospitalità di questa tormentata gente. Al calar della sera si coglie un sospiro di sollievo sui viali di Tunisi. E nella notte, quello che sembra un fragile armistizio resta sospeso nell’aria umida, che sa di putrido e di gelsomino, fino al sorgere del nuovo giorno, quando la Rivoluzione, “quella vera”, quella “che non è terminata”, o forse − come insistono col dire molti tra gli artisti tunisini − “deve ancora cominciare”, può finalmente tornare in scena.
Fabrizio Calvini
Novembre 2021, Tunisia, Tunisi