Recensione di Una cosa enorme, di Fabiana Iacozzilli visto al Teatro Vascello per Romaeuropa Festival, indagine sui tabù della maternità.
È una dedica e una ferita, Una cosa enorme, uno stravolgimento quale è la vita, da ciò che viene prima a quel che rimane dopo. Fabiana Iacozzilli (in questo spettacolo visto poche settimane fa nell’ambito di Romaeuropa Festival al Teatro Vascello dopo un’anteprima l’anno scorso alla Biennale Teatro) prosegue la sua indagine scenica attraverso non tanto (o non solo) uno scavo della memoria privata o di una collettività precisa; ciò di cui parla ha a che fare con un tipo di sensazioni che riguardano e mettono in discussione un’idea ancestrale di memoria, affrontata da parte della regista romana con una postura disincantata, rotta, nella quale si annida una densa e indiscussa tenerezza – un’accettazione profonda – per la fragilità di noi esseri umani.
Con precisione chirurgica e coraggio, la scelta di affrontare un tabù chiama in causa tutte e tutti, differentemente: c’è chi se ne lascia colpire, chi si ritrova e chi invece rinnega; lo si deduce dagli stralci di testimonianze che, con un audio sporco, immediato (quello dei vocali, immediati e quotidiani, non lascia spazio alla riflessione artefatta), raccontano delle proprie esperienze legate alla maternità, positive e non. Proprio una di queste interviste, ascoltate mentre la scena inizia ad essere abitata dalla prima figura, dichiara la propria fatica per quella “cosa enorme”, costretta a portare con sé. Questo dualismo lo si ritrova anche nella composizione dello spettacolo, con una prima parte dedicata alla maternità e una seconda dedicata alla vita, a sua volta divisa in due, perché la morte non è altro che parte di questo processo.
Dal buio amniotico prende forma qualcosa, cresce al centro del palco, è una luminosità circoscritta che pulsa e riverbera del battito appena creato, quasi fossimo scienziati in laboratorio, assistiamo al miracolo della vita, in quella che sembra quasi l’ecografia materica di un feto. Come la componente visiva, anche quella sonora (affidata a Hubert Westkemper) è sul limite della rarefazione e della ricchezza; spazializzato, diffuso, orientato, il suono vive al pari degli interpreti e degli oggetti, di una propria vivida drammaturgia. Si alzano le luci (un’attenta emersione dal buio, quelle concepite da Luigi Biondi e Francesca Zerilli) che lasciano il posto a uno spazio (di Fiammetta Mandich) residuale, il ricordo di un interno casalingo che restituisce il tempo logorato attraverso il quale è vissuto: il frigo è rotto, la poltrona sfondata, la pianta secca, la cucina a gas invecchiata. Entra una donna e anche lei è come l’ambiente che abita, figura prometeica, legata non alla mitica roccia ma alla gigantesca pancia (creata da Makinarium) che le copre le ginocchia e che le curva indietro la schiena; il volto tirato, scavati gli occhi, secca la gola, gli arti disarticolati. Pochi, pochissimi suoni sentiremo dalla sua voce. Marta Meneghetti, che dà corpo a questa figura – un “ovvio” avatar dell’autrice, come sostiene nelle note di regia, ma che in scena diventa condizione allargata nella quale rispecchiarsi o dalla quale fuggire – è un’eterna madre, causa e conseguenza della potenza e del peso che ne derivano.
Che abbia scelto o meno la sua condizione non serve saperlo, quel che è certo è il suo tormento, la sua rabbia contraddittoria nell’essere feroce tigre protettiva o cacciatrice spietata, quando subisce il gridio degli uccelli o quando col suo fucile colpisce una cicogna di pezza che cade sulla scena, facendo fuori il simbolo favolistico dell’avere bambini (“non ti mostrano la traformazione, ma solo la magia” diceva una delle voci). Mastica parole inudibili, sbuffi, borbottii, ma un ruggito è il primo suono chiaro che irrompe dalle corde vocali, quasi contro la sua stessa volontà. Nella lotta che la agita in scena viene alla mente un immaginario marinaresco, quello di un capitano che naviga nella tempesta che sconvolge la sua nave; quando vede dell’acqua sulle tavole tra i suoi piedi, tira stremata una corda, la appende con foga all’albero maestro. Per paradosso, lasciar andare equivale a stringere a sé il cordone ombelicale, esplode l’oceano dentro di lei, ne viene travolta, ma la tempesta si placa.
Il figlio ormai nato in scena è una figura vecchia e infante assieme, Roberto Montosi è goffo e preciso nel creare imprevisti, nel pretendere autonomia e dipendenza, innesca desiderio di prendersi cura e suo rifiuto, è figura filiale e genitoriale, tutto e il suo contrario. La scena si anima: due esseri, nuovi oggetti, un gigantesco seggiolone su cui arrampicarsi, da cui far preoccupare, una tavola da colazione luculliana; in un crescendo di caos, disordine e disperazione, certo, puntellato da qualche sporadica gioia. La frenesia che caratterizza questa seconda parte scivola poi in una ultima scena, lenta, sfiancante: una vestizione dai gesti ripetitivi, svuotati, arrendevoli che, in una crasi temporale ci catapulta verso la fine, verso quella fase in cui si diventa genitori dei propri padri, e di nuovo figli alle prede con l’accettazione di dover camminare ancora da soli. Quello svuotamento e quell’arrendevolezza dilatata hanno un’attitudine performativa perché noi spettatori per primi, guardandola, ne attiviamo la memoria; vedendola, dolorosamente, ne prendiamo coscienza.
Le gioie che appaiono a tratti, come celate dal resto, sono come le illuminazioni improvvise di una raggiunta consapevolezza, quella stessa che racconta l’autrice, mediata anche dal pensiero della sociologa israeliana Orna Donath, che a lungo si è occupata della complessità dell’esperienza dell’essere madri, del tabù che vede la dicotomia tra madre perfetta/madre menefreghista, tra desiderio intimo/imposizione sociale, tra rimorso del non aver dato al mondo figli/rimpianto per averlo fatto e forse, in ultima analisi, tra desiderio di essere curati/capacità di prendersi cura. Così Iacozzilli:
«Una questione che appartiene a ogni donna, alla sua condizione esistenziale e che ha a che fare con una domanda semplice ma per niente consolatoria: “forse, alla fine, si è madri comunque?”»
Viviana Raciti
UNA COSA ENORME
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
con Marta Meneghetti, Roberto Montosi
scene Fiammetta Mandich
luci Luigi Biondi, Francesca Zerilli
suono Hubert Westkemper
realizzazione body suit Makinarium (special – visual – effects)
collaborazione ai costumi Davide Zanotti, Anna Coluccia
aiuto regia Francesco Meloni
assistente alla regia Cesare Santiago Del Beato
assistente alla drammaturgia Carola Fasana
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
foto di scena Manuela Giusto
foto locandina Paolo Cenciarelli
collaborazione artistica Lorenzo Letizia, Luca Lotano, Ramona Nardò
un ringraziamento a Giorgio Testa
un ringraziamento speciale a Beatrice Fedi, Olga Galieri, Paola Sambo, Luana Provenziani, Gaia Clotilde Chernetich, Gianmarco Vettori, le donne del progetto Dentro la visione, gli artisti che hanno partecipato al laboratorio Labirion, le donne e gli uomini che abbiamo intervistato.
foto Paolo Cenciarelli
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Sipario Toscana-Centro di Produzione teatrale, Carrozzerie | n.o.t
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio – Direzione Regionale Cultura e Politiche Giovanili – Area Spettacolo dal Vivo
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo, Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio, ATCL Circuito multidisciplinare della Regione Lazio per Spazio Rossellini
con il supporto di Nuovo Cinema Palazzo, Labirion Officine Trasversali
In corealizzazione con
La Fabbrica dell’Attore / Teatro Vascello