In collaborazione con i Premi Ubu abbiamo lavorato a un articolo di riflessione sugli spettacoli vincitori, dopo la premiazione del 13 dicembre 2021 al Cocoricò di Riccione e in diretta su Rai Radio3 organizzata dall’Associazione Ubu per Franco Quadri e Riccione Teatro. Contenuto in media partnership.
E ancora una volta spetta al teatro di identificare gli effetti di una trasformazione epocale, fino a definire il grado e l’intenzione di quanto esso, della società mutante, sia fondamento. È così che sembra opportuno leggere, dati i meriti artistici indiscutibili, l’assegnazione dai 63 referendari del Premio Ubu 2021 per il miglior spettacolo all’Hamlet di Antonio Latella, allestito e presentato unicamente sul palco del maggior teatro italiano, il Piccolo di Milano, all’indomani della riapertura dei teatri dopo il lungo stop per le condizioni dettate dalla pandemia. C’era bisogno, si disse allora, di uno spettacolo che riportasse a teatro – stanziale, prima ancora di tornare “di giro” – l’intero panorama nazionale, diretto da uno dei nostri maggiori registi a misurarsi con il più classico dei testi, quell’Amleto che ricorre, deve ricorrere, nelle biografie dei grandi e che porta in luce, sul palco e nella vita, quanto il palco sia in connubio proprio con la vita. È lo stesso Latella che lo dice, nelle note allo spettacolo, quanto sia l’Amleto il testo “bussola” per capire dove ci si trova (non a caso lo affronta a distanza di dieci anni), quella sonda per misurare le istanze del proprio fallimento, l’inclinazione tautologica dell’uomo alla caducità.
E se il miglior spettacolo premia un regista già affermato, per giunta al secondo riconoscimento consecutivo nella stessa categoria, la miglior regia conferma la tendenza degli ultimi anni e, dopo Mimmo Borrelli e Lisa Ferlazzo Natoli, si spinge ancora in un territorio meno battuto e va a premiare un regista di talento ed emergente, quel Fabio Condemi che, durante una ancor breve carriera, ha definito un linguaggio molto chiaro: dapprima è stato il viaggio tra le pagine scultoree, tra la polvere della letteratura mitteleuropea – nel Jacob Von Gunten di Robert Walser emergeva un talento visivo privo di dubbi – poi ancora visitando Pasolini, gli appunti dedicati al suo cinema più estetico (e forse estatico, spirituale) in Questo è il tempo in cui attendo la grazia e infine dentro la drammaturgia di un altro “irregolare” come il Marchese de Sade, per il premiato, ora, La filosofia nel budoir, in cui discutere di violenza e morale attraverso una domanda inesaurita che il teatro, l’arte che mostra, deve assumere in sé stesso.
Si registra in crescita notevole anche quest’anno la recente categoria del miglior spettacolo di danza, che segnala con Doppelgänger di Abbondanza/Bertoni con Maurizio Lupinelli una particolare attenzione a un connotato concettuale di composizione coreografica, forse più che nelle categorie dedicate al teatro, come già accaduto negli anni precedenti; come se fosse totalmente appannaggio del teatro l’idea di affrontare il classico. Lo spettacolo, nato da una collaborazione piuttosto recente, si propone di affrontare la diversa abilità definendola attraverso la relazione con il doppio, creando un sensibile cortocircuito tra corpi, perché sia il gesto, la forma, a esplicitare il successivo concetto. Un legame forte, certo non determinato, è quello che specchia questo lavoro nei due premiati per la drammaturgia: il miglior testo italiano va a Mariano Dammacco per Spezzato è il cuore della bellezza, che indica un lavoro espresso da un drammaturgo di compagnia, peraltro non particolarmente famoso o visibile, in un momento storico in cui proprio le compagnie rischiano di scomparire; il testo straniero è di Kae Tempest, il cui Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2021, quindi al punto più alto della sua fama in Italia, trova casa in un centro culturale di Roma, l’Angelo Mai, ricco di ben tre premi quest’anno con il suo Tiresias (miglior attore e progetto musicale), ma nato e gestito a partire da una forte storia di occupazione e attività sociale e politica.
Entrambi i testi hanno un punto in comune tra loro e con la danza di Doppelgänger, trattando dell’essere umano in una indagine dell’intimità: il primo, di Dammacco, mette in scena due donne lasciate dallo stesso uomo ed evidenzia così la coppia come nucleo di osservazione primario, ma esteriore perché di relazione con l’altro, per parlare di uomo e donna al tempo presente; il secondo, di Tempest, il cui personaggio ha la peculiarità di poter essere alternativamente uomo e donna, sposta l’esplorazione nella profondità delle scelte – analisi quindi dell’interiorità – che riverberano nella componente di genere.
Una nota a parte meritano gli attori: Gabriele Portoghese per Tiresias di Giorgina Pi e La filosofia nel budoir; Manuela Lo Sicco per Misericordia di Emma Dante. Entrambi coinvolti in spettacoli complessi e candidati ai premi maggiori, hanno alle spalle una carriera solida che culmina in un riconoscimento ma rappresentano in ogni caso una generazione di attori ancora giovane, segno di un cambiamento definito nella percezione della maturazione attoriale. La categoria invece dedicata agli under 35, che da alcune edizioni conta anche la possibilità di coinvolgere performer, premia Francesco Alberici per Chi ha ucciso mio padre di Édouard Louis e Federica Rosellini che interpreta il principe Amleto nella regia di Latella; se dunque la categoria conterebbe l’ipotesi di premiare performer, solo in una delle ultime edizioni ciò è avvenuto (nel 2017/18), mentre la preferenza più spesso è andata ad attori, pur non classici, ma capaci di caratterizzare profondamente, non in senso performativo ma autoriale, il lavoro della scena.
Un dato urgente e meritorio di attenzione è la consueta, ma in questo caso drammaticamente maggiore, assenza del Sud tra le preferenze: alla vecchia, atavica difficoltà di far girare prodotti del Mezzogiorno nel resto d’Italia, in questi ultimi anni la pandemia deve aver dato un colpo di grazia definitivo (al punto paradossale che lo spettacolo dell’anno è andato in scena nella sola Milano). Altra questione da affrontare è quella che definiremmo “dell’estremo marginalismo”, un’azione che ha pur permesso, per esempio nell’ultimo decennio, l’affermazione importanti di autori e registi prima non accolti nella famiglia Ubu, ma che sta producendo un effetto di replica nella ricerca di inserire esperienze sempre più nascoste e, forse, non della statura adeguata al più importante premio teatrale italiano.
Un sentimento diffuso di gratitudine sembra aver guidato all’assegnazione dei premi speciali, molti dei quali hanno visto primeggiare esperienze nate come risposta – concreta o derivata – alla pandemia. Con l’eccezione dei bellissimi progetti come il raffinato Lingua Madre del LAC di Lugano o quell’abbraccio generazionale che è Politico Poetico di Teatro dell’Argine (Bologna), dal GLA – Gruppo di Lavoro Artistico del Teatro Metastasio a Now / EveryWhere di Amat, da Radio India del Teatro di Roma a Indifferita di Frosini/Timpano, il pensiero dei referendari è andato a cogliere quello spirito di appartenenza, quella vocazione resistenziale che l’arte sviluppa attraverso la fantasia, la cattura del tempo immaginato verso un altro tempo, atto d’amore e di rivoluzione che solo il teatro sa compiere.
Simone Nebbia
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