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Le passé a l’Odéon: politica, visione, smascheramento

Recensione di Le passé diretto da Julien Gosselin sui testi di Léonid Andréïev appena concluso presso l’OdéonThéâtre de l’Europe, Parigi.

Foto Simon Gosselin

L’Odéon, dopo i tumultuosi eventi della scorsa primavera che ne hanno visto l’occupazione da parte della Compagnie Générale de Théâtre [ne parlava Andrea Pocosgnich qui] ha riaperto da settembre le sue porte al pubblico parigino. La crisi era iniziata a partire da marzo 2021, quando – come è riportato nel sito del comitato occupante – il governo francese, di fronte all’epidemia, ha scelto di “privilegiare la produzione, i luoghi di grande consumo, e mantenere chiusi spazi vitali, di creazione e socialità”. Si tratta di un problema emerso con forza durante i due anni pandemici, che hanno palesato forse come mai prima d’ora una scissione tra pubblico e artisti che deve essere assunta come problematica a partire dalla quale (ri)pensare ogni arte performativa. Dal 2 al 19 dicembre, l’Odéon ha accolto uno spettacolo che si rivela essenziale proprio alla luce di quest’attualità: Le passé, diretto da Julien Gosselin.

La sala è impregnata di fumo, una serie di candele accese delimita la scena, marcando una soglia ontologica tra chi guarda e chi è guardato – soglia che sarà infranta successivamente. Il sipario si alza, la sorpresa del pubblico non tarda a palesarsi: uno schermo di grandi dimensioni sovrasta infatti un’ambientazione ottocentesca – uno spaccato abitativo, solo il salotto comprendente un camino e due poltrone rivolte verso il pubblico. Come se, di questo appartamento, il pubblico costituisse l’altra metà, come se l’unico punto di incontro tra i due mondi potesse essere quello del focolare domestico – il proscenio. Ma lo sconcerto è tale solo quando il pubblico capisce cosa lo aspetta: la maggior parte delle azioni avviene fuori campo, nessuna voce arriverà “immediatamente” alle sue orecchie, poiché la strategia operata da Gosselin è quella di recidere il legame diretto che vi è tra l’occhio e la scena e di interporvi un dispositivo: la cinepresa e il microfono.

Foto Simon Gosselin

La troupe dei cameramen, che si aggira in maniera furtiva nell’appartamento senza mai apparire in campo, è essa stessa parte dello “spettacolo” in quanto responsabile di cosa il pubblico vedrà sullo schermo – schermo che è a sua volta inaccessibile a chi recita; un paradosso che è in realtà uno smascheramento: è davvero possibile un contatto puro tra l’artista e il pubblico? Non è esso costantemente mediato dal nostro punto di vista (letteralmente, anche da cosa riusciamo a scorgere dalla nostra postazione a teatro)? In questo modo, Gosselin sembra fare sue le considerazioni gouldiane sull’antidemocraticità della sala da concerto, presentando di fatto una scena eguale per tutti gli spettatori indipendentemente dalla loro provenienza sociale. Aiutato dai titoli proiettati e dalle inquadrature molto precise, il pubblico riesce infatti a seguire facilmente ogni scena senza dimenticare i nomi slavi e può, se lo desidera, collegare tutti gli snodi narrativi. La telecamera – sintomo dell’ossessione di Gosselin per il concetto di Gesamtkunstwerk – si sofferma sui volti e su dettagli gestuali impossibili da cogliere se non tramite un “ingrandimento”, eppure la macchina non sfida mai l’arte dell’attore e la magia della scena, non vuole sostituirsi al loro virtuosismo, quanto piuttosto li conduce al più estremo grado di figurazione.

Foto Simon Gosselin

La trama è interamente tratta dalle opere dello scrittore e drammaturgo russo Léonid Andréïev. In particolare, la matrice dell’intera pièce è il destino di una donna, Ekaterina Ivanovna (eponimo del dramma scritto da Andreev nel 1912) che, minacciata e inseguita nel cuore della notte dal marito, Georgi Dmitrievich, decide di fuggire e di trasferirsi, assieme ai suoi bambini, da sua sorella Lisa. Il marasma iniziale è scatenato dal delirio di Georgi, assolutamente convinto che Ekaterina lo tradisca, nonostante la presenza consolatoria del fratello e dell’amico. A questa linea narrativa, che caratterizza la prima e l’ultima parte dello spettacolo, si frappongono altri tre momenti (relativamente eponimi di tre racconti dello stesso Andréïev): Requiem, Nella nebbia, L’Abisso, La resurrezione dei morti. Sono trame in qualche modo complementari a quella principale, Gosselin dissemina di segni ogni passaggio di modo da permettere a chi assiste la libera associazione. Eppure, vi è certamente una traccia che è privilegiata dal regista: il ruolo di Ekaterina che, dopo le accuse del marito, sprofonda progressivamente in una notte senza fine. Questa sua trasformazione le fa assumere sembianze demoniache, inumane, quasi a indicare che l’esito di una violenza estrema – verbale, fisica e psicologica – come quella del marito non possa che portare alla de-generazione. Ekaterina è, da questo punto di vista, uno sguardo rivolto verso l’ormai obsoleta divisione dei generi.

Foto Simon Gosselin

Il titolo di questo caleidoscopio di parole/suoni/immagini, Le passé, acquista di senso verso la fine dello spettacolo. Lo spettatore si trova sulla soglia di una casa che dischiude violentemente una tragedia (mancata), ovvero il delitto d’onore per mano di Georgi: questo passato marcherà e contaminerà la coscienza di tutti i personaggi. Come per loro, anche il pubblico ne viene segnato, poiché inizialmente è quasi con un certo fastidio che segue le vicende, sommerso dagli stimoli sonori e visivi che si susseguono senza alcuna interruzione. Ma come “posseduto”, chi assiste si trova infine a desiderare di far parte della scena, di poter esercitare una propria libertà – di fatto inesistente in quanto sono le telecamere a decidere cosa egli debba guardare. Ed è proprio quando la marginalità del pubblico è totale, che la soglia ontologica tra i due mondi scompare e la quarta parete viene a cadere: l’arcano è svelato, non c’è più alcuna necessità di comportarsi come se non tutto non fosse rappresentazione. E allora il sipario non cala, questa volta, nell’intermezzo, ma ci mostra gli attori che assieme alla troupe smontano e preparano il finale, che scherzano persino tra loro ancora una volta dimenticandosi (o fingendo di dimenticarsi) di essere ripresi.

Il passato della rappresentazione – del teatro stesso – è superato. L’intenzione di Gosselin, come rivela egli stesso in più di una intervista è dunque quella di interrogare il senso stesso dell’arte teatrale mettendo in discussione il rapporto col pubblico attraverso un’esplorazione di diverse forme di rappresentazione: teatro naturalista, cinema performativo e filmato dal vivo, teatro mascherato (La resurrezione dei morti), teatro doppiato nell’orchestra (Requiem). Come per il pubblico anche per la forma stessa “teatro” vi è un processo di formazione (o piuttosto di deformazione): dalla forza libidinale delle immagini non c’è scampo. E se l’idea iniziale di Gosselin era quella  “di mettere la fine dell’umanità sullo stesso piano della fine del teatro” allora deve naufragare il vecchio modo di pensare l’arte, come deve farlo anche il mondo del dominio maschile che sospinge Ekaterina alla discesa negli inferi, in un vortice di dissolutezza e delirio che è il prezzo per aver indicato, messianicamente, il destino di un’epoca.

Artin Bassiri-Tabrizi

visto a Odéon-Théâtre de l’Europe, Parigi, dicembre 2021

LE PASSÉ

d’après Léonid Andréïev
mise en scène Julien Gosselin
compagnie Si vous pouviez lécher mon cœur
avec Guillaume Bachelé, Joseph Drouet, Denis Eyriey, Carine Goron, Victoria Quesnel, Achille Reggiani, Maxence Vandevelde
traduction André Markowicz
dramaturgie Eddy d’Aranjo
scénographie Lisetta Buccellato
musique Guillaume Bachelé, Maxence Vandevelde
lumière Nicolas Joubert
vidéo Jérémie Bernaert, Pierre Martin
création sonore Julien Feryn avec Hugo Hamman
costumes Caroline Tavernier avec Valérie Simonneau
accessoires Guillaume Lepert
masques Lisetta Buccellato, Salomé Vandendriessche
assistant à la mise en scène Antoine Hespel

Régie générale (création) Léo Thévenon
régie générale (tournée) Simon Haratyk, Guillaume Lepert
régie plateau David Ferré
régie lumière Zélie Champeau
régie son Hugo Hamman, Jules Lotscher
régie vidéo Céline Baril, David Dubost, Baudouin Rencurel
régie costumes Florence Tavernier
stagiaires techniques Pierrick Guillou, Audrey Meunier 

administration, production, diffusion Eugénie Tesson
organisation de tournée, actions culturelles Élise Yacoub
administration Paul Lacour-Lebouvier
direction technique Nicolas Ahssaine
construction du décor et toile peinte Ateliers Devineau

coproduction Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre national de Strasbourg, Le Phénix – scène nationale Valenciennes pôle européen de création, Théâtre du Nord – centre dramatique national Lille Tourcoing région Hauts-de-France, Célestins – Théâtre de Lyon, Théâtre national populaire de Villeurbanne, L’empreinte –scène nationale Brive-Tulle, Château Rouge – scène conventionnée à Annemasse, Maison de la culture d’Amiens, Comédie de Genève, Festival de Wiesbaden, La Passerelle – scène nationale de Saint-Brieuc, Scène nationale d’Albi, Romaeuropa

avec l’aide du ministère de la Culture
avec la participation artistique du Jeune théâtre national
avec le soutien de Montévidéo – centre d’art, du T2G – Théâtre de Gennevilliers

Julien Gosselin et Si vous pouviez lécher mon cœur sont artistes associés au pôle européen de création, Le Phénix – scène nationale de Valenciennes, au Théâtre national de Strasbourg et au Théâtre Nanterre-Amandiers

Si vous pouviez lécher mon cœur est soutenu par le ministère de la Culture – Direction régionale des affaires culturelles Hauts-de-France, la région Hauts-de-France et la ville de Calais. La compagnie bénéficie du soutien de l’Institut français pour ses tournées à l’étranger

Léonid Andréïev, Ékatérina Ivanovna suivi de Requiem, traduit du russe par André Markowicz, éditions Mesures, 2021

avec le Festival d’Automne à Paris

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Artin Bassiri
Artin Bassiri
Artin Bassiri Tabrizi (1992) ha studiato filosofia all’EHESS di Parigi (Master in Arts et langages). Dal 2021 è iscritto in un Dottorato di ricerca presso l’ACCRA di Strasburgo sotto la tutela di Stefan Kristensen. È al contempo diplomato in pianoforte al Conservatorio di Perugia, e ha svolto un periodo di ricerca tramite il progetto Daedalus: l’artista da giovane a Firenze, sotto la tutela di Alexander Lonquich e Cristina Barbuti. È stato segretario artistico del pianista Roberto Prosseda. Ha tradotto il libro di Boris Berman, Notes from the pianist’s bench per Curci. Collabora con le riviste Quinte Parallele, Gli Spietati, Philosophy Kitchen. I suoi temi di ricerca intrecciano la psicanalisi, l’estetica musicale e visuale e la letteratura. Insegna attualmente filosofia in un liceo parigino.

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