Recensione. Tempest Project, l’ultimo spettacolo di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne, ha debuttato al Teatro Cucinelli di Solomeo. Per l’Italia è prevista soltanto un’altra tappa, dal 10 al 13 febbraio 2022 al Teatro Goldoni di Venezia.
La relazione di Peter Brook con William Shakespeare è contraddistinta dalla ricorrenza: non sono mai trascorsi, nella lunga carriera di Brook, più di cinque anni tra una regia shakespeariana e l’altra, a volte con riprese della medesima opera. È il caso de La tempesta, l’ultima tragedia di Shakespeare, sulla quale il regista inglese ha lavorato negli anni Cinquanta, negli anni Sessanta (scomponendola in exercises) e ancora nel 1990, con un prodigioso debutto parigino al suo Théâtre des Bouffes du Nord. L’idea che la ricerca sia in divenire – e che attraversi la vita artistica di Brook – è suggerita fin dal titolo di questa nuova produzione, che ha debuttato al Teatro Cucinelli di Solomeo: Tempest Project. La collaborazione, ormai storica, con Marie-Hélène Estienne dona alla drammaturgia la grazia di elisioni sapienti, che toccano la parola shakespeariana senza alterarne il delicato rapporto tra densità e levità.
La vicenda, notissima, è quella del mago Prospero (Ery Nzaramba), duca di Milano, esiliato su un’isola senza nome per inganno del fratello Antonio, dove cresce sua figlia Miranda («colei che deve essere mirata», interpretata da Paula Luna). Attorno a loro si aggirano – di malavoglia, soggiogati dagli incantesimi di Prospero – i servitori Ariel, spirito dell’aria (che ha il volto sovrannaturale di Alex Lawther) e il truce Calibano (Sylvain Levitte, nel doppio ruolo del mostro e di Ferdinando, l’innamorato di Miranda), fino al giorno della tempesta, scatenata dal mago per trascinare infine sull’isola Antonio, il suo complice Alonso, re di Napoli (entrambi assenti nell’adattamento di Brook/Estienne) e il di lui figlio, Ferdinando. Tempest, non storm, come sottolinea Nadia Fusini nel suo saggio Vivere nella tempesta (Einaudi, 2016): un etimo che è destino e cancella la violenza del vortice (s-twer) in favore del sentimento fortunoso del tempus. L’amore giovanile che nasce tra Miranda e Ferdinando scioglie il conflitto e trasforma in perdono la furia vendicativa di Prospero, riconsegnando ciascuno alla propria libertà.
Sul palco solo due panche, qualche tronco di legno, un bastone più chiaro (sarà lo scettro e la bacchetta magica di Prospero) e un drappo a colori. La scena è scura e il vuoto è gravido di quiete: si prepara ad accogliere le conseguenze del «pauroso spettacolo del naufragio, gestito con grande precauzione d’arte». I sei giovani interpreti sono, per espressa scelta registica, di varie nazionalità e recitano in francese. Il fatto che, sulla scena, saltino dunque tutti i nessi anagrafico-razziali dell’originale produce un senso di forte astrazione – ma non di disorientamento – e sottrae allo spettatore la possibilità di relazionarsi a La Tempesta soltanto come a uno spettacolo sul colonialismo. Proprio su questo punto insiste Peter Brook, nel saggio Dimenticare Shakespeare? (Guida, 2005): «Se pensiamo in termini di luoghi comuni e decidiamo che Shakespeare ha scritto l’opera solo come un testo sul colonialismo, allora ci rifiutiamo di vedere che quello che porta all’ultima parola, free (libero), riguarda la libertà in tutte le sue dimensioni ed in tutte le sue implicazioni. […] A mio parere questo è scritto deliberatamente da un poeta non per imprigionare il senso ma per aprire un mistero ardente».
A proposito della scelta del francese, Brook si sofferma invece sulla (necessaria) scomparsa di una specifica qualità musicale dell’inglese nel momento in cui viene convertito nella lingua a esso più lontana. Eppure – attraverso uno sforzo di sintesi e purezza, attraverso anche il «sacrificio di quello che […] costituisce parte del suo effettivo valore» – «il potere […] permane» e il francese può divenire il terreno “d’incontro” degli interpreti: lingua di poesia e lingua “coloniale”, che si fa accogliente dinanzi al sortilegio di una parola straniera, e a esso si inchina. Si tratta di una particolarità ha a che fare anche con la suspence: la scrittura di Shakespeare custodisce la meraviglia di un inatteso, una musicalità “in levare”, che si offre con naturalezza ma che allude di continuo a un mistero. Se la facoltà del poeta, secondo Brook, consiste nel «vedere le relazioni tra le cose là dove queste relazioni non sono evidenti», questo mistero non può che riguardare l’umano, i suoi abissi e, al contempo, il nucleo “semplice” delle verità che ci affratellano.
Ed è, infatti, a un principio di semplicità, sereno e radicale, che il teatro di Brook è orientato. Sia dal punto di vista “spirituale” che da quello scenico, si tratta di uno stringere il cerchio attorno all’attore, alla sua parola e al suo gesto che – grazie alla scomparsa di ogni sovrapensiero politico e di ogni artificio – divengono miracolosamente nitidi. Inoltre, come si legge nelle note di regia, «per l’attore proveniente da un paese dove cerimonie e riti sono ancora vivi, il percorso che conduce all’invisibile è per lo più naturale»: siamo, di nuovo, al cospetto del sentire profondo dell’interprete e della verità netta e creaturale portata dal suo corpo.
In questa prospettiva – di forza unificatrice e di naturale estensione del sortilegio – il pubblico è chiamato a una presenza più che mai sensibile, attiva, pur senza percepire, neppure per un attimo, la tentazione di spezzare la perfezione del silenzio. L’intera messa in scena è sorretta dalla frontalità che gli attori regalano agli spettatori, ponendosi come “in disarmo” (a piedi nudi, in luce piena, alle prese con escamotage scenici massimamente semplici) e chiedendo dunque una partecipazione che si rimette, con fiducia, al sentimento della comunanza. Persino l’ironia espressiva, che balena a tratti, ha un carattere delicato, quasi in dissolvenza.
Georges Banu, proprio nella prefazione a Dimenticare Shakespeare?, scrive che il teatro brookiano, così come quello shakespeariano, agisce nell’orizzonte dell’immediatezza: «Brook dimentica gli altri, non parla più contro e si abbandona a ciò che Deleuze riteneva essere l’unico discorso produttivo possibile, il discorso affermativo. E così traccia il ritratto del suo Shakespeare caratterizzandolo con una successione di quattro a: ambiguo, ana-storico, anonimo, accessibile». È proprio l’ambiguità – il fatto di portare in scena l’enigma della libertà, non la sua istanza – a dischiudere quello spazio vuoto, dunque intimo, che rende Tempest Project uno spettacolo incantevole e prossimo. E, al contempo, una riflessione sul significato della libertà, dell’appartenenza, dei simboli, del congedo, piena di un mistero che la linearità non fa che rendere più profondo.
L’ultima preghiera di Prospero è, come sempre, rivolta al pubblico: esauriti gli incantesimi, chiede di poter lasciare l’isola. E, come sempre, è esaudita: «Voi ambite a essere perdonati. Per vostra indulgenza, sono infine libero».
Prospero scompare, come inghiottito da una piega del fondale. Gli attori rientrano in scena a raccogliere gli applausi, inizialmente senza sorridere.
Ilaria Rossini
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Teatro Cucinelli, Solomeo – novembre 2021
Prossime date
dal 10 al 13 febbraio 2022 – Teatro Goldoni di Venezia
TEMPEST PROJECT
uno spettacolo nato da una ricerca su La Tempesta di William Shakespeare
testo e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
luci Philippe Vialatte
canti Harué Momoyama
con Alex Lawther, Sylvain Levitte, Paula Luna, Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Ery Nzaramba
produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord
coproduzione Théâtre Gérard Philipe, centre dramatique national de Saint-Denis; Scène nationale Carré-Colonnes Bordeaux Métropole; Le Théâtre de Saint-Quentin-en-Yvelines-Scène Nationale; Le Carreau – Scène nationale de Forbach et de l’Est mosellan