Una conversazione in due parti con Alessandro Argnani (direzione di Ravenna Teatro) in cui ripercorriamo la storia trentennale del lavoro e dei rapporti tra il Teatro delle Albe e il Senegal. Parte 1
Moussa N’diaye: Mi chiamo Moussa N’diaye, sono nato in Senegal e cresciuto in Italia in una periferia ravennate che si chiama Lido Adriano. Ho vissuto dodici anni in Senegal e sedici in Italia, ora sono tornato a vivere lì e faccio avanti e indietro tra questi due paesi. Sono il direttore del KËR Théâtre Mandiaye N’diaye, compagnia nata dopo la morte di mio padre Mandiaye N’diaye nel 2014, un’esperienza nata dalla volontà di continuare a dare vita a un lavoro e una semina fatta trent’anni fa tra Teatro delle Albe e Mandiaye N’diaye. L’obbiettivo di KËR Théâtre è proprio quello di riprendere l’eredità di quella semina, continuare quel ponte teatrale durato trent’anni con la comunità di Ravenna, l’Emilia Romagna e il resto dei partner italiani. Siamo giovani, nati per ricreare e continuare una storia di dialogo.
Si presenta così Moussa, in collegamento Zoom dalla periferia di Dakar, in questo incontro a distanza insieme ad Alessandro Argnani del Teatro delle Albe, tornato da pochi giorni dal Senegal. In occasione della ventunesima Settimana della lingua italiana nel mondo (dal 18 ottobre al 24 ottobre 2021), Argnani insieme al KËR Théâtre Mandiaye N’diaye ha infatti tenuto un laboratorio con trenta giovani attrici e attori di Pikine – città-quartiere nella banlieue di Dakar –, grazie anche alla collaborazione con l’attore senegalese Laity Fall e al Complexe Culturel Léopold Sédar Senghor di Pikine. Con loro anche Graziano Graziani che riporterà l’esperienza con un racconto audio. Dopo la traduzione in lingua wolof del Canto I della Divina Commedia, commissionata dall’Istituto Italiano di Cultura di Dakar e realizzata dal poeta Pap Abdoulaye Khoum, la messa in vita del testo di Dante in Senegal è l’occasione per ricontattare le origini di questo ponte afro-romagnolo che da decenni viene portato avanti e che chiediamo ad Alessandro Argnani di ripercorrere insieme.
Il Teatro delle Albe nella Romagna africana
Alessandro Argnani: La Romagna africana è un’invenzione di fine anni Ottanta, un’invenzione di Ermanna Montanari e Marco Martinelli. In quel periodo storico, nel quale forse non si parlava ancora di intercultura, in Romagna arrivano le prime ondate di migranti dall’Africa, in particolare dal Senegal, per lavorare nelle spiagge. È il momento nel quale si conia lo stigma del “vucumprà”. Per Marco e Ermanna questi arrivi sono invece sintomo di un cambiamento in atto. Le Albe, come compagnia che fonda la propria poetica in un teatro che abbia voglia di fare i conti con le contraddizioni del proprio tempo, sentono e vedono in questo arrivo una svolta storica.
In contemporanea Marco e Ermanna assistono all’Università Verde di Lugo una lezione nella quale il professor Ricci Lucchi dell’Università di Bologna, geologo, dichiara che con la deriva dei continenti un pezzo di quello che sarebbe poi stata la Romagna (e poi l’Emilia, e le Marche e la Puglia) si è staccato dall’Africa, in particolare dalla zona dove oggi c’è il Senegal, e ha navigato per tutto l’Adriatico. Il sottosuolo, lo strato profondo che regge le città Romagnole, è africano. Per la compagnia questa teoria diventa un atto poetico, come se i nostri fratelli, i nostri antenati senegalesi stessero tornando ad abitare e a ricontrare i loro cari. E così nasce la storia delle Albe afro-romagnole. I compagni senegalesi entrano come soci nella cooperativa, portando nella compagnia un loro immaginario, un loro modo di stare in scena, di sognare. Nascono delle drammaturgie inedite che mettono in relazione i due mondi, nasce Ruh.Romagna più Africa uguale, Siamo asini o pedanti fino a I ventidue infortuni di Mor Arlecchino, dove l’Arlecchino che nell’opera è un immigrato padano, diventa un immigrato africano.
Un’altra possibilità di guardare il mondo. Il Teatro delle Albe incontra Mandiaye N’Diaye.
Alessandro Argnani: Negli anni successivi, durante una ripresa dello spettacolo Ruh.Romagna più Africa uguale, tre degli attori senegalesi che erano entrati nella compagnia a una settimana da una tournée in Italia lasciano il progetto. Parte così una ricerca di nuovi attori, raccontata benissimo da Franco Lorenzoni nel libro Saltatori di muri (Franco Lorenzoni, Marco Martinelli. Macro Edizioni 1998). Mentre Marco cerca i tre sostituti senegalesi per lo spettacolo, Mandiaye si presenta davanti a lui e dichiara di essere un attore anche se non lo è mai stato. L’incontro si infiamma subito; Marco lo sceglie e in quello spettacolo farà quasi da regista sul campo parlando in wolof, facendo da tramite con agli altri attori e da lì parte la sua storia nelle Albe, diventando una figura cardine della compagnia.
Qualche anno dopo la Romagna africana, nasce lo “stabile corsaro” Ravenna Teatro, alle Albe viene affidato il teatro delle città, e Ermanna e Marco sentono la responsabilità di non sedersi sul fatto di avere uno spazio ma di aprirlo alla cittadinanza. Una delle esperienze che nasce è la non-scuola, che è il modo per le Albe di incontrare la città e dire agli adolescenti che il teatro è un luogo vivo, dove ci può battere ancora il cuore come in un concerto rock o una partita di calcio. La non-scuola è un’epidemia che finisce poi un po’ in tutta Italia e permette a tanti, tra i quali il sottoscritto, di scoprire il teatro come un luogo di crescita, di vita.
Nel ‘98 debutta I polacchi, una riscrittura dell’Ubu roi di Alfred Jarry, dove in scena oltre a Ermanna Montanari, madre Ubu, e Mandiaye, padre Ubu, ci sono dodici adolescenti cresciuti nella non-scuola che entrano in qualche modo a bottega con le Albe. È durante quella esperienza che incontro Mandiaye; una persona con dieci anni più di me che mi racconta altre possibilità di guardare e di stare nel mondo, di avere un rapporto con la famiglia e con i sogni della notte; è stato il trovare una figura cardine per la mia esperienza personale, come per tutta la compagnia. Per quasi vent’anni continua questa frequentazione, ma Mandiaye a un certo punto, quando è già un attore riconosciuto in occidente e ha tutte le comodità che ne derivano, decide di tornare a lavorare in Senegal per portare ai propri concittadini le sapienze acquisite durante l’esperienza in Italia e fondare così il Takku Ligey Théâtre.
Il ritorno in Senegal e Opera lamb, l’ultimo spettacolo di Mandiaye N’Diaye
Alessandro Argnani: Mandiaye torna non nella capitale, ma in un villaggio di agricoltori che si chiama Diol Kadd, dove ancora oggi non c’è la luce elettrica; torna immaginando un percorso che possa rimettere in vita il villaggio di suo nonno, attraverso il lavoro del teatro, della terra e del turismo responsabile proprio per creare un fermento e la possibilità per gli abitanti di non dover fuggire per andare a Dakar o in Europa, ma di poter costruire lì la propria storia. In pochi anni Mandiaye oltre ai progetti artistici avvia una forte cooperazione con il mondo; costruisce la scuola del villaggio, fa arrivare tanti turisti da diversi luoghi d’Italia, sviluppa un progetto legato alla terra, alla costruzione del pozzo. A un certo punto però l’esperienza del villaggio termina, alcuni dei giovani attori non capiscono che il teatro è una faticosa semina quotidiana e così Mandiaye va a Dakar, nelle banlieu, ancora una volta a incontrare le grandi contraddizioni del suo tempo. Lì incontra un gruppo di giovanissimi attori con i quali incomincia un nuovo percorso; nascono delle produzioni che dal Senegal partono per l’Italia e l’Europa. Mandiaye inizia a essere una figura riconosciuta a livello internazionale e mette in piedi una produzione con Ravenna Festival e il Camerun, Opera Lamb, uno spettacolo che parla della contraddizione della lotta tipica del Senegal come esperienza non sempre felice, con un giro di denaro che ha sporcato le operazioni legate alla tradizione. Il giorno prima del debutto di Opera lamb, dopo aver fatto la prova generale, Mandiaye torna a casa sua e muore. Da un giorno all’altro, nel momento più alto del suo percorso artistico, Mandiaye N’Diaye non c’è più.
La non-scuola in Senegal. Nasce Thioro. Un cappuccetto rosso senegalese
Alessandro Argnani: L’addio di Mandiaye N’Diaye significava il rischio grandissimo che la relazione trentennale tra le Albe, Ravenna e il Senegal scomparisse e che tutto il lavoro iniziato con questi giovani attori potesse finire lì. Allora io, che non ero mai stato in Senegal prima che Mandiaye morisse, ho sentito la necessità di andarlo ad abbracciare. E così siamo partiti non con l’idea di andare a produrre uno spettacolo, ma di ricominciare una semina con il percorso degli adolescenti della non-scuola insieme agli attori di Mandiaye N’Diaye. Andiamo io, Alessandro Renda, Silvia Pagliano e Leila Marzocchi, una disegnatrice, con l’idea di stare nel villaggio di Diol Kadd. Leila la mattina lavorava sulla fiaba di Cappuccetto Rosso e noi il pomeriggio facevamo il laboratorio della non-scuola. Lì c’era Moussa N’Diaye, fondamentale per la nascita del KËR Théâtre Mandiaye N’diaye, perché i nostri due mondi rimanessero in contatto.
Cappuccetto Rosso infiamma i bambini del villaggio perché ci sono riferimenti che non conoscono ma allo stesso tempo ne riconoscono all’interno delle somiglianze: allora il lupo diventa la iena, il bosco diventa la savana, la bimba non va dalla nonna per portare da mangiare ma per farsi raccontare una storia. Questo vedere infiammati i bambini su Cappuccetto Rosso ci spinge a usare quella storia all’interno del laboratorio, ma reinventandola come abbiamo sempre fatto per le opere del meticciato afro-romagnolo, mettendo così in comunicazione i nostri immaginari.
Durante le due settimane di lavoro a Diol Kadd oltre a Moussa ci sono Adama Gueye e Fallou Diop e con loro in cinque giorni sboccia questa nuova fiamma, Thioro. Un cappuccetto rosso sengalese, un lavoro che nasce nel mettere in risalto la meraviglia dello sporcarsi insieme. Lo spettacolo debutta poi in Italia e ha una grandissima tournee, permettendo ad Adama e Fallou di fare un percorso di formazione lavorando, girando, incontrando molti teatranti e teatri italiani. Continuava così il dialogo tra Italia e Senegal.
Luca Lotano