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Licia Lanera, Guarda come nevica. L’horror esistenziale

Recensione. Uno sguardo alla trilogia Guarda come nevica della Compagnia Licia Lanera. Visto al Teatro Herberia di Rubiera. Il Gabbiano è inscena anche al Teatro Astra di Torino.

Foto di Eliana Manca

Il percorso di Licia Lanera è stato avventuroso, impervio, passato attraverso la creazione e lo scioglimento (nel 2018) di uno dei gruppi più importanti degli anni Zero, Fibre Parallele, fondato nel 2006 con Riccardo Spagnulo. Se ideazione drammaturgica e composizione scenica sono stati i due elementi portanti del linguaggio di Fibre Parallele, la Compagnia Licia Lanera ha portato avanti un’estetica e una poetica inizialmente innestate sull’incontenibile presenza di questa grande attrice, dalla personalità carismatica e magnetica (con Orgia di Pier Paolo Pasolini e poi con The Black’s Tales Tour). Più di recente, la grammatica scenica di Licia Lanera è tornata a saltare oltre i confini del one-woman show, per coinvolgere corpi e registri altri, in una costruzione sempre più articolata.

La trilogia Guarda come nevica è un lavoro complesso e maturo, nel suo attraversare tre grandi autori russi in bilico tra la mitologia di quella geografia artistica e un fortissimo riferimento all’attualità del pensiero e della pratica teatrale italiani. Cuore di cane, Il gabbiano e I sentimenti del maiale, coprodotti con il TPE – Teatro Piemonte Europa, il Teatro Metastasio di Prato e il Festival Colline Torinesi, si sono aperti al pubblico del Teatro Herberia di Rubiera in una fredda sera di fine novembre, per una maratona densa e partecipata.
In quanto trilogia, è possibile trattarla come un corpus unico o considerandone i titoli come passi autonomi, e tuttavia la visione complessiva restituisce una terza via, qui proposta, in cui Il gabbiano funge da ponte collettivo necessario verso l’effetto di due diverse declinazioni di performance invece molto concentrata sul corpo-Licia Lanera.

Foto Manuela Giusto
foto di Manuela Giusto

L’apologo simbolico rappresentato dal Cuore di cane di Michail Bulgakov diventa qui una vera e propria fiaba horror, in cui il dialogo tra l’attrice e il ruvido paesaggio sonoro, realizzato dal vivo da Tommaso Qzerty Danisi, si svolge sotto il controllo severo di un cono di luci (Vincent Longuemare) che compatta la visione e l’ascolto in uno spazio limitato, ora angosciante ora lirico, ma sempre puntato all’ambiguità delle forme. Complice la terribile maschera disegnata da Sarah Vecchietti, si realizza così un’area di azione in totale consonanza con i nodi drammaturgici.
Il folle progetto del professor Filipp Filippovič – che innesta organi animali nei suoi ricchi pazienti per frenarne l’invecchiamento e che finisce per trapiantare ipofisi e testicoli umani in un cane – non è che un pretesto per disegnare le storture della vita contemporanea, divisa tra compromessi e terrori, tra concessioni alla natura umana e rifiuti verso il suo giogo socio-politico. Per Lanera diventa poi occasione per attirare il pubblico in un labirintico esercizio di recitazione, in cui l’emissione vocale e i suoi registri puntano costantemente all’alterità, a un moto centrifugo rispetto alla nostra idea di “attrice”. Non solo un esercizio di stile ma di potenza sciamanica, lo stesso tentato – con forse minor successo – in Orgia, trova qui spazio necessario per cominciare un percorso che si svolge a pieno solo nella giustapposizione con gli altri due titoli.

foto di Silvia Milani

A detta di molte analisi, nella produzione di Anton Cechov, Il gabbiano è il testo più completo, più razionale e però più estremo nelle sue simbologie. L’immagine dell’uccello ucciso “per non saper che altro fare”, che affonda le radici in un fecondo terreno di immaginario poetico russo, è qui ben colta da una misura di rallentamento, che investe inesorabilmente l’intero adattamento e allestimento, dal secondo atto in poi.
Una menzione d’elogio compatta va indirizzata alle interpreti e agli interpreti (Vittorio Continelli, Mino Decataldo, Alessandra Di Lernia, Caterina Filograno, Jozef Gjura, Marco Grossi, Fabio Mascagni), così affiatati nel restituire il decadimento di una classe sociale e però plausibili nel loro, qui, essere riuniti sotto la stessa generazione anagrafica. Licia Lanera conserva per sé il ruolo di Arkàdina, insieme burattinaia e vittima dell’intera vicenda, in cui ciascuno, a proprio modo, perde dignità e sacrifica, innanzitutto, la propria giovinezza.

foto di Manuela Giusto

Ecco un primo punto di contatto tra i tre lavori: l’avanzare dell’età, delle responsabilità, della colpa – in un certo modo – che ci raggiunge man mano che la vita ci scivola via dalle mani. E così – su una scena fatta di pochi elementi di seduta e presidiata da un gigantesco quadro a fondale, che è lì lì per crollare – gli stessi intrecci di passione che, nelle parole dei personaggi, dovrebbero risultare travolgenti, assumono in questa oculata direzione della recitazione una veste di squallore che un disturbante calo di ritmo, nell’ultimo atto, renderà ancora più insopportabile.
L’incontro – a vite ormai già sfibrate – tra Kostja e Nina, è quello tra due automi del tutto imprigionati nella gabbia delle convenzioni. «Io sono un gabbiano… no, no… io sono un’attrice», tenta di correggersi la giovane-vecchia Nina. Ed ecco l’altro segnale di coerenza con Cuore di cane e, dopo un radicale cambio di scena, con I sentimenti del maiale.

foto di Manuela Giusto

Quest’ultimo è un coraggioso esperimento di appropriazione di certi principi rivoluzionari – ma, potremmo dire, umani – lasciati da Vladimir Majakovskij, declinato sulla quotidianità degli artisti e teatranti di oggi e con un omaggio al leader della band Joy Division, Ian Curtis, morto suicida a meno di ventiquattro anni. La neve che aveva coperto il palco nei primi due spettacoli – l’ultimo atto de Il gabbiano è letteralmente una nevicata senza posa – è depositata a terra, fuori è primavera e Licia e Danilo (efficace Danilo Giuva) se ne restano barricati in casa a parlare di suicidio, di politica, della condizione degli artisti, lei del suo odio per le donne più giovani. In scena con loro, il pupazzo a grandezza naturale di un maiale appeso a testa in giù e già sventrato, a far da contraltare concreto a ogni mitologia del sacrificio alle muse.
Alle loro spalle, un trio punk-rock-grunge (Dario Bissanti, Giorgio Cardone, Nico Morde Crumor) esegue brani a richiesta, tra Joy Division e Nirvana, e sembra raffigurare quell’anima rivoluzionaria che ormai si accende solo, meccanicamente, “on demand”. Il linguaggio colloquiale si arricchisce di citazioni del poeta russo e de La ballata di Stroszek di Werner Herzog (che pare fosse il film visionato da Curtis prima di impiccarsi alla rastrelliera della cucina). Il gioco del teatro nel recitare estratti come esercizio di finzione e il tono scanzonato si aggravano di moniti imperiosi e profezie di morte, mentre al grande «cittadino Majakovskij» è riservato un quadro finale, in cui le poesie vengono restituite da Lanera al microfono, come la front-woman di un graffiante concerto rock da night club inglese anni Settanta.

foto di Manuela Giusto

Il cuore del maiale – così simile, per la medicina dei trapianti, a quello umano – che viene estratto sanguinante dal maiale ci riporta all’apologo di Bulgakov; torna la performance carismatica su partitura rock che c’era in Orgia e c’era in The Black’s Tale Tour. E però, ancora una volta, la coerenza di questa trilogia sta forse nel ponte offerto da Il gabbiano, in cui il suicidio di Kostja è narrato come quello di Majakovskij: sparare al cuore invece di sfigurare il volto – e si torna all’invecchiamento e all’imago mortis da preservare. Nel contesto di un riferimento al mondo del teatro – sempre presente nel lavoro di questa artista e molti altri – il dramma umano che porta a togliersi la vita è messo a sigillo di un percorso che dalla fiaba horror porta a quell’horror esistenziale consumato nella tenuta di Sorin (uno specchio della deprimente Dacia Bianca, la torre d’avorio di Cechov a Yalta). Eccoci, così, raffigurati, tutti, per quelli che siamo: esseri umani, avrebbe detto Sartre, che esistono per assolvere a questa stessa incombenza. E poi muoiono per dimenticarla.

Sergio Lo Gatto

Teatro Herberia, Rubiera, Novembre 2021

prossime date tournée

Dal 30 novembre al 5 dicembre 2021
Teatro Astra, Torino
GUARDA COME NEVICA 2. IL GABBIANO

19 dicembre 2021
Teatro Piccinni, Bari
GUARDA COME NEVICA – trilogia completa

CREDITI

CUORE DI CANE
di Michail Bulgakov
con Licia Lanera e Qzerty
sound design Tommaso Qzerty Danisi
luci Vincent Longuemare
costumi Sara Cantarone
maschera Sarah Vecchietti
assistente alla regia Annalisa Calice
tecnici di palco Cristian Allegrini e Francesco Curci
adattamento e regia Licia Lanera
produzione Compagnia Licia Lanera
coproduzione TPE – Teatro Piemonte Europa
con il sostegno del MiBAC e Regione Puglia e dell’Assessorato all’Industria Turistica e Culturale, Gestione e Valorizzazione dei Beni Culturali

IL GABBIANO
di Anton Cechov
con Vittorio Continelli,Mino Decataldo, Alessandra Di Lernia, Caterina Filograno, Jozef Gjura, Marco Grossi, Licia Lanera, Fabio Mascagni.
luci Cristian Allegrini
musiche originali Qzerty
scene Riccardo Mastrapasqua
costumi Angela Tomasicchio
assistente alla regia Ilaria Bisozzi
adattamento e regia Licia Lanera
co-produzione Compagnia Licia Lanera, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa
si ringrazia Fauso Malcovati

I SENTIMENTI DEL MAIALE
con Danilo Giuva e Licia Lanera
chitarra e voce Dario Bissanti
batteria Giorgio Cardone
basso Nico Morde Crumor
luci Cristian Allegrini
fonica Francesco Curci
scene Riccardo Mastrapasqua
aiuto scenografo Silvia Giancane
costumi Angela Tomasicchio
regia Licia Lanera
co-produzione Compagnia Licia Lanera, TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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