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Cecchi artefice magico, omaggio all’ultimo Eduardo

Recensione. Programmato al Teatro Argentina già a marzo 2020 e sospeso a causa dell’emergenza sanitaria: Carlo Cecchi porta in scena “Dolore sotto chiave” e “Sik Sik, l’artefice magico”, due atti unici di Eduardo De Filippo.

Carlo Cecchi e Angelica Ippolito – Foto Filippo Ronchitelli

La platea dorata del Teatro Argentina si spegne lentamente. Tutta la sua luce si raccoglie per pochi secondi in proscenio, come assorbita da una fila di lampade di ribalta che tingono il sipario dal basso e che da sole costruiscono un’epoca: di fumo, divette, prestigiatori, miserie e grandezze dell’avanspettacolo. È già il primo indizio dell’idea che accompagna il dittico eduardiano messo in scena da Carlo Cecchi: non solo omaggiare il grande drammaturgo partenopeo, ma rievocarne il gusto, lo spirito, financo il gesto. «L’unica cosa che conta veramente nella vita di un artista è il futuro», scrive un Eduardo de Filippo già maturo, nella nota autobiografica che accompagnerà la raccolta “Eduardo de Filippo. Vita e opere” (Mondadori, Milano, 1986). Un futuro, quello a noi contemporaneo, che continua a riscoprirne le opere, esplorarne il percorso, riproporne i temi. Mai come quest’anno Eduardo è presente nei palinsesti televisivi e nei cartelloni cinematografici, oltre che in quelli teatrali, da cui mai si è assentato (con picchi di grande intensità come il recente Tavola Tavola, chiodo chiodo di Lino Musella). Del patrimonio vasto e variegato che compone il repertorio De Filippo, la scelta di Cecchi ricade su due atti unici dei quali, di Eduardo, non è rimasta che una preziosa traccia sonora, le registrazioni televisive essendo andate perdute nella polvere degli archivi Rai. Dolore Sotto Chiave e Sik Sik, l’artefice magico condividono la fulgida essenza dell’uomo Eduardo. In entrambi gli atti unici – pur differenti per tono, stile, epoca – è condensato il rigore stilistico, l’arguzia linguistica, il divertissement metateatrale, il sentimento mai melenso, le glorie e le miserie del teatro, la penna raffinatissima e popolarissima insieme, convivenza miracolosa. 

Dolore Sotto Chiave – Foto Filippo Ronchitelli

Sul piano rialzato delle scene di Sergio Tramonti, Cecchi costruisce l’angolo intimo e semplice di casa Capasso. Nel fulcro della prospettiva si incontrano due porte, di cui una socchiusa, ma invalicabile. È la porta sorvegliata da Lucia, dietro la quale il dolore è tenuto lontano dalla realtà, la morte attende ignorata, il lutto è celato. Rocco, suo fratello, la spalancherà esasperato. Sua moglie Elena è morta da un anno ma lui non l’ha saputo, perché Lucia, per troppo amore o forse per ingenua volontà di potenza, glielo ha nascosto, privando suo fratello della purezza delle lacrime. Il pianto, agognato e duramente conquistato da Filumena Marturano, torna qui nel racconto grottesco di un lutto a posteriori, non più consumabile, del quale rimangono solo i vuoti rituali e le sorde frasi di circostanza. Angelica Ippolito e Vincenzo Ferrera, Lucia e Rocco, costruiscono un dialogo serrato e diritto, sembrano lasciarsi parlare dal testo, fino all’arrivo dell’accolita del vicinato, con la sua rumorosa e disturbante sollecitudine fuori tempo massimo. La regia di Cecchi decide di assottigliare la portata tragica di una drammaturgia lucida e amarissima, preferendo una lettura quotidiana, ben disposta ad accogliere i pur frequenti spunti comici, in nome di una voluta leggerezza dichiarata dallo stesso regista. Lo conferma il cameo che per sé ritaglia: l’anziano professor Ricciuti, godibile nel balbettio ripetitivo dell’età, si riserva un assolo telefonico che arriva a spostare l’asse della vicenda su un registro dichiaratamente comico, andando a rompere l’originale equilibrio tra pianto e riso. 

Carlo Cecchi e Angelica Ippolito in Sik Sik, l’artefice magico – Foto Filippo Ronchitelli

Eduardo raccontò di avere sempre scritto personaggi più anziani della propria età anagrafica, di modo da avere la possibilità di continuare a interpretarli a lungo. Ma Sik Sik fu un’eccezione anche per lui, quando ottantenne ne vestì il kimono per salutare il palcoscenico ed il suo pubblico, nel ’79 al San Ferdinando di Napoli e nell’80 al Manzoni di Milano. È inevitabile pensare all’omaggio da parte di Cecchi non solo al testo e all’autore, ma a quella particolare circostanza, in cui peraltro al fianco dell’attore e drammaturgo partenopeo c’era la stessa Angelica Ippolito nei medesimi panni di Giorgetta – come identica è rimasta la sua presenza scenica, il gioco prossemico ed il vezzo da soubrette, gli indici alzati ed il fianco ondeggiante, persino lo stato di gravidanza anagraficamente evitabile. Scritto nel 1929 durante un viaggio in treno, senza neanche “l’onore di nascere in una camera d’albergo o in un camerino di teatro”, Sik Sik è il personaggio cui Eduardo si dichiarava più affezionato, il cui nome stesso evoca i tratti inconfondibili del volto dell’autore. Una farsa colma di tenerezza verso la guittaggine, l’arte teatrale minuta e pragmatica, il gioco linguistico che impasta dialetto e italiano in una sfilata di neologismi coloratissimi. A conferma della voluta operazione ricostruttiva, lontana forse dalle sperimentazioni sul patrimonio partenopeo che costellano la carriera dell’attore fiorentino, Cecchi nei panni del protagonista sembra ricercare persino i tempi eduardiani, le sue inflessioni e le sue movenze, sulle quali inserisce il personale piglio severo, meno incline al gioco, avvolto nella solitudine del grande attore. In un’intervista con Piero Ferrero, nel 1997, Cecchi dichiarava: “Io non recito in napoletano, recito in italiano; è il mio corpo che non è italiano, non è in lingua italiana”. Quindici anni dopo, il suo corpo dialettale paga forse il debito del tempo. L’artefice magico, nucleo in cui già si riconoscono le scintille del successivo Uomo e Galantuomo, è qui indolente, compiuto, distante dal fervore giovanile che instillava quell’amarezza sottile, quel gelo tutto eduardiano del mestiere teatrale, negli interstizi delle trovate comiche. Il ritmo appare altalenante, mancando a tratti dell’incisività che muove la macchina comica originale. Così accade nella scena con Dario Iubatti nei panni di Rafele – personaggio che anticipa le più grandi “spalle” delle future commedie. Il “pistigiatrone” deve istruire un uomo incontrato per strada, Rafele appunto, perché gli faccia da palo durante l’imminente esibizione. Tutto preso e innamorato del suo stesso mestiere, pur svelato nei suoi retroscena sempliciotti e arrangiati, Sik Sik ricostruisce numero per numero il suo spettacolo, cui Rafele toglie la poesia orientale ed il guizzo romantico con continue richieste di chiarimenti circa il proprio contributo. La scena è una giostra di fraintendimenti e capriole verbali, ma qui si dilata, si sfilaccia, Iubatti cede al riso, Cecchi lo incalza e da squinternato prestigiatore appare piuttosto anziano Maestro intento a istruire il giovane allievo, ma sempre avvolto nelle proprie sorde certezze.

Questa sensazione continua ad accompagnarci fino all’uscita dalla sala: avere assistito alla celebrazione di un’arte senza tempo, tanto eloquente quanto qui distante, appesantita da quella stessa coltre d’esperienza e sapienza che fa grandi gli interpreti. 

Sabrina Fasanella

Roma, teatro Argentina, fino al 23 dicembre 2021

Date tournée in calendario

10/23 dicembre 2021 Roma Teatro Argentina

4/9 gennaio 2022 Genova Teatro Duse
11 e 12 gennaio 2022 Arzignano (VI) Teatro Mattarello
13/16 gennaio 2022 Modena Teatro Storchi
20/23 gennaio 2022 Ravenna Teatro Alighieri
28/30 gennaio 2022 Caserta Teatro Comunale
3/6 febbraio 2022 Napoli Teatro Nuovo
5 e 6 marzo 2022 Parma Teatro Due
7/13 marzo 2022 Milano Teatro Franco Parenti

Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico
due atti unici di Eduardo De Filippo
regia Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Vincenzo Ferrera, Dario Iubatti, Remo Stella, Marco Trotta

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