Recensione di Borborygmus, di e con Rabih Mroué, Lina Maidalanje, Mazen Kerbaj, in scena al Teatro Astra nell’ambito della XXVI ed. del Festival delle Colline Torinesi
In principio era il verbo, e il verbo era sì presso dio, ma in forma di puro suono. Un rombo, un boato, il big bang che riverbera ancora nella radiazione cosmica di fondo, come un fossile sonoro che vaga per l’universo scuro. Questo mistero del suono immerso nell’ombra è ora al centro del palco. Tre figure umane, tre metronomi, un tavolo spinto in fondo al grande stage del Teatro Astra di Torino, sotto un puntato caldo che incornicia e relega l’intimità del desco in un’atmosfera lontana, presente sulla scena ma come un fotogramma dall’altrove. Rabih Mroué, Lina Maidalanje, Mazen Kerbaj. E tre metronomi. Mroué, Maidalanje e Kerbaj sono i tre metronomi. Ciascuno ha-è il suo, e lo prende, ne afferra il pendolo interrompendone per un attimo la corsa, poi lo ripone sul tavolo, scatenandone ogni volta il ritmo. I tre metronomi tendono, dopo ogni interruzione, a una sincronia. È un fenomeno fisico noto dal XVII secolo: i pendoli si scambiano onde sonore. Eppure quel ciclico allineamento sospinge il tempo dello spettacolo in un antro magico. Borborygmus è sin dal titolo un lavoro anfibio, sinestetico, che si diramerà lungo una serie di biforcazioni a cascata. È un’onomatopea misteriosa, una lingua straniera fatta di rocciosi borbottii ancestrali; è un fenomeno corporeo imbarazzante, semplice e materico come una massa gassosa che fa risuonare l’intestino per qualche congenito o momentaneo problema digestivo.
Mroué, Maidalanje e Kerbaj condividono la città natale, quella tormentata Beirut che è stata, negli anni della loro adolescenza, ininterrotto teatro di una complessa, e tutt’altro che risolta, guerra civile – e che pure ha saputo produrre una scena artistica vivace a partire dai primi anni 2000, fino all’inasprirsi della crisi economica nel 2017. I tre condividono anche l’approdo a Berlino, città che più di ogni altra in Europa ha accolto e saputo far tesoro delle molte artiste e artisti mediorientali immigrati in questi decenni, foraggiando la propria vocazione internazionale. Internazionale è anche la genesi di Borborygmus, prodotto da HAU – Hebbel am Ufer di Berlino e dal Walker Art Center di Minneapolis. Presso quest’ultimo, centro multidisciplinare sulle arti contemporanee, è andato in scena la prima volta, nel gennaio 2019, nell’ambito di un ampio progetto curatelare sul lavoro di Mroué, autore poliedrico attivo fra teatro, musica, arti visive, negli ultimi anni concentrato a indagare le dinamiche di potere delle immagini mediatiche dagli scenari di guerra (come nella conferenza-performance Sand in the eyes) Se questi e Maidalanje vantano un lungo percorso teatrale (Maidalanje è attrice, autrice e regista oltre che curatrice), Mazen Kerbaj è un artista affermato nel campo musicale e del fumetto.
Tanto basta per delineare un approccio sincretico alla scrittura di scena, tutta montata e performata in lingua araba, a sei mani fra autori allenati a stratificazioni complesse fra suoni, parole e immagini. Borborygmus mima una cadenza concertistica – con gli strumenti a fiato dei tre corpi attoriali fanno da ensamble oggetti sonori à réaction poétique, coi loro fruscii, crepitii e gorgoglii amplificati dal fine disegno acustico di Thomas Köppel. Se la lente curatoriale della XXVI ed. del Festival delle Colline Torinesi sono i “confini” e gli “sconfinamenti”, Borborygmus può essere dunque letto come un viaggio a precipizio nel suono come ritualità, come memoria di sé attraverso l’evocazione delle proprie ferite. Dopo la sequenza iniziale, i tre prendono a salmodiare, in cerchio, su l’ouverture de La forza del destino di Verdi.
“All’inizio niente.
Eppoi…
Poi… Poi… Poi siamo entrati.
Poi… Poi siamo stati visti.
Poi abbiamo incarcerato, sequestrato, torturato.
Poi abbiamo picchiato, schiacciato, mutilato.
Poi abbiamo grigliato, schiacciato, smembrato…”
L’anafora indirizza la drammaturgia, articolata in quadri tematici autonomi, verso un passato ciclico, un collasso della memoria, in cui la perdita di nomi, volti, cose si perpetua fino a smarrire, a sua volta, il proprio oggetto. La perdita stessa è dunque il soggetto di Borborygmus. Gli oggetti di scena sono altrettanti correlativi oggettivi di quella voragine, come le decine di bicchierini di plastica con cui tre brindano, trangugiandone la sostanza diafana, alla memoria di figure storiche del conflitto libanese e arabo-palestinese, per poi ammontichiarli e frantumarli fragorosamente sotto il peso del proprio corpo, intonando una preghiera a un altissimo senza nome:
“Ehi oooh! …Oh nebulosa! Oh nulla!
Ascolta questa chiamata,
Tu sei l’onnipotente, e noi siamo solo feccia,
Per tuo onore, rispondi alla nostra chiamata e non abbandonarci…”
Mroué, Maidalanje e Kerbaj agiscono la scrittura con precisione orchestrale, alternando quadri canori a momenti d’azione scenica in cui la scarna precisione dei gesti segue la ratio di immagini i cui protagonisti sono quegli oggetti. La lingua araba, minuziosamente messa a frutto nella sua fisicità ora sabbiosa ora magmatica, non è solo un medium che trascina l’ascolto verso un territorio prelogico. La drammaturgia configura una scelta, un’ulteriore irrisolvibile dualità, fra la tessitura sonora e quella grafica dei sottotitoli. La parola detta, o meglio cantata, genera un doppio grafico-logico, ma con esso instaura un conflitto la cui posta in gioco è l’attenzione del pubblico. Una vera guerra fra la corporeità del suono e la petizione di senso che esso suscita, combattuta su un confine che annienta, metafora di un mondo che grida, con l’urgenza indemandabile di un processo digestivo, il proprio bisogno di logos. È la domanda che ogni guerra suscita: quale il suo senso?
Se da un lato è difficile scindere l’universo simbolico di Borborygmus dalla singolare vicenda libanese, immersa nell’inesauribile conflittualità mediorientale, e dalle relative memorie personale dei tre artisti, dall’altro nella dualità sovrastorica di ascolto e lettura si celebra lo scontro fra due blocchi di civiltà e modi della cultura in antica contrapposizione. L’Occidente che ha ereditato dall’ellenismo un pensiero-visione; l’Oriente che ha raccolto dalla tradizione semitica la preminenza dell’ascolto. Quell’assoluto di cui Borborygmus è un’invocazione che non ha volto nella tradizione islamica, non ha suono in quella ebraica – JHWH, il tetragramma biblico, non ha un corrispettivo fonetico. L’attraversamento di quel confine fra civiltà, nazioni, repertori artistici qui non è però un gesto intellettuale, ma frutto di un doloroso scavo personale, in cui la dimensione biografica, pur senza espandersi pateticamente, fa avvampare il pensiero scenico. Un peccato che il lavoro di Mroué, Maidalanje e Kerbaj in Italia sia passato solo sul palco del festival torinese.
Andrea Zangari
BORBORYGMUS
scritto, diretto e recitato da Lina Majdalanie, Mazen Kerbaj, Rabih Mroué
disegno luci e audio, direzione tecnica Thomas Köppel
luci Arno Truschinski
musica della prima scena La Forza Del Destino – Ouverture di Giuseppe Verdi
prodotto da HAU Hebbel am Ufer, Walker Art Center (Minneapolis)
coproduzione Mousonturm (Frankfurt), Wiener Festwochen
sostenuto dalla rete Alliance of International Production Houses del Federal Government Commissioner for Culture e da the Media e Rosa Luxemburg Stiftung – Beirut Office