Recensione. Farfalle, scritto e diretto da Emanuele Aldrovandi, che si cimenta nella prima regia di un suo testo. Lo abbiamo visto durante le repliche al Teatro Elfo Puccini di Milano.
«Devi farti solletico da sola». Ma se ti fai il solletico da sola, mica si ride. Eppure questo invito obbligato della Mora alla Bionda racchiude nella richiesta i tratti crudeli, ma teneri, del gioco perenne, creato e agito da loro, solo per loro, da quando sono piccole, abbandonate dalla madre suicida e dal padre che ora vive con un’altra donna. Queste le due protagoniste di Farfalle (Premio Hystrio 2015 e Premio Mario Fratti Award 2016) scritto e diretto da Emanuele Aldrovandi e andato in scena la scorsa settimana al Teatro Elfo Puccini di Milano, dopo il debutto a settembre a Bologna al Teatro Arena del Sole che ha dato inizio a una lunga tournée che si concluderà a marzo 2022.
La sala è gremita, il pubblico è attento e si concede anche qualche risata sguaiata, un po’ eccessiva forse ma coerente con una messinscena oscillante sul crinale del dramma grottesco. Al buio e in proscenio, sul lato sinistro, si stagliano i volti di Giorgia Senesi (Bionda) e Bruna Rossi (Mora), la prima è davanti all’altra e rivolgendosi al pubblico inizia con il presentare la loro storia, sin da subito puntualizzando e giustificando la propria condizione di «povere orfane contemporanee»; tuttavia, ci tiene a precisare, «io e mia sorella non siamo cretine come le nostre coetanee». Le parole si rincorrono in un flusso monologante, con qualche zona riservata da soliloquio, le frasi sono all’insegna di una caustica brevità, entrambe si appigliano ai “perché”, “però” e “ma”, a ribadire che, nonostante tutto, «abbiamo lottato», «e ce la faremo». Dal primo piano dei volti, la luce (Vincent Longuemare) si allarga e illumina la scena in un totale dove qualche mobile e un cuscino dal colore rosso vivo si imprimono allo sguardo, restituendo l’aspetto perturbante di quell’interno, reale e metafisico, collocato in un tempo indefinito. La Bionda e la Mora sono vestite uguali, solo con una lunga tunica rossa chiusa da una fila di bottoni sul davanti, portano lo stesso taglio di capelli, cambia giusto il colore; l’unico oggetto che le contraddistingue, momentaneamente, è un filo di collana dorata alla cui estremità si trova una farfalla, correlativo oggettivo della loro unione, preso e ceduto quando danno vita al gioco che le ha tenute vive nella solitudine dell’infanzia, per il quale la richiesta «Allora, giochi o non giochi?» cela una promessa pungente e anche invalidante: «Se tua sorella ti dice di tagliarti un braccio?» «Se non lo faccio ho perso. E il gioco finisce». «Giochiamo da quando abbiamo sei anni. Nessuna vuole perdere».
La tessitura drammaturgica si contraddistingue per una forte connotazione letteraria, le azioni sono spinte dalla parola, dalle elucubrazioni di questi due tipi femminili legati insieme da una morbosità infantile, la cui adultità non riesce a staccarsi dal trauma ma ci convive e lo mette in scena ogni volta che l’una provoca l’altra inserendo, con dichiarata cattiveria, una delle scelte di vita nel gioco, che è «sacro» per entrambe. La personalità delle due e il loro ragionare sul presente si traduce in scena nella chiarezza di definiti momenti narrativi e lineari tra loro: allora la Bionda si sposerà con un matrimonio combinato dal padre – distante ma comunque incisivo nella loro esistenza – avrà due figli e da Milano si sposterà a Palermo per «emanciparsi dall’emancipazione»; la Mora continuerà a studiare e a fare la fotografa fin quando non avrà il desiderio di diventare mamma attraverso la fecondazione assistita eterologa. Il trauma poi, la prospettiva della separazione e il gioco beffardo – quello della vita però e non quello stabilito dalle due donne – nel finale lacererà nuovamente l’esistenza. Le due donne decideranno di giocare ancora o infrangeranno il patto?
All’oggettiva semplicità e trasparenza della scrittura – nella quale si rintraccia un gusto pirandelliano per le relazioni – si contrappone lo straniamento della regia. Aldrovandi sa benissimo cosa illuminare della sua scrittura e cosa lasciare in ombra, tanto nei costumi (Costanza Maramotti) che nell’uso delle luci, nei movimenti (Olimpia Fortuni), e nella scelta delle due attrici. A colpire non è tanto la complessità straordinaria dei personaggi, inseriti in una tradizione piuttosto riconoscibile sia teatrale che cinematografica, quanto la loro direzione e la scelta nell’allestimento (scene e grafiche CMP design). Bruna Rossi e Giorgia Senesi sembrano quasi uscire da uno dei quadri del realismo magico, non smetteresti di ascoltarle, cercando di seguire il flusso affascinante dei loro pensieri, le modalità diverse ma univoche con le quali si esprimono secondo il proprio carattere, e di guardarle, addirittura vorresti parlare con loro. Come le ragazze di Gita in barca di Antonio Donghi, inserite nella realtà di una tranquilla giornata ma familiarmente inquietanti, placide nel nascondere il loro inconscio imprevedibile che emerge dallo sguardo, dall’espressione immobile e sospesa in una calma che si percepisce solo apparente.
In questa rifrazione di senso, lo sguardo sulla storia di Farfalle si fa scrutatore di quella trasparenza data sulla scena: convincono le protagoniste e le loro scelte, anche al gioco ci si affeziona, ma qualcosa turba costantemente la nostra tensione verso di loro e i personaggi coi quali si interfacciano e che interpretano (il padre, la matrigna, il volontario, il becchino, il tatuatore, il marito defunto, il medico, il commesso, il figlio, il bigliettaio…). Non sorprende infatti che questi nella prima stesura dovessero essere dodici grosse bambole presenti sulla scena, oppure attori e attrici nel ruolo delle bambole, secondo quanto riportato da Aldrovandi nel testo.
È così ma potrebbe essere altro. Rivediamo le “apparizioni” pirandelliane, crediamo al racconto della Mora e della Bionda ma giunto il buio in sala, andandocene, ci chiediamo se ciò a cui abbiamo assistito sia esistito o immaginato o quanto sia il risultato di una deformazione della realtà delle due protagoniste, di quella stanza rossa, senza altro colore se non una vestito nero, a indicare il lutto, e bianco, a indicare lo sposalizio. «No, non sono sole: sono in due. Non saranno mai sole. Perché anche se i loro corpi si divideranno, le loro anime saranno sempre unite».
Lucia Medri
Novembre 2021, Teatro Elfo Puccini, Milano
Prossime date in tournée, calendario repliche
12 marzo 2022 Roccabianca (Arena del Sole)
19-20 marzo 2022 Napoli (Galleria Toledo)
26 marzo 2022 Coriano (Teatro Corte)
1 aprile 2022 Spello (Teatro Subasio)
9 aprile 2022 Imperia (Teatro dell’Albero)
21-24 aprile 2022 Reggio Emilia (Teatro Cavallerizza)
26 aprile 2022 Forlì (Teatro Il Piccolo)
21 maggio 2022 Erbusco (Wonderland Festival)
FARFALLE
testo e regia Emanuele Aldrovandi
con Bruna Rossi e Giorgia Senesi
scene e grafiche CMP design, costumi Costanza Maramotti
luci Vincent Longuemare, suoni Riccardo Caspani
movimenti Olimpia Fortuni, design farfalla Laura Cadelo Bertrand
responsabile tecnico Luca Serafini
produzione Associazione Teatrale Autori Vivi, Emilia-Romagna Teatro Fondazione, Teatro
dell’Elfo in collaborazione con L’arboreto Teatro Dimora | La Corte Ospitale: Centro di Residenza Emilia-
Romagna; in collaborazione con Big Nose Production; con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana
(CapoTrave/Kilowatt e Armunia); con il sostengo di Fondazione I Teatri Reggio Emilia
Testo vincitore del Premio Hystrio scritture di scena 2015 e del Mario Fratti Award 2016