Monica Vitti è morta il 2 febbraio del 2022. A novembre aveva compiuto novant’anni e le avevamo dedicato questo articolo: un excursus sulla carriera, gli esordi e il ritorno a teatro dell’attrice romana l’attrice romana, icona del cinema italiano. Nella stagione ’86-’87 tornava in scena con Rossella Falk, per la regia di Franca Valeri, in una versione femminile de La strana coppia.
«Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca». Tutto, concludendosi, è cominciato così: la narrazione vuole che sia iniziato quasi imprevedibilmente, forse perché ci sono incontri, congiunzioni, unioni sottraendosi ai quali imprimere una visione davvero significativa è destinato a non succedere. Le muse si trovano per caso, mentre lavorano, sbagliano, s’affannano, si complicano, crudeli e familiari, nevrotiche e ieratiche, ironicamente drammatiche, tanto carnali e tenere, quanto umane e trascendenti. Quando gli occhi di Michelangelo Antonioni si posano sulla nuca di Monica Vitti al doppiaggio de Il Grido sta per nascere un connubio che scriverà un pezzo di storia del cinema. È con quella famosa tetralogia dell’incomunicabilità (L’avventura 1960, La notte 1961, L’eclisse 1962, Deserto Rosso 1964) che l’obiettivo e gli sguardi del mondo si sono schiusi davvero sul volto dell’attrice romana, per perdervisi e ritrovarvisi tantissime volte, ogni volta. Poi c’è la commedia, l’identificazione dell’unica mattatrice italiana del genere, con accanto solo Tognazzi, Gassman, Sordi, Manfredi… Titoli e registi noti e arcinoti, da La ragazza con la pistola a Dramma della gelosia, da Teresa la ladra a A mezzanotte va la ronda del piacere, da L’anatra all’arancia a Polvere di Stelle.
«Ma io non rappresento niente. Io sono la rappresentazione. Ma sì, è tutto mescolato: la vita, i personaggi… Allora voi direte che è tutto falso. No, è tutto vero. Specialmente i personaggi. Certo, perché per me rappresentare è vivere di più, è aggiungere, idealizzare, trasfigurare. Aggiungere emozione alle emozioni, passione alle passioni. Insomma per me dove finisce la rappresentazione finisce la realtà», sostiene in un filmato presente nelle Teche Rai. E allora prima? Oppure dopo?
Diplomata nel 1953 all’Accademia d’Arte Drammatica, all’epoca diretta dallo stesso Silvio D’amico, Monica Vitti comincia calcando i palcoscenici in vari ruoli e su testi differenti: Euripide, Molière, Shakespeare, le messinscena con Sergio Tofano e le commedie su Bonaventura. Un “apprendistato” non lunghissimo, ma significativo. Nel 1978 il contatto con il teatro si avvera direttamente e indirettamente nell’edizione televisiva per la Rai de Il cilindro di Eduardo De Filippo, atto unico scritto nel 1965 e anche unico testo del drammaturgo ove fra i registri linguistici compare, oltre al napoletano, il romanesco. «Nella stanza ci si vede appena; dai battenti accostati del balconcino entra pochissima luce, sufficiente però ad illuminare di taglio la provocante figura di Rita, la quale, sul pianerottolo trasformato in un improvvisato gabinetto da toilette, a piedi nudi e in una succinta sottoveste, versa acqua da una brocca in un bacile; […]». Il personaggio interpretato da Vitti è la giovane moglie di una coppia di sposi che insieme a Don Agostino architetta uno stratagemma per recuperare la somma necessaria a saldare un debito di locazione, destinato a rivelare amari meccanismi di potere di vario ordine e grado.
Un concreto ritorno in teatro avviene, però, nella seconda metà degli anni Ottanta. Nella stagione 1986-1987 va in scena accanto a Rossella Falk per la regia di Franca Valeri in una versione de La strana coppia, adattata al femminile dallo stesso Neil Simon. La commedia, che dopo la prima assoluta al Plymouth Theatre di Broadway il 3 ottobre del 1965, diviene conosciutissima al pubblico internazionale per la versione cinematografica del 1968 con Jack Lemmon e Walter Matthau. Dell’edizione italiana cifrata Vitti-Falk-Valeri restano, ovviamente, soprattutto materiali d’archivio (parte dei quali sono rintracciabili sul sito www.teatronovecento.it).
Nelle note di regia di Franca Valeri si legge: «Non saprei dare torto a chi pensasse che fare la regia di una commedia come “La strana coppia” con una coppia di attrici di eccezione come Monica e Rossella sia pressoché una passeggiata. Ma spesso in una commedia sicura si nascondono i tranelli della sua lucida pianificazione e nelle attrici eccezionali le fragilità e le ansie del mestiere. E allora in questa passeggiata diventata piacevolmente umana abbiamo scoperto insieme i risvolti del meccanismo, che Neil Simon mette coraggiosamente, direi educatamente avanti a certe “malinconiche riflessioni” che serpeggiano con impudicizia in tanti testi teatrali di oggi. Niente come la discrezione merita di essere premiata. È per questo che il tema non nuovo della solitudine femminile […] acquista una dimensione più tenera e credibile che in tante altre occasioni». Tranelli che forse, per dovere di cronaca, non rimangono sempre velati se Rodolfo Di Giammarco, in una recensione dell’epoca, cifra la sua restituzione scrivendo: «C’è da credere che La strana coppia, versione femminile di Neil Simon, con Monica Vitti e Rossella Falk, costituirà una hit nel panorama di prosa di questa stagione. I nomi illustri (compreso quello della regista, Franca Valeri) ci sono; […]l’inversione di sesso dei personaggi è frutto d’una revisione anni Ottanta dello stesso Simon; in più ora, La Vitti e la Falk paiono orientate, almeno sulla carta, verso un sufficiente agonismo caratteriale. Manca, azzardiamo noi, un ingrediente semplice e imperscrutabile (qui davvero appena scrutato): il teatro, la teatralità. […] »
E prosegue specificando: «Altro è il discorso per Monica Vitti, che riapproda alla scena, eclettica, segnata dal ricorso recente a tecniche che ne hanno affinato la maschera, ne hanno modellato uno straordinario tipo: quel “tipo” per fortuna o purtroppo, influenza il personaggio di questa coppia che tanto strana non è, e la sua Fiorenza è la sradicata maniaca di qualche precedente suo film, è la moglie spedita in mezzo alla strada (si capisce…) dal marito, tipica irrealizzata che per ricambiare il subaffitto mostra il genio del rassettare, del cucinare il manzo alla mongola[…] In coda di spettacolo, è raggiante ma non giustifica la kermesse di tutte le amiche sui ritmi all’incirca rasceliani del “Corazziere”». (Vitti-Falk: duello all’ultima battuta, la Repubblica, 21/11/1986)
Ai microfoni di Speciale TG2, in un’intervista rilasciata per l’occasione, Vitti dichiara a proposito del ritorno in palcoscenico: «Vent’anni dopo. Non sembra. Per vent’anni ho continuato a lavorare, ho fatto cinema, come voi sapete, ma io nasco a teatro. Nasco nei teatri con Tofano, teatri greci, comici… Il ritorno è stato come una necessità di ridere. […] È stato Neil Simon che ha fatto questa versione femminile, che a mio avviso è più interessante di quella maschile, perché i difetti al maschile non sono questi qui. I rapporti tra due donne possono essere più crudeli che tra due uomini. […] Una donna sola che ricomincia da capo, che deve andare a lavorare, che deve rinunciare al marito e qualche volta anche ai figli è un problema. Sono problemi seri, non sono sciocchezze. […]Ho scelto il personaggio opposto a me. Dei due personaggi io somiglio certamente di più per il disordine e per il caos a Olivia, fatto da Rossella Falk. Mi sono scelta quella che pensa solo alla famiglia, ai bambini, e in fondo l’ho scelta perché facendolo, e mi sono molto divertita, pensavo a mia madre. Ecco mia madre è proprio quel personaggio lì».
Parole che fanno eco a quelle contenute nel programma di sala, che firma in quanto direttrice artistica del progetto, e che in qualche modo chiudono il cerchio del nostro spaccato trasversale: «Qualcuno ha detto che il gioco è una cosa seria: necessaria come il pane, importante come un lavoro. E il mio lavoro è un gioco. L’ho scelto senza saperlo a quattordici anni, l’ho scelto perché non sapevo vivere e credevo di dovermi portare dietro le mie paure e i miei dubbi, recitando testi drammatici e opere tragiche e mi ci sono buttata. Ma Tofano scoprì in me un’attrice comica, non sapevo allora di doverne essere contenta. Dunque ho fatto teatro di tutti i generi, da Eschilo a Feydeau. E poi il cinema, quella cosa misteriosa e magica a cui ho dedicato vent’anni con infinito amore, rimandando sempre di tornare a casa, cioè a teatro. Ed eccomi qui. Per me tornare a teatro è capovolgere la mia vita. Non mi alzerò più alle sei, come capita per il cinema. La giornata sarà un tragitto per arrivare alle nove di sera, dove si condenseranno tutte le attese […] Avevo dimenticato il contatto con la gente. Nei teatri di questa prima tournée, molti del pubblico venivano dalle città vicine e ci hanno applauditi tutti con entusiasmo. Veder ridere con gioia, sentirli riprendere fiato, seguire ogni parola, ogni gesto, ogni espressione, come vedessero un primo piano; vederli andare via felici e stanchi con la voce roca dalle risate, beh, questo è il più bel regalo che si possa fare ad un attore. […]».
Per compiere e compiersi spesso è necessario solo riprendere da dove si è cominciato, magari da un Deserto Rosso. Ancora «Dimmi se sto tremando».
Marianna Masselli