Recensione. Imitation of Life, di Proton Theatre, torna in Italia sul palcoscenico del Teatro Astra, nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi. A fine Marzo repliche anche al Teatro Bellini di Napoli.
“Il realismo, per come la vedo io, è l’anti-abitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale […] Realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà” (Il Realismo è l’Impossibile, Walter Siti). Chissà se Kornél Mundruczó e Kata Wéber si sono mai imbattut* nelle cospicue pagine di Walter Siti sul realismo in letteratura. Certo a poche settimane dalla mise en espace romana di Pieces of a Woman (qui nello sguardo di Lucia Medri), seguita a coglierci felicemente impreparati il realismo conturbante del lavoro della compagnia ungherese Proton Theatre, fondata nel 2009 da Mundruczó e Dóra Büki, questa volta in scena con Imitation of Life alla XXVI edizione del Festival delle Colline Torinesi. Uno schermo quadrato domina un controfondale avanzato quasi a filo del proscenio, pervaso dal primo piano di una donna anziana. Sullo sfondo del video, un interno domestico dimesso, pallido come quell’incarnato. Una voce maschile incalza grassa e rauca, tracotante ma goffa, in lingua ungherese (sottotitoli in italiano e inglese su due schermi laterali), inchiodando il volto a suon di interrogativi dal tono poliziesco. L’uomo, esecutore di uno sfratto per conto di una compagnia immobiliare, domanda le generalità per istruire la sua pratica. Nella richiesta semplice e abnorme di declinare il nome, sono in gioco l’identità e la vita di quel viso scavato, torturato da un dispositivo che ne cattura, ingigantisce, amplifica l’immagine.
La donna è violentata dallo sguardo, la sua proiezione video squaderna impietosa, una ad una, le rughe del volto a favore di pubblico. L’immagine produce una confusione, una confessione. La donna consegna all’occhio inquisitore le piaghe di una vita subalterna, le angherie al limite della segregazione subite dalla sua minoranza, quella rom, in un paese radicalmente lacerato. Non si tratta però del lamento di una vittima: il fuori scala del volto invade la platea, la sua dignità matronale si sostanzia nel ricordo delle piccole conquiste strappate all’esistenza dell’odiata minoranza. Le sciagurate politiche dell’era Orbàn, lo intuiamo, sono il frutto di una povertà umana antica e diffusa. Le sonorità fascinose e a tratti tetre della lingua magiara cantano il dolore prima che ci colpisca il senso della traduzione. Lili Monori è un’attrice di lungo successo, star della scena e dello schermo ungheresi (anche nei film dello stesso Mundruczó), ma prima che lo spettatore scorga nelle immagini l’artificio dell’attorialità, prevale l’impressione di un frammento documentaristico. Così riusciamo a vedere, attraverso il racconto, il corpo nudo e straziato del marito della donna, trascinato via da un treno in corsa; così immaginiamo il figlio tentare di candeggiarsi la pelle per fuggire lo stigma imposto alla propria etnia, negando, con un larvale colpo di finzione, la propria storia, per imitarne un’altra.
Poi lo schermo sale, svelando il perfetto interno disastrato di una periferia dell’Est Europa, freddo e polvere fra calcinacci e ninnoli. Un quadro iperrealista, un elenco di memorie fra tenerezze familiari dimenticate e lacrime, invece, presentissime. Quello stesso disvelamento che divide il proemio dallo svolgimento di Pieces of a woman, quell’identica incarnazione dell’immagine bidimensionale in video nel baratro retrostante che è la scena. La scena: un asfissiante interno domestico che racchiude l’inferno nei particolari. È proprio l’eccesso di dettaglio che ferisce l’occhio. L’uomo e la donna sembrano piccoli, fragili ritagli di materia scartata nello squallore domestico. Quasi impietosito lui (Roland Rába); sopraffatta, lei, che caracolla fino a svenire. Reale, troppo reale, al punto di vomitare la realtà in artifici smaccatamente scenografici, come la pioggia vaporizzata, che gioca a mimare il cinema, complicando la prospettiva del realismo: i segni possono imitare la realtà, o imitare altri segni che imitano la realtà. La metafora dello specchio, che non esaurisce affatto – come ancora Siti (fra molti altri) ci ricorda – il gioco realista, per Mundruczó e Weber si trasforma nella metafora dello schermo. È sull’epidermide mediale che la realtà resta imprigionata, producendosi in altra, nuova realtà.
Questo sovraccumulo di realtà che imbeve gli schermi, che innerva il naturalismo scenografico e quello recitativo (fino al rigurgito in scena, che ricorda il rutto di Vanessa Kirby nella versione filmica di Pieces), trova puntualmente, nel linguaggio di Mundruczó e Wéber, dei punti di saturazione ove si smaglia il velo della rappresentazione lasciando intravedere un sostrato luminoso, una breve intermissione onirica subito riassorbita e che tuttavia mette irrimediabilmente in vibrazione il dramma. Una sorta di glitch, o di ineffabile luce attraversa il conversation piece, infondendosi sulla scena ora densamente come un taglio caravaggesco, ora in forma di pulviscolo dorato come in un paesaggio di Millet. Si eviterà qui di raccontare il meccanismo di ribaltamento scenico di Imitation of life, quell’attimo magnetico che “coglie impreparata la realtà”, che rivoluziona la scena lasciandola identica a sé stessa e propiziando, qui, un secondo quadro domestico, successivo all’esecuzione dello sfratto.
Una giovane madre (Annamária Láng) e il suo bambino (Dáriusz Kozma) abitano ora il fatiscente, eppure agognato interno. Fatiscenti sono anche le loro vite, forse persino più misere di quelle dei precedenti inquilini, soppiantati nell’arco di una notte. Vite appena imitate, non davvero vissute, ma anche vite che, a due a due, si imitano: due madri e due figli destinati a coabitare in quello specchio o schermo rotto che è la casa, correlativo oggettivo della poetica di Mundruczó e Weber. La casa come nazione distrutta, come Europa a pezzi, come famiglia spaccata. La casa come casa. Nel tramestio della casa il bambino sogna di incontrare Sylvester (Zsombor Jéger), il figlio dell’anziana sfrattata. Il sogno diventa immagine che scorre sugli schermi laterali, poi l’immagine diventa corpo e Sylvester è vomitato dallo schermo sulla scena. I due figli si scrutano, mentre Sylvester afferra una spada nascosta, forse quando era bambino, dietro un muro. Un testo proiettato riporta un fatto di cronaca. A Budapest, un ragazzo ha accoltellato un minorenne, di etnia rom, sul bus. Alcuni scendono in piazza, a sostegno della minoranza rom, poi si scopre che anche l’assalitore è della stessa etnia. Stiamo per assistere a quell’accoltellamento? No, qui non siamo su un bus, eppoi quella è una spada, non un coltello. Attenzione però: il realismo è l’impossibile.
Andrea Zangari
Teatro Astra, Festival delle Colline Torinesi (TO) – Ottobre 2021
Prossime date in calendario tournée
24-27 marzo 2022 Teatro Bellini, Napoli
IMITATION OF LIFE
scena Márton Ágh
costumi Márton Ágh, Melinda Domán
luci András Éltető
scritto da Kata Wéber
drammaturgia Soma Boronkay
musiche Asher Goldschmidt
assistente alla regia Blanka Rákos
regia Kornél Mundruczó
produzione Dóra Büki
foto Marcell Rév/Proton Theatre
coproduzione Wiener Festwochen, Vienna, Austria; Theater Oberhausen, Germania; La Rose des Vents, Lille, Francia; Maillon, Théâtre de Strasbourg / Scène européenne, Francia; Trafó House of Contemporary Arts, Budapest, Ungheria; HAU Hebbel am Ufer, Berlin, Germania; HELLERAU – European Center for the Arts, Dresden, Germania; Wiesbaden Biennale, Germania