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Drammaturgie di genere e nuovi linguaggi. Un racconto dal Festival dell’Eccellenza al Femminile

Si è svolto mercoledì 10 novembre 2021 il convegno internazionale Nuovi paradigmi teatrali/Drammaturgie di genere e nuovi linguaggi, all’interno dei lavori della della XVII edizione del Festival dell’Eccellenza al Femminile/Next Generation Women. Contenuto in media partnership.

Una foto di Traces of Antigone
di Christina Ouzounidis andato in scena durante il Festival

«Ho le emozioni di una donna […] ma solo le parole degli uomini. Da questa contraddizione sorgono confusioni e complicazioni infinite. È stata liberata dell’energia, ma in quali forme dovrà scorrere? Sperimentare le forme accettate, scartare quelle disadatte, crearne altre più aderenti è il compito che va eseguito prima che possano darsi libertà o realizzazione».
Così scriveva Virginia Woolf, nel saggio Men and Women, apparso sulle pagine del «Times Literary Supplement» il 18 marzo 1920. Ventinove anni prima, per intenderci, dell’uscita, per Gallimard, de Le Deuxième Sexe di Simone de Beauvoir.
Un secolo (e quattro decenni di Gender studies) dopo, la questione è ancora così densa e composita che, per avvicinarla, sembra necessario disporre di strumenti sottili, e interpellare più voci.

Per questo, il convegno internazionale che si è svolto il 10 novembre scorso – alla Nuova biblioteca universitaria di Genova e online – intitolato Nuovi paradigmi teatrali/Drammaturgie di genere e nuovi linguaggi, ha avuto il pregio di offrire uno spazio di dialogo libero e ampio attorno a questi temi, ponendosi in osservazione di un mondo, quello del teatro, governato da logiche altamente specifiche e spesso confinato “ai margini” del discorso che interessa le arti in prospettiva di genere. Il convegno è stato organizzato e moderato da Consuelo Barilari, all’interno dei lavori, ancora in corso, della XVII edizione del Festival dell’Eccellenza al Femminile/Next Generation Women (http://www.eccellenzalfemminile.it), del quale Barilari è direttrice artistica.

Il primo elemento di interesse è evidente fin dal titolo che tiene insieme drammaturgie di genere e nuovi linguaggi, investigando dunque il rapporto tra queste scritture “al femminile” e la mutevolezza espressiva della scena contemporanea. Un terzo vertice è offerto, a questo ragionamento, dal sottotitolo: La cultura che cura. Alla vigilia del secondo anniversario della pandemia, si avverte ancora la necessità di una riflessione che si discosti dalle retoriche (ormai esauste) e si faccia carico della complessa questione dell’arte teatrale come pharmakon. Un termine che, da Platone in avanti, custodisce un’ambiguità sostanziale: «veleno» /«medicina», ma anche «testo scritto»/«menzogna» (così nel Fedro) e rituale antico di purificazione cittadina. Le funzioni testuale e performativa convergono dunque all’interno di quella curativa, fin dentro la sua radice etimologica, e tracciano i perimetri di un’indagine sulle voci femminili della scena contemporanea davvero promettente, meritevole di ulteriori occasioni e luoghi per essere approfondita e rilanciata.

In apertura, la relazione di Martina Alessia Parri (dell’Università Statale di Milano) dedicata alla drammaturga slovena Simona Semenič ha puntato al cuore di una questione cruciale: la riconsiderazione del rapporto tra testo e corpo e la possibilità di una drammaturgia costruita come una performance, che integri quindi alla propria poetica meccanismi di pratica scenica. Dopo di lei, Gianfranco Bartalotta, direttore della rivista «Teatro contemporaneo e cinema», è intervenuto sul problema, come sempre spinoso,  delle categorie di genere, sostenendo che la sfida delle scritture del futuro consisterà «non nella virilizzazione delle donne ma nell’affidamento, agli uomini della femminilità». Milagro Martín Clavijo, professoressa associata dell’Università di Salamanca, ha incantato l’uditorio con una disanima della funzione dell’umorismo nella società postmoderna, non incline al dramma, e sull’ambiguità degli oracoli, lambendo la questione della “gabbia di Penelope” nell’opera della drammaturga Patrizia Monaco, tra le relatrici del pomeriggio. Sulla scia mitologica, si situa anche l’intervento di Caterina Barone, critica teatrale e grecista, che si è occupata delle «figure femminili antiche, nate per un teatro al maschile, prodotte da una società misogina» e della loro scrittura per mano di autrici, da Marguerite Yourcenar, a Dacia Maraini, fino a Valeria Parrella. Alina Narciso, della Red de La Mujeres Teatristas cubana, ha portato una testimonianza “dal palcoscenico”, a proposito di militanza, della maniera di fare rete delle donne (un concetto caro al critico Carlo Dionisotti, nel suo caso applicato alle poetesse del Rinascimento) e della necessità di stringere alleanze tra artiste e critiche di teatro, in funzione di un modo di narrare autenticamente dibattuto e condiviso. L’intervento di Carlo Fanelli (professore di Discipline dello spettacolo dell’Università della Calabria) è stato consacrato, dopo un ricordo di Renato Palazzi, al ragionamento sull’anacronismo del concetto di avanguardia («va espulsa la dimensione dell’eccezionale»), al cospetto di un teatro inteso sempre come organismo vivente. Ha chiuso la mattinata la storica dell’arte Linda Kaiser spostando la riflessione sulle frequenze (e le frontiere) della performing art.

Nel pomeriggio, si sono intrecciati gli interventi della critica de Il secolo XIX Silvana Zanovello e presidente del Premio Ipazia – Nuova Drammaturgia, del professor Roberto Trovato (Storia del teatro all’Università di Genova), della drammaturga Patrizia Monaco, di Eugenio Pallestrini, presidente del Teatro Stabile di Genova fino al 2016 e del critico Andrea Porcheddu. Intrecciati e non susseguiti perché – pur nella varietà degli spunti proposti e dei punti di osservazione specifici dei relatori – la parte finale della giornata si è offerta all’uditorio come un tempo unico, disteso, di ragionamento condiviso attorno ad alcuni nuclei. Trovato e Monaco hanno come “duettato” sul tema della vitalità della drammaturgia al femminile, dell’umorismo nato da penne di donne e sull’interferenze dell’elemento mitico, mentre Porcheddu si è soffermato sulla valenza sociologico-antropologica del teatro come luogo dell’elaborazione del lutto e dunque sul ruolo da esso ricoperto nei “luoghi della violenza” (è di pochi mesi fa la sua proposta operativa di un teatro per l’Afghanistan: https://www.glistatigenerali.com/teatro/il-teatro-per-lafghanistan-due-piccole-concrete-proposte/).

Al termine di questo lungo attraversamento – e sul confine, sempre problematico, tra la cognizione dell’immanenza dei linguaggi e la necessità di elaborarne di nuovi per “far accadere” il futuro – il vero esito (evolutivo) di questo convegno sembra essere l’invito a riconoscere tutto ciò che è eccellenza, ma anche tutto ciò che eccellenza potrebbe divenire.

Redazione, a cura di Ilaria Rossini

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