Recensione. Gabriele Russo dirige una versione contemporanea del dissacrante testo di Patrick Marber: Don Juan in Soho. Visto al Teatro Bellini di Napoli.
Il Don Giovanni, nella riscrittura di Patrick Marber, si ripropone come occhi (mani e bocca) della contemporaneità, e lo fa dalle squallide e balorde strade di Soho; la regia di Gabriele Russo, che dirige questa versione di Don Juan in Soho sulla scena del Teatro Bellini di Napoli, ne spinge la riflessione sull’edonismo e sulla ricerca ossessiva del piacere come elementi critici dei perimetri della libertà individuale.
Il principio, in prolessi: il protagonista, morto e imbavagliato, è steso contro un lungo telo bianco rivestito di pellicola, e il contorno di personaggi si anima intorno a lui. Buio.
Si ricomincia. Cambio di scena: nessun telo bianco, ma due tende color indaco e un divano in pelle dello stesso colore; sul palco, il cognato Colm (interpretato da Enrico Sortino) e il servo Stan (Alfonso Postiglione), divertenti nell’imbastire la dinamica farsesca, stuzzicano nell’attesa dell’arrivo di Don Juan (diventato DJ)
Ed ecco il Don di Daniele Russo, accompagnato da musica assordante e colpi di bacino; si impone non lesinando in sessualità volgare e accattivante, aiutato da un corpo statuario e padrone del movimento, oltre che bello. Gli sono complici le prime risate incerte, soprattutto maschili; le donne, proprio le donne, gli sfuggono ancora. Don Juan è con Colm e il servo Stan; si aggiungono la moglie Elvira (Noemi Apuzzo) e il fratello di lei, Aiace (Joele Anastasi). La vicenda segue nelle grandi linee gli eventi del testo originario: Don Juan ha sposato la giovane idealista Elvira per il piacere di toglierle la verginità. Riuscito nell’intento, l’abbandona e viene inseguito dai fratelli di lei che cercano vendetta.
L’edonismo è un patto: c’è chi guarda e soccombe e chi si lascia guardare. Il pubblico si è già completamente sbottonato, succube e fiducioso del libertino. Si avvertono risate a bocca spalancata e senza posa. Una coppia, madre e figlio, dapprima chiusi in un blocco apatico di inibizioni, non ha potuto resistere oltre; si sente, chiaramente, la donna grugnire.
Questa esplosione di risa avviene quando nel corridoio di un ospedale la frizzante Lottie (Federica Altamura) pratica una vigorosa fellatio al nostro, che intanto cerca di circuire una disperata Mattie (Claudia D’Avanzo), che ha perso il compagno in uno scontro tra imbarcazioni (una delle quali condotte malamente proprio da DJ).
Il patto è stato stretto, e Don Juan può fare tutto quello che vuole. Turbina, striscia, balla, offre il suo orologio a un senzatetto musulmano in cambio di una bestemmia, tira cocaina, accarezza prostitute, disprezza e umilia il padre disperato di avere un figlio talmente restio al rispetto altrui.
Le pedane rotanti realizzate da Roberto Crea gestiscono i tempi e gli spazi delle frenesie schizofreniche delle azioni, mentre l’orchestrazione delle luci in stroboscopie, iridescenze e freddezze da neon espongono i personaggi nel loro sforzo fisico di imporsi.
A reggere tutto il gioco è il solo Russo, mentre gli altri gli si affannano intorno e addosso (ad eccezione del solo Postiglione che è un brillante servo, l’unico a mantenere intatta la tradizione del suo ruolo, anche nella modernizzazione della sua divisa da lacchè): lo inseguono sulle pedane (affaccendandosi di volta in volta a cambiare scena, come se anche loro fossero accessori), non riuscendo mai a raggiungerlo, se non quando serve al Don che interrompe le sue lunghe falcate da passerella ballando, muovendo il bacino e mimando un cunnilingus.
Pochissimi sono i momenti di quiete del pubblico: è muto alle apparizioni della Statua (Claudio Benegas) che non è più il Commendatore del testo di Molière ma simbolicamente centro di un’indecorosa piazza e che, con una voce quasi femminea, lo avverte e gli ricorda che dovrà morire.
Davanti allo sfrenato infischiarsene di Don Juan non si avverte però quel fastidioso disagio in un angolo della testa, quasi un ronzio, di star guardando qualcuno che sta conducendo uno stile di vita altamente distruttivo per sé stesso e per gli altri. Russo è genuinamente sfrenato e sensuale, ha fagocitato qualunque cosa, e la malìa e la postura di quel suo corpo sano hanno espresso una sessualità sì estrema, ma decisamente godibile e gioiosa da guardare. Senza alcuna ambiguità. D’altra parte tutto lo spazio scenico così costruito è funzionale alla sua semplice esaltazione.
A questo punto, il suo estemporaneo proclamarsi Superuomo, coerente e quasi puro davanti all’ipocrisia e alla crudeltà del mondo, è abbastanza per dirsi resistenza?
Nelle produzioni britanniche, del 2006 e del 2017, il Don Juan è interpretato rispettivamente da Rhys Ifans e David Tennant. Entrambi sono dotati di una fisicità longilinea e nervosa, probabilmente adatta (come si vede da alcune foto di scena) a manifestare una vitalità insieme disturbante e affascinante (in un articolo del Guardian si fa riferimento alla capacità di Tennant di offrire la “rappresentazione della desolazione dell’edonismo”).
Cinquecento anni fa, Don Juan sputava sui Sacramenti e alzava pascalianamente le spalle davanti a Dio. E adesso?
Forse il narcisismo come atto di resistenza poteva avere senso quasi vent’anni fa, quando, all’apparizione del testo nel 2006, quella delirante fellatio avrebbe potuto essere foriera di risate sguaiate e stupite e finalmente libere. Forse quel mondo a cui contrapporsi poteva reggere il confronto con Dio. Forse.
Valentina V. Mancini
Teatro Bellini, Napoli – Novembre 2021
DON JUAN IN SOHO
di Patrick Marber
ispirato al Don Giovanni di Molière
con (in o.a) Federica Altamura, Joele Anastasi, Alfredo Angelici, Noemi Apuzzo, Claudio Benegas, Claudia D’Avanzo, Mauro Marino, Alfonso Postiglione, Daniele Russo, Arianna Sorrentino, Enrico Sortino
scene Roberto Crea
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
regia Gabriele Russo
produzione Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini