Recensione. Deflorian/Tagliarini seguono la traccia del passo di Ginger e Fred di Fellini, per rintracciare l’impronta del proprio percorso artistico ed esistenziale. Tra febbraio e aprile in scena a Bologna, Prato e Milano.
Era il 1985 quando usciva Ginger e Fred, di Federico Fellini. Era il 1985, la metà del decennio imprevedibile, quello della morte in differita di Ceausescu e anche dell’irreale tragedia dell’Heysel, della potenza dell’immagine di piazza Tien’an’men e della postulazione di un evento come la caduta del Muro di Berlino in un preciso giorno di novembre, il decennio che della riproduzione avrebbe conservato il carattere di finzione, che avrebbe consegnato dunque la storia alla propria risacca, la realtà alla rappresentazione. In Italia era già il tempo che la TV commerciale, in nome di un liberismo sfrenato, lanciato a tutta velocità da un concetto puerile di capitalismo eterno, aveva iniziato a colonizzare ogni sfera della comunicazione mediatica, finendo poi di lì a poco per assumere su di sé l’industria stessa dell’informazione tradotta in imbonimento, della depravazione del costume nazionale come sfoggio di un ideale di bellezza stantia e patinata. Era il 1985 e Federico Fellini non ignorava nessuna di queste pericolose trasformazioni, lui, il regista dell’immagine poetica, sognante, che non avrebbe mai scambiato la finzione del cinema con quella mistificazione diffusa, l’artista che proprio in quel momento ebbe bisogna della propria autobiografia dell’invecchiamento, celata nei corpi, nelle parole di due anziani ballerini del tempo precedente, chiamati su un palco che li avrebbe ridicolizzati a interpretare per l’ultima volta il loro ballo e, insieme ad esso, il loro passo finale all’arte, alla vita, alla società per come l’avevano conosciuta. Qualcosa di simile, in dedica proprio al Ginger e Fred felliniano fin dal titolo che ripete una frase dei due protagonisti, è in Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, spettacolo del duo Deflorian/Tagliarini, ora in scena al LAC di Lugano e dal 24 al 28 novembre alla Comédie de Genève, ma qui visto al Teatro Argentina di Roma, anticipato dal gemello Sovrimpressioni, nato dalla stessa matrice e confluito in un dialogo complementare.
Non a caso la scena si apre, con un’ironia che non abbandona mai l’intero spettacolo, su di un palco vuoto, raggiunto da una guida che illustra per cinque turisti le rovine di quello che, un tempo, era chiamato teatro. Inizia qui, da una metanarrazione, un percorso intimo e poetico di svelamento che porterà a identificare il teatro, da sempre avamposto e vedetta di profondità, con la società contemporanea. La simmetria che guida l’intenzione artistica di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini vede nel teatro morente, forse già morto, forse nell’atto stesso di morire fin dalla propria origine, il nodo della propria progressiva stanchezza, quella della creazione entro certi determinati schemi, quella dell’irrinunciabilità dell’altro, fino a riconoscere in contrario di non poterne, tuttavia, fare a meno. È, dunque, il loro teatro impossibile senza il ricorso alla flessione verso sé stessi, come esseri umani prima che artisti, riguardo il loro invecchiamento, il peso che grava sulla creatività.
La vicenda, pur nascendo dai frammenti esistenziali dei due artisti che volutamente non trovano – se non di rado – una continuità, si articola attraverso un dialogo che attraversa il tempo intersecando gli eventi alla biografia, concretamente i corpi agli stessi avvenimenti: sarà dunque una coppia giovane quella composta da Martina Badiluzzi e Francesco Alberici, una coppia più adulta interpretata da Monica Demuru e Emanuele Valenti, infine “la” coppia, quella attuale, avanguardia di un ispessimento dell’esperienza, Daria e Antonio come sono oggi dopo tanti anni insieme alle spalle. Ognuno dei duetti, per restare nell’ambito del ballo, esprime un determinato momento non della Storia, ma della loro storia di attori: dal primo periodo in cui si è giovani, si accetta ogni lavoro anche umiliante (in abiti da camerieri serviranno in un ipotetico ristorante) pur di non abbandonare il proprio sogno; poi al periodo di una acquisizione di potenzialità, ma soprattutto di professionalità non più ridotta in aspirazione ma amplificata da una concreta, nuova ricchezza espressiva; infine il periodo in cui tutto sembra già dato, in cui dover faticare per ritrovare stimoli, sensazioni, vibrazioni di una scelta per la quale aver fatto molti sacrifici, per cui è impossibile, così parte dell’esistenza come nessun altro mestiere, non fare sacrifici.
Sul palco “reliquia”, illuminato al caldo da Gianni Staropoli e Giulia Pastore con retrospettiva nostalgia, sono due camerini, ai due lati della scena (ideata da Paola Villani), luoghi della confessione dal tutto in luce al tutto buio, del privato prima e dopo il pubblico, dell’ebbrezza dei minuti che precedono il teatro, della decompressione dei minuti che a esso succedono. È proprio dai camerini che il racconto emergente dell’attore, medium dell’esperienza emotiva del palco inteso come l’esistenza tutta, cerca di bucare l’ascolto di un più ampio pubblico, ma così compresso in sé stesso non sembra riuscire a sostenerne lo sforzo, ruotando vorticosamente su di sé, come non ci fosse – si ricordano esperienze invece più compiute, primo fra tutti il Rewind di alcuni anni fa – la chiave di uscita dalla biografia al mondo esterno.
Come ben analizza Maddalena Giovannelli in un suo recente articolo su Doppiozero – e come già era emerso dalla visione di Everywoman di Milo Rau – inizia a farsi evidente come questo reiterato ricorso alla focalizzazione biografica rischi di impossessarsi del racconto, senza più mediare l’una esperienza con l’altra, la vita con il teatro, refluendo al tempo contemporaneo la vitalissima meccanica dell’autofinzione che aveva, di recente, espresso l’avanguardia di più di una narrazione artistica, dal teatro alla letteratura. Ma, convinzione che si avverte anche in una recensione di Carlo Lei su Krapp’s Last Post, sembra come se lo spettacolo questo rischio di fallire voglia affrontarlo, come se fosse ciò che la Grande Muraglia è stata per Marina Abramović e Ulay, come se quell’invecchiamento di Ginger e Fred, incapaci, per naturale reverenza al tempo, di eseguire il numero di tip tap con la stessa leggerezza di allora, riverberasse nella relazione tra i due artisti che più volte fanno riferimento alla consunzione dell’esperienza, al decadimento di certi meccanismi che funzionano sempre meno e rischiano di farsi abitudine, all’arte, e più di tutti il teatro, che non funzionerà mai come ripetizione di uno schema.
Simone Nebbia
Ottobre 2021, Roma, Teatro Argentina
Leggi altri articoli e recensioni su Deflorian/Tagliarini
Tournée:
20-23 aprile ’22, Triennale, Milano (IT)
10-13 febbraio ’22, Fabbricone – Teatro Metastasio, Prato (IT)
3-6 febbraio ’22, Arena del Sole, Bologna (IT)
AVREMO ANCORA L’OCCASIONE DI BALLARE INSIEME
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Ginger e Fred di Federico Fellini
interpretazione e co-creazione: Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini, Emanuele Valenti
aiuto regia e collaborazione alla drammaturgia: Andrea Pizzalis
consulenza artistica: Attilio Scarpellini
luce: Gianni Staropoli e Giulia Pastore
scene: Paola Villani
suono: Emanuele Pontecorvo
costumi: Metella Raboni
direzione tecnica: Giulia Pastore
foto e video di scena: Andrea Pizzalis
cura e promozione: Giulia Galzigni / Parallèle
amministrazione: Grazia Sgueglia
Foto: Andrea Pizzalis
un ringraziamento a Lorenzo Grilli per il training tip tap e a ziamame per la collaborazione ai costumi
una produzione: Associazione culturale A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio Prato
coproduzione: Comédie de Genève, Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre populaire romand – Centre neuchâtelois des arts vivants, Théâtre Garonne – scène européenne et Centre Dramatique National Besançon Franche-Comté
con il sostegno di Interreg France-Suisse 2014-2020, programma europeo di cooperazione transfrontaliera nel quadro del progetto MP#3, e del Romaeuropa festival
residenze: Ostudio Roma, Théâtre Garonne – scène européenne
Durata: 1h 40′