Colpi di Scena 2021: secondo di due approfondimenti curati dalla redazione di Teatro e Critica in collaborazione con Accademia Perduta Romagna Teatri. Contenuto in media partnership.
Info e pagina con entrambi gli articoli
Fermarsi, pensare e rilanciare, questo in fin dei conti l’obiettivo di Accademia Perduta Romagna Teatri con l’incontro, voluto dalla dramaturg e studiosa Renata Molinari e ospitato all’interno di Colpi di Scena a fine settembre nella città di Forlì. Nell’articolo di Viviana Raciti è possibile leggere il resoconto completo dell’incontro che restituisce un panorama molto diversificato ed eterogeneo, rappresentazione plastica di quella pluralità dalla quale non si può prescindere nella comprensione del teatro contemporaneo. Una mappa eterogenea che naturalmente è fortemente influenzata dai modi di produzione e non solo dagli obiettivi estetici e tematici: un panorama di finanziamenti pubblici al teatro d’arte, quello italiano, che principalmente si evidenzia essere a macchia di leopardo e concentrato in alcune regioni del centro nord; anche quando non si parla di finanziamento diretto è comunque il tessuto complessivo sociale e culturale ad essere predisposto in maniera diversa da nord a sud.
Con chi parliamo? Chi ci parla, chi parla di noi? Siamo dunque di fronte all’annosa questione dello spettatore e delle comunità. Va detto, come presupposto a qualsiasi ragionamento sul tema, che queste domande poste nelle settimane prima dell’incontro arrivano in un momento di dubbi, di interlocuzione e di estrema fragilità per il tessuto teatrale (e i suoi plurali orditi appunto), ma allo stesso tempo in un momento in cui ci sembra di avanzare nella notte, con i fari non sempre funzionanti. Mentre scriviamo questo articolo i casi di covid-19 cominciano a mettere in leggero allarme le strutture sanitarie, il 17% della popolazione non è protetta dal vaccino, ma dalla metà di ottobre teatri e luoghi di spettacolo e cultura in generale sono tornati al 100% di capienza. Quanto questa situazione influirà sulla creazione teatrale e sul rapporto con gli spettatori lo diranno le analisi future, però lo scollamento presente nella società è già visibile nelle nostre platee, si legga ad esempio questa riflessione di Nicola Borghesi apparsa qualche settimana fa sul suo profilo Facebook, nella quale sostanzialmente l’artista bolognese si poneva proprio il problema delle opinioni degli spettatori in questo momento storico nel quale per entrare in teatro è richiesta l’esibizione del green pass per la sicurezza di tutti.
D’altronde, come da un po’ di anni a questa parte, si evidenzia sempre di più una cesura tra quei gruppi e artisti che vedono nel teatro una possibilità di comunicazione popolare, un bisogno insomma di parlare al maggior numero possibile di persone accantonando dunque sperimentalismi e ricerche linguistiche che allontanerebbero il pubblico e chi invece difende la scelta di una complessità in grado anche di mettere in difficoltà lo spettatore sfidandolo sul piano dei linguaggi e della verticalità tematica. La differenza tra questi approcci è talvolta una differenza anche generazionale.
Emanuele Aldrovandi, autore e regista, punta a uno spettatore che non dovrebbe necessariamente essere alfabetizzato per capire i suoi testi: «io pongo in questo presente delle domande universali, cerco di abbattere le barriere di comprensione rispetto al pubblico, cerco di fare cose che siano facili da capire e difficili da interpretare. So da spettatore quanto sia difficile conoscere troppa filosofia, troppa storia del teatro, la soffro, perché sembra di parlare a un gruppo di accoliti. Si restringe altrimenti troppo il valore sociale di quanto facciamo». La comunità chiusa, iper specializzata fa paura all’attrice giovanissima di Les Moustache, Ludovica D’Auria, che parla di involuzione: «Il fatto che tutti a fine spettacolo si conoscano mi fa venire i brividi».
Verrebbe da chiedersi però se questo istinto non abbia in sé già un rischio di tramutare, anche involontariamente, il popolare tanto agognato in populismo o anche semplicemente di livellare le aspettative del pubblico su un orizzonte minimo al ribasso; si legga la riflessione di Loredana Lipperini su un tema che certo è spesso al centro del dibattito ma che ripreso da una scrittrice e divulgatrice (voce di Radio Tre) abituata a porsi da anni il problema del pubblico mostra anche un’urgenza inevitabile.
Gianni Farina e Consuelo Battiston di Menoventi ad esempio puntano a ragionare sul concetto di dialogo con gli spettatori, di “reciprocità”: «io parlo sempre a qualcuno anche se non sto recitando, sono un’opera d’arte viva e dunque parlo ai vivi. Parlo alle persone che amano gli artisti, alle persone che hanno voglia di ascoltare» afferma Battiston. In consonanza con le idee di Menoventi anche Claudio Angelini di Città di Ebla: «I teatri sono importanti per chi ci va ma anche per chi non ci va, perché i teatri impattano anche in maniera inevitabile. Molti livelli stratificati che spero continueremo a indagare, non riguardano tra l’altro solo il momento spettacolare». E sarebbe interessante poter finalmente aprire il teatro allo sguardo del pubblico per ciò che precede la messinscena, come accenna Angelini, eppure il pubblico viene pensato (dagli artisti, dal sistema distributivo e produttivo del teatro), a parte rare eccezioni, solo come fruitore del momento spettacolare.
C’è chi cerca di sgomberare il campo dal compiacimento narcisistico, come Massimiliano Burini di Occhisulmondo, il quale mette in evidenza come l’artista non debba «preoccuparsi di piacere o non piacere, ma di parlare. Un artista non deve preoccuparsi di troppe cose, ma deve essere onesto con quello che sta dicendo».
E infine quel parlare ai propri “fratelli”, come li chiama Luigi Dadina del Teatro delle Albe; tornare a guardarci negli occhi per riconoscerci e riprendere a intessere un dialogo comune. Allora la domanda forse è proprio questa: come è possibile tenere insieme la vocazione comunitaria del teatro fuggendo però il pericolo di rivolgersi solo a un’élite? Fino a qualche mese fa il rischio dell’elitarismo era ad esempio conclamato dalle platee contingentate e questa estate o all’inizio dell’autunno a molti di noi è capitato di sedersi in grandi teatri più vuoti che pieni. E se il problema fosse non tanto la ricerca utopistica dello “spettatore qualunque” e la paura delle comunità, ma la capacità di creare comunità nuove e di rendere quelle esistenti porose e inclusive, in grado di ampliarsi ed evolvere?
Correlato ai discorsi sul pubblico c’è poi quello relativo al ruolo della critica nel sistema teatrale italiano, tema che ci porterebbe verso l’ultimo interrogativo mosso da Renata Molinari, quel “chi parla di noi” che ha avuto meno spazio e che dunque meriterebbe un percorso a parte di analisi. Anche perché gran parte delle difficoltà degli artisti (pre e post pandemia) sono simili a quelle degli osservatori, giornalisti e studiosi di arti performative.
La profondità del discorso deve però superare la questione della “comunicazione commerciale”, di certo bisogna permettere agli uffici marketing e comunicazione di fare il proprio lavoro, senza che questo però influenzi la presa di parola dell’artista: questi devono avere la possibilità di rivendicare un’alterità, perfino di non essere compreso nell’immediato; allo stesso tempo l’osservatore deve conquistare ogni giorno uno spazio di riflessione libero ma responsabile.
Andrea Pocosgnich
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