Recensione. L’Amleto di William Shakespeare, con la regia di Giorgio Barberio Corsetti visto al Teatro Argentina di Roma.
La prima scena dello spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti è forse la più suggestiva, Amleto interpretato da Fausto Cabra recita il celebre monologo dell’essere o non essere tenendo in mano una bottiglietta d’acqua: minaccia di far cadere il liquido sul suo piede, l’arto inferiore è pericolosamente adagiato su una presa elettrica; il pubblico la vede accesa mentre lo sguardo di Cabra tira in causa proprio la platea. Da lì a poco il telo nero, dietro al quale si agitano Rosencrantz e Guildenstern in questa sorta di prologo che anticipa alcune scene madri, cadrà per lasciare posto alla vera protagonista dello spettacolo: una struttura gigantesca al centro del palco. È un’architettura multipiano (progettata da Massimo Troncanetti) tutta nera e composta di tubi innocenti e legno; ai suoi limiti esterni di destra e sinistra una serie di scale permettono ai personaggi di raggiungere i piani alti; pareti e divisori modulano stanze e luoghi chiusi. Ofelia qui appare dietro a una finestra, la vedremo spaventarsi per una sortita di Amleto. Al piano terra una sorta di patio con piante e un tapis roulant grazie al quale la giovane figlia di Polonio si tiene in forma in abiti sportivi.
L’Amleto prodotto dal Teatro di Roma (al quale è stato affiancato anche un progetto di incursioni nelle scuole, Amletici) è ambientato in una imprecisata epoca moderna: abiti casual pastello per i più (i costumi sono di Francesco Esposito), Re Claudio con una giacca bordeaux dai riflessi cangianti, Ofelia prima in leggings e poi una lunga camicia bianca dopo la morte. Gertrude in un vestito rosso lungo e poi in tailleur, il principe in jeans neri, camicie a fantasie e giacchetto di pelle. Ed è evidentemente uno spettacolo che punta molto sull’azione (nell’agile traduzione di Cesare Garboli) sviluppandola dentro e fuori la struttura in una spazialità che potremmo definire elisabettiana per il dinamismo che la muove. Ma se la struttura è una soverchiante, asfissiante e immutabile rappresentazione del destino umano, al centro della rappresentazione vi è la figura di Amleto che di quell’umanità ne incarna a pieno la moderna complessità: Fausto Cabra esalta la sostanza terrigna della filosofia amletica; non è una vittima, anzi è scontroso, a tratti un essere umano detestabile e per questo pieno di incrinature visibili nella voce e nelle azioni.
«Provo a portare avanti due trame parallele: una si sviluppa nel mondo di dentro, nell’introspezione, l’altra nel mondo di fuori a Elsinore», afferma l’attore in un’intervista. Il suo è un Amleto vitale, combattivo e punk per certi versi, su un telo di plastica con la bomboletta scriverà “morte al Re”, ma è anche angosciato dalla colpa, costretto ad avere a che fare con i fantasmi: il padre, che appare legato a una corda tesa da una quinta e poi Ofelia che, a causa dei suoi estremi giochi di finzione, si suicida. Mimosa Campironi riappare silente dopo la morte: Ofelia in piedi, immobile con lo sguardo verso il pubblico mentre calano la sua bara nella terra.
Da segnalare il lavoro di Giovanni Prosperi e Dario Caccuri nei ruoli di Rosencrantz e Guildenstern, ma purtroppo gli altri ruoli di primo piano sono lontani dalla profondità spigolosa dell’Amleto di Cabra: il Polonio di Francesco Bolo Rossini si affanna in una recitazione sopra le righe non sempre utile, anzi nei pochi momenti in cui riesce a rallentare ritrova la necessaria presa. Sara Putignano è una madre dai toni suadenti, ma forse le sue evidenti qualità vocali le avrebbero permesso sfumature maggiori; è ineccepibile però quando deve affrontare la tragedia, nella scena in cui rimane da sola con Amleto e questi uccide Polonio. Difficile da inquadrare invece la performance di Michelangelo Dalisi: la sorprendente bravura fisica con cui era apparso nella Metamorfosi (sempre per la regia di Corsetti) qui deve vedersela con un ruolo più classico, quello di Re Claudio, e questa sorta di naturalismo, di immediatezza ricercata dagli attori, sembra riuscire meno a un interprete così lirico e fisico.
Non ha torto Marcantonio Lucidi quando evidenzia i problemi di questo spettacolo nell’interpretazione degli attori; esagera forse però, quando, puntando il dito sulla regia di Corsetti, se la prende con un’intera generazione di artisti, la post avanguardia degli anni ‘70 e ‘80, la cosiddetta “nuova spettacolarità”, che a suo dire avrebbe prodotto registi non in grado di dirigere gli attori; basterebbe però ricordarsi che in quegli anni l’obiettivo non era tanto l’interpretazione ma la decostruzione e l’attore era utilizzato per le sue connotazioni da performer.
Nonostante le difficoltà, che pure qui riscontriamo da parte dell’ensemble, di trovare una lingua recitativa comune, lo spettacolo ha però il merito di tenere il pubblico attento e partecipe ponendolo di fronte a una messinscena vitale (la scena viene spostata dai tecnici del teatro mentre gli attori continuano a recitare) e rispettosa del testo. L’adattamento è snello e (tolte le scene doppie, riportate in apertura) è un attraversamento fedele. La regia si concede le invenzioni maggiori quando gli attori entrano in contatto con la mobilità della struttura. Quelle che Lucidi chiama «cose da marketing teatrale» in fondo non sono che trovate registiche molto efficaci: come i dialoghi sulle pareti inclinate, quello acceso tra Amleto e Ofelia, oppure quello relativo alla quarta scena del IV atto in cui Re Claudio con fare manipolatorio convince Laerte (pulita ed efficace la prova di Diego Giangrasso) a uccidere il principe; dialoghi che avvengono in discesa, una delle pareti si piega fino a costituire un pericoloso dislivello in cui gli attori dovranno muoversi rischiando di ruzzolare giù.
Insomma una versione del capolavoro shakespeariano non indimenticabile. Probabilmente poco intellettuale, ma molto teatrale, fisico e spettacolare; evidentemente l’obiettivo era quello di progettare una grande opera per tutti, alla quale si spera potrà giovare un periodo di rodaggio. Tutto questo d’altronde accade in un teatro pubblico commissariato, che ha bisogno di ritrovare un rapporto con la propria città, ripartendo dalle questioni basilari, come, ad esempio, riuscire a far avere a questa produzione una circuitazione; oppure rendere pubblici i titoli del cartellòne in programma da gennaio. Già questo sarebbe un primo passo.
Andrea Pocosgnich
Roma, Teatro Argentina. fino al 9 dicembre 2021
Amleto
di William Shakespeare
traduzione di Cesare Garboli
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con (in ordine di apparizione) Fausto Cabra, Francesco Sferrazza Papa
Giovanni Prosperi, Dario Caccuri, Michelangelo Dalisi, Sara Putignano
Francesco Bolo Rossini, Mimosa Campironi, Diego Giangrasso
Adriano Exacoustos, Francesca Florio, Iacopo Nestori
personaggi e interpreti
Fausto Cabra Amleto
Michelangelo Dalisi Claudio / Spettro
Sara Putignano Gertrude
Francesco Bolo Rossini Polonio / Osric
Mimosa Campironi Ofelia
Francesco Sferrazza Papa Orazio / Attore
Giovanni Prosperi Rosencrantz
Dario Caccuri Guildenstern / Prete
Diego Giangrasso Laerte / Attore
Francesca Florio Prima attrice / Attrice Regina / Soldato
Iacopo Nestori Primo attore / Attore Re / Messaggero / Marinaio / Primo Becchino
Adriano Exacoustos Attore / Luciano / Soldato/ Marinaio / Secondo Becchino
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Camilla Piccioni
musiche e vocal coaching Massimo Sigillò Massara
movimenti Marco Angelilli
assistente alla regia Tommaso Capodanno
assistente scenografa Alessandra Solimene
stagista di drammaturgia Emilia Agnesa
foto di scena Claudia Pajewski
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale