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Bros di Romeo Castellucci. Violenta è la legge dello sguardo

Recensione di Bros di Romeo Castellucci, premiére mondiale al LAC di Lugano in occasione del FIT Festival 2021. Prossime date italiane in tournée: Napoli, Teatro Bellini 13-18 dicembre 2022
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Bros, di Romeo Castellucci, Foto Francesco Raffaelli

La camionetta della polizia oscilla fra due ali di manifestanti. Il mezzo pesante appare leggero, il ritmo incalzante del suo pendolìo ha qualcosa di comico, eppure, è chiaro, la sequenza è tragica se elevata al rango di un racconto giornalistico. Poi una squadraccia assale la sede di un sindacato. L’immagine televisiva è un cortocircuito: qualcosa “non torna” nel sottotesto politico di quelle azioni e recriminazioni, qualcosa è irrimediabilmente andato perduto nel montaggio della storia. Quella voragine di senso aperta dall’immagine inebria, emana il fascino indiscreto di una rivolta vera. A quale imperativo psichico rispondono quelle grida, quegli sguardi invasati di teste rasate? Neofascisti, ultrà, o meglio anatomie che sfuggono a consolatorie stereotipizzazioni, da un lato; la polizia, quella in divisa con caschi, scudi e manganelli dall’altro. Ordine e disordine si fronteggiano, ma il confine appare frastagliato. È scandaloso empatizzare col manganello che sperde il caos seminandone altro. Le immagini delle manifestazioni romane dei no green pass evocano la nostra violenza, ci inchiodano.

Bros di Romeo Castellucci, foto Stephan Glagla

Poche ore dopo, nella fila composta e ben vestita che scorre nel luminosissimo foyer del LAC di Lugano, ci portiamo questi segni ambigui e questa paura nello sguardo, in attesa della prima mondiale di Bros di Romeo Castellucci. Al controllo del green pass, il personale ci fornisce due tappi auricolari da cantiere: ci saranno degli spari durante la performance, annunciano. Il senso del pericolo si fa largo contro la luce pervasiva e glam del prestigioso spazio pubblico che occupiamo. Siamo pronti al perturbante, immaginifico segno delle performance di Castellucci, ma in fondo non ci si può davvero preparare ad essere impreparati. Eppoi l’inconscio mediatico pulsa ancora di quelle sirene e del clangore fascistoide. È successo già che l’artista cesenate inanellasse dolorosamente e profondamente la cronaca alla mise en place di un suo lavoro – era il 2015 quando La metope del Partenone andava in scena a Parigi, poche ore dopo i noti fatti terroristici, con la sua teoria di corpi straziati e la nenia lancinante delle ambulanze. Sulla contiguità (potremmo dire coincidenza) fra finzione e realtà che uno sguardo profondo sa portare in luce, c’è poco da chiosare: è un tratto tipico di quegli artisti che sanno eccedere, e dunque forgiare dai margini il linguaggio del proprio tempo.

Bros, di Romeo Castellucci, Foto Francesco Raffaelli

La cavea è ricavata sul palcoscenico dell’enorme sala, così il pubblico è costretto a passare attraverso i corridoi di servizio alla scena: una breve tortuosa processione che fa rinserrare le fila, risegando lo spazio intorno ai corpi. L’ingresso in sala è preannunciato da un tremore di cingoli, poi da un vapore denso che dà consistenza all’aria scura della black box. Due minacciosi totem motorizzati sondano l’ambiente. Uno sembra un radar da guerra fredda, coi suoi cilindri puntati sull’audience come bocche da fuoco, falli turgidi pronti a penetrare le carni fino alle sinapsi; l’altro manda sinistri flash luminosi che, più che illuminare, accecano. Due sagome nere, vestite da poliziotti d’antan, si mandano cenni dietro il banco di regia, a lato della scena, mentre uno stridio magnetico fende l’aria. Anche il personale di sala, accompagnando gli ultimi spettatori a prendere posto guidati dalle torce, compartecipa a questo terribile screening da campo di concentramento. Prima di guardare, siamo guardati a fondo da una scena che, secondo il navigato ethos della Societas, è un meccanismo pericoloso. Guardare, d’altro canto, non è più un atto innocente, come spesso ha scritto e ripetuto Castellucci. 

Né si può trovare conforto nella presenza tremula e candida che incede dal fondale, mentre si placa il frastuono intorno, figura incappucciata che lentamente svela il volto anziano e la barba canuta. Non è, infatti, la comparsa di una presenza ordinatrice, di un logos disincarnato, bensì di un profeta, un grido di contraddizione, predestinato a non essere compreso ma ad accompagnare, rabbioso lamento, il naufragio annunciato. La sua voce, clamantis in deserto, è un atto puramente glossolalico, la sua espressione oscilla fra lo strazio e l’esaltazione di chi sa perché vede ed è posseduto dalla visione, mentre si rivolge ad un disco luminoso che, spalle al pubblico, ci appare solo una lampada da fotografo grottesca e fuori scala. Eppoi ecco questa truppa di fratelli in divisa irrompere in un rituale tanatopratico intorno al corpo del profeta, imbozzolato, adagiato, torturato e venerato. Bros è infatti una lente autoptica puntata dentro al corpo della legge, la legge come puro codice accettato da un gruppo di individui, la legge al suo grado più alto di un’alterità imperscrutabile quanto il dio scostante e misterico dell’Antico Testamento.

Bros, di Romeo Castellucci, Foto Francesco Raffaelli

I ventuno uomini in divisa “chiamati dalla strada” (più tre professionisti) seguono, implacabili e senza differire il gesto, i comandi impartiti in cuffia. “Ciascuna azione è compiuta nel tempo determinato dall’ordine” e “la matrice dei comandi rimane fuori scena” chiosa un semplice foglio di sala, distribuito insieme a due elegantissime caliginose pagine su fondo nero recanti i motti della performance, composti da Claudia Castellucci: epigrafi non pronunciate, ma esibite su funerei festoni dagli uomini della strada. Come se in questo montaggio di tableaux mourant non ci sia spazio per la voce, che sarebbe corpo reagente, individualità. La parola scritta a caratteri cubitali evoca la forma sentenziale di ciò che resta immutabile, altisonante e morto; la partitura sonora di Scott Gibbons, fra crepitii, tuoni e lancinanti voragini di acuti, evita ogni accenno di musicalità, facendosi anch’essa dura come la materia, netta come la parola. L’assenso è dunque un riflesso condizionato, non dà spazio per proferire parola. Il vedere, d’altro canto, viene prima delle parole, come ricorda John Berger: “il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare” (Sul guardare). Tale esperimento antropologico è condotto, a detta del materiale stampato, radicalmente: nessuna prova, solo una “verifica tecnica” dopo aver consegnato ai protagonisti un indice comportamentale.

Si compie dunque nell’esercizio di un gioco tribale, danse macabre di plotoni e adunate ai piedi di folgoranti totem archeotecnologici, la concezione dell’attore come agente senza volontà né scopo. Il pensiero lascia spazio all’azione, come recano le note alla performance, ma si tratta di un’azione epifanica, che manifesta la tragedia stessa della vita di massa, di quelle sadiche, goliardiche, bambinesche pulsioni di fratellanza. Cosa si prova ad agire in preda ad un’orgiastica sinergia? Ma anche, secondo una lettura più specifica: cosa muove la violenza a volte cieca delle forze dell’ordine (domanda intrigante, nel ventennale del G8 di Genova)? Questi fratelli al fronte di una guerra interiore sono disposti a venerare con ieratici saluti romani persino l’icona di un babbuino, oppure al bisogno quella di Samuel Beckett, purché nell’ebbrezza del comando. Il montaggio di questo incubo perfetto, asfittico, attinge al pathosformel di certe immagini archetipiche, al ricordo di opere d’arte da regime come quelle di Jacques-Louis David o Leni Riefenstahl, oltre che alle tinte fosche del cinema noir e poliziesco degli anni ’70 cui le stesse divise accennano. Così Bros ci impregna lo sguardo dall’interno, ci repelle e al contempo ci fa desiderare (di nuovo, un desiderio pre-logico di bambini) quella violenza sostanziale ma inafferabile, visibile-invisibile. La scena evoca la nostra violenza, ci inchioda alla responsabilità di un guardare che non è più un atto innocente.

Andrea Zangari

Leggi anche  Romeo Castellucci. Tutti gli articoli, le riflessioni e le recensioni degli spettacoli

Prossime date in calendario tournée 

Roma Teatro Argentina 9-12 marzo 23

concezione e regia Romeo Castellucci
dramaturg Piersandra Di Matteo
motti Claudia Castellucci
con gli agenti Valer Dellakeza, Luca Nava, Sergio Scarlatella e con uomini della strada
musica Scott Gibbons
sculture di scena e automazioni Plastikart studio
realizzazione costumi Grazia Bagnaresi
assistente alla regia Filippo Ferraresi
produzione Socìetas
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Kunsten Festival des Arts Brussels,
Printemps des Comédiens Montpellier 2021, Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène Européenne, Temporada Alta 2021, Manège-Maubeuge Scène nationale, Le Phénix Scène nationale Pôle européen de création Valenciennes, MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis, Ruhrfestspiele Recklinghausen, ERT Emilia Romagna Teatro Italia, Holland Festival Amsterdam, V-A-C Fondazione, Triennale Milano Teatro, National Taichung Theater – Taiwan
partner di ricerca Clinica Luganese Moncucco

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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