Romaeuropa Festival giunge alla 36esima edizione. Abbiamo incontrato il direttore artistico Fabrizio Grifasi per esplorare insieme le strategie di una ripartenza. Intervista.
In questi scorsi lunghissimi mesi è cambiato quasi ogni aspetto della nostra vita. L’emergenza vissuta e le strategie per affrontarla hanno influenzato e stanno influenzando il nostro modo di guardare alla dialettica interno/esterno, ai limiti della libertà individuale e al contatto fisico. Tutto, di certo, è cambiato anche per gli artisti. Non solo perché costretti a interrompere o ridisegnare progetti nella loro fase compositiva, ma perché proprio gli artisti, più di ogni altra categoria, sono chiamati a discutere ogni paradigma, a definire nuovi confini.
Da questo semplice pensiero ha preso le mosse una conversazione via Zoom con Fabrizio Grifasi, dal 2009 direttore artistico di Romaeuropa Festival. Un’occasione per confrontarci soprattutto sulla possibilità di un evento così cangiante e longevo di intercettare le urgenze creative del presente e sul privilegio di entrare in diretto contatto con la progettualità di una così ampia scuderia di artisti (86 gli spettacoli, tra teatro, danza, musica e arti digitali).
Come è stato ripartire dopo l’interruzione dello scorso anno? Come si è svolto il dialogo con gli artisti che avete scelto di riprogrammare e con le nuove proposte?
La prima necessità è stata quella di rassicurare il personale e i collaboratori: non abbiamo interrotto nessun rapporto, anche quando il festival si è fermato, né abbiamo voluto ricorrere agli ammortizzatori sociali, riuscendo a rispettare i contratti con il pieno impegno. Lo stesso è successo con gli artisti; ci è sembrato subito doveroso tutelare gli artisti, perché ha significato garantire loro la prosecuzione del progetto, discutendo se esso potesse o meno trovare spazio nel programma di quest’anno, dando la massima disponibilità. Sono diciotto le compagnie dello scorso anno che riprogrammiamo all’interno del festival 2021 e anche questa è stata una scelta molto chiara, laddove invece alcuni nostri omologhi hanno preferito resettare il programma. Mi piace pensare che questa nostra scelta passi come un segnale e come un pensiero.
Gli ultimi anni pre-pandemia sono stati frenetici, forse anche troppo, per gli artisti e di conseguenza per tutto il sistema culturale; hanno dato una spinta a una iper-programmazione, determinata anche da indicazioni delle istituzioni, il Ministero in primis. Il fatto di fermarsi, di rallentare e di non cedere al “nuovismo” a tutti i costi è stato un modo per pensare il tempo come un tempo lungo e non come un tempo rapido “da consumo”. Abbiamo trovato necessario mantenere gli impegni, seguire le compagnie, accompagnando le loro riprogrammazioni di tempo, di vita e di pensiero. Così, lo stesso rapporto con il tempo è cambiato: una delle prime lezioni della pandemia era che questa frenesia dovesse essere rimeditata e rimetabolizzata. Allora con ciascuno di loro abbiamo riaperto il dialogo, per accordarci ai suoi ritmi e alle sue modalità. È stato un rapporto di grande serenità; in qualche modo è diventato normale prevedere un tempo più dilatato.
Sì, la dimensione tempo ha di certo subito un cambiamento. In questo accompagnamento degli artisti quali sono state le problematiche da affrontare?
Le vite degli artisti, le loro prassi di lavoro e di pensiero sono state seriamente condizionate da questa dilatazione del tempo, nel processo di creazione o anche semplicemente di riallestimento. Lavorando con artisti che abitano in tutti gli angoli del mondo, ci si confronta subito anche con l’evidenza che l’esperienza del lockdown, ad esempio, non è stata identica per tutti. E allora ecco che si è reso necessario sostenere le creatività, garantendo spazi di accoglienza e di tournée, fronteggiando il rischio della quarantena obbligatoria per gli artisti in viaggio verso di noi. Questo ha influito nel dialogo con gli artisti, perché abbiamo dovuto affrontare, insieme, condizioni prima inimmaginabili. È capitato poi un fenomeno sorprendente: se, come dicevamo, il tempo si è dilatato, lo spazio si è ristretto. Mi riferisco proprio alla possibilità di movimento, di attraversamento fisico. Venivamo da un presente in cui tempo e spazio avevano estensioni apparentemente illimitate: la facilità (anche economica) di spostamento, ad esempio, è stata negli ultimi anni una ricchezza straordinaria per le arti performative, soprattutto per quegli artisti provenienti da paesi in cui il supporto pubblico al loro lavoro è quasi nullo. Con gli ultimi avvenimenti, questa opportunità si è polverizzata: molte parti del mondo si sono trovate del tutto sprovviste di supporti, e dunque le coproduzioni diventano fondamentali per accogliere una vera e propria “fame” di sostentamento.
Sul piano dei contenuti, invece, avete intuito l’esigenza, da parte vostra e degli artisti, di arrivare a discutere direttamente i cambiamenti introdotti dalla pandemia?
No, non ho avuto la sensazione che la maggior parte degli artisti si occupasse direttamente di ragionare sulla pandemia, anzi spesso l’impressione è stata quella opposta: ho percepito un’urgenza di “ricentrarsi”, di riprendere certi fili interrotti. Certo, la pandemia era ed è onnipresente, ma molti artisti non hanno cambiato la direzione del lavoro e trovo che questa sia una cosa sana. L’emergenza sanitaria è stato un tema – e un oggetto mediale – talmente violento nelle vite di ciascuno di noi che quasi per reazione c’è forse stato anche il bisogno di toglierlo dal pulpito, di spostarsi da un lato per ritrovare il filo – magari non di una normalità – ma di un percorso intellettuale, ecco questo sì.
Teatro, Musica, Danza, Arti digitali. Sono sempre di più i festival multidisciplinari, anche all’estero. E però queste “categorie” ancora vengono usate per razionalizzare un programma. Tu che impressione hai? Qual è lo scopo di questa strategia?
Io credo che la multidisciplinarietà di un festival di arti sia di fatto già stata compresa dal pubblico. Credo si debba però operare una distinzione tra le scelte curatoriali e la dimensione civica. Ref è un festival di due mesi, che in passato ha visto la partecipazione di 60mila persone (quest’anno saremo meno, ma pur sempre intorno ai 40mila posti offerti). È un festival che include un pubblico ampio, in parte riconducibile alla scena più “militante” delle arti performative, certo, ma in generale un pubblico attento, curioso. Di anno in anno abbiamo assistito a un forte turnover del pubblico, e questo è fondamentale: in media circa un terzo del totale è pubblico nuovo e trovo sia una grande ricchezza. Chi arriva in sala sa benissimo che non sta vedendo solo un concerto, uno spettacolo teatrale o una coreografia, sa che in ciascuno di questi appuntamenti si incrociano tutti i linguaggi. Tuttavia, nella fase di comunicazione, su un sito come il nostro che registra centinaia di migliaia di visualizzazioni, ci dobbiamo porre nella condizione di essere accessibili a tutte e tutti, spiegandoci in maniera chiara a coloro che cercano di inserire il contatto con una pluralità così variegata di artisti spesso sconosciuta nel proprio tempo e nella propria organizzazione del pensiero.
Nel lungo corso della tua direzione, c’è un/un’artista che avresti voluto al festival e che invece ti è sempre sfuggito/a?
Mi sento davvero fortunato: posso dire che più della metà degli artisti di quest’anno, come negli ultimi anni, non era mai venuta al festival. E questo è un obiettivo da sempre: io, come tutte le curatrici, sappiamo quanto sia importante un rinnovamento. Posso dire che alcuni artisti che seguivo da molto stanno pian piano arrivando, uno dopo l’altro. Alexander Zeldin, ad esempio: il suo Love (qui la recensione) lo avevo visto nel 2018 e arriva oggi con un cast totalmente nuovo e che ha appena debuttato. Dunque è bello sapere che il momento in cui finalmente potrò condividere questa visione con il pubblico di Ref porterà con sé una sorpresa anche per me. C’è da dire che, con una struttura come Romaeuropa, possiamo attivare un’attenzione a nuove proposte e sensibilità concedendoci il tempo e il rischio di programmare i progetti in una lunga prospettiva di tempo.
Romaeuropa è una delle istituzioni culturali più grandi e affermate del nostro territorio. Qual è la responsabilità che essa si sente addosso nei confronti della città di Roma?
Ci siamo sempre molto interrogati su come continuare a capire che cosa serva a Roma. Abbiamo uno sguardo nazionale e internazionale, certo, ma occorre sempre tenere il cuore nella nostra città. Una Roma che ha le proprie specificità, che non è Parigi, Londra, Berlino. Cerchiamo dunque di mantenere le radici a Roma per guardare il più lontano possibile. Per me lo sforzo è di continuare nella nostra mission storica, ma declinarla in una maniera diversa, elastica: un progetto di creazione contemporanea non in grado di comprendere i cambiamenti del nostro tempo e di riplasmarsi rischia di essere fuori fase. La grande fortuna è che Romaeuropa riesce ad adattarsi e a rigenerarsi in termini di pensiero, organizzazione e modus operandi anche perché è costantemente in contatto con altre istituzioni sempre diverse, abita spazi sempre diversi, visita quartieri diversi, incontra diversi pubblici. E questo impone di acuire una forma di ascolto. Oltre a portare a Roma grandi artisti internazionali e nazionali più o meno conosciuti, c’è poi la missione di individuare e sostenere le nuove creatività: per questi, noi abbiamo scelto di attivare un sistema di incubatori dentro altri incubatori in grado di accompagnare le progettualità emergenti (penso ad Anni Luce) nel loro percorso. Allo stesso modo, le varie sezioni del programma del Ref hanno cambiato forma in maniera fluida, e questo è il privilegio dato da un gruppo di lavoro che ha molti anni di collaborazione alle spalle. E speriamo molti altri in futuro.
Sergio Lo Gatto
Guarda la presentazione del programma artistico di Romaeuropa Festival 2021 (YouTube)