Il Festival MusaMadre, in provincia di Sassari, sotto la direzione artistica di Valeria Orani. Siamo stati a Rebeccu, tra gli interventi di Bartolini/Baronio, Antonio Marras, Federica Seddaiu, Ateliersi.
Dall’antica stalla, oggi terrazza, si apre un cielo sconfinato. Lo sguardo riesce a seguirlo fino a scontrarsi con le colline, indovinando piogge lontane. Solo il vento disturba il ronzio delle api: irrompe gagliardo a suonare le foglie di ginestra, trascinando con sé lo scampanio di un gregge invisibile. Ogni suono arriva preciso a Rebeccu, accolto da un silenzio antico che lo abbraccia, per poi presto riprendersi la scena. È l’eco di esistenze lontane, nello spazio e nel tempo, di un luogo che conta mille leggende a spiegare il proprio vuoto.
L’antico borgo disabitato di Rebeccu, a pochi chilometri da Bonorva, nel sassarese, è stato l’epicentro della prima edizione del Festival MusaMadre – suoni/corpi/visioni. Un appuntamento diretto e curato da Valeria Orani (già direttrice del centro di produzione 369gradi e di Umanism NYC) con un’orbita ben precisa: quella che, discostandosi dalla consueta struttura festivaliera straripante di eventi, parte dal vuoto e arriva al pieno, dalla distanza all’incontro, con la forza motrice dell’arte.
Cuore pulsante di questo pianeta in orbita i ragazzi e le ragazze del campus Titoli di Coda: una masterclass di scrittura e produzione cinematografica a cura di Tamara Bartolini, con Michele Baronio, Marco d’Amelio (light designer e insegnante di video making) e la collaborazione de* giovanissim* tecnic* di Ostia Film Factory. Valeria Orani, connessa da New York, luogo in cui vive e dal quale è impossibilitata a spostarsi a causa delle limitazioni dovute alla pandemia, sperimenta una direzione via streaming, davvero figlia di questa epoca. La sua presenza virtuale sottolinea l’esigenza alla base del festival: creare una comunità temporanea, corpi vicini che tramite la creazione artistica diano linfa al territorio e di esso si nutrano.
Circa 415 km separano Roma e Rebeccu: il lungo percorso degli Esercizi sull’abitare della compagnia Bartolini/Baronio vive in Sardegna una tappa intermedia, tra i 333 km del lavoro precedente (Esercizi sull’abitare #2, andato in scena a Romaeuropa 2020) e i futuri 6900 km che li porteranno il prossimo anno a New York, in quanto vincitori del bando Boarding Pass del Ministero della Cultura. Un lavoro di ascolto, viaggio e intermedialità che dalla città di Roma progressivamente ha allargato il proprio diametro, includendo territori nuovi, ma soprattutto vite, storie, parole. A Rebeccu il paradigma è ribaltato: non più interrogare l’abitare altrui, ricostruirlo ma sperimentarlo e metterlo alla prova; accendere di vita un luogo spento, pur ben diverso da un non-luogo. Piuttosto un fu-luogo, un paese che reca i segni di un passaggio ormai sbiadito, dal tempo e dall’intonaco fresco delle recenti ristrutturazioni operate dal comune per rilanciare il borgo. Le trenta case di Rebeccu, da anni disabitate, rivivono grazie al gruppo di lavoro che per una settimana vi ha spostato il domicilio.
«Casa è il luogo in cui tornare, sentirsi protetti, rilassarsi: un luogo diventa casa quando gli doniamo qualcosa di nostro e prendiamo qualcosa di suo», dice Fatima, truccatrice cinematografica e allieva del campus. Abitare allora allarga i suoi confini semantici, ingloba quotidianamente le parole più diverse, collezionate e custodite lungo il filo dei giorni, a farne costellazione di riferimento. Guidati da Tamara Bartolini, allievi e allieve percorrono la strada a ritroso dell’emozione e scoprono cosa significhi raccontarla, con quali tecniche, quali strumenti, quali processi emotivi e fisici, per «portare alla luce il proprio paesaggio e fare in modo che qualcun altro lo veda». Ma senza i confini del genere o il limite del linguaggio: il cardine di questo campus, come d’altronde del percorso artistico di Bartolini/Baronio, è l’abbattimento di quelle barriere tra generi e stili, tra teatro e cinema, tra prosa e performance. Una consuetudine che, non concependo l’interdisciplinarietà, priva troppo spesso del suo potenziale espressivo la creazione artistica.
Il gruppo è eterogeneo: c’è chi viene dalla recitazione, chi studia cinema, chi lavora dietro le quinte. Specularmente, sono eterogenei gli ospiti, professionist* dello spettacolo e del cinema che giorno per giorno arrivano a Rebeccu a raccontarsi, in mano una birra, condividendo esperienze, buone pratiche e aneddoti. L’isolamento involontario del borgo è rotto da curiosi, visitatori e spettatori che accorrono alle proiezioni quotidiane di una ricca selezione di film d’autore come agli appuntamenti dal vivo. Certo è che la dimensione del MusaMadre Festival, pur non cercando l’eremitaggio o l’elitario isolamento, rimane intima, a beneficio degli ospiti, stabilendo una connessione più con la Sardegna delle leggende e delle energie naturali che con quella attuale, quotidiana. Questo se si esclude il debutto, affidato alla performance site-specific Argia firmata da Antonio Marras, che ha visto la partecipazione attiva della popolazione di Bonorva: un’orchestra fatta di telai “suonati” da quindici tessitrici locali in concerto con la voce di Maurizio Rippa e il violino di Adele Madau. In altri casi, sono i cittadini temporanei dell’antico borgo di Rebeccu a varcarne i confini per recarsi in carovana in luoghi suggestivi come il Nuraghe Santu Antine di Torralba o il Vulcano Spento di Ittireddu: spettacolari scenografie preesistenti per performance che si inseriscono naturalmente nel percorso formativo del campus, fornendo spunti, idee e visioni di cui discutere a cena o durante i (pochi) momenti liberi.
Nel cuore del complesso monumentale di Santu Antine, risalente al XV secolo a.C., la compositrice e violinista cagliaritana Adele Madau esplora le possibilità narrative degli oggetti più disparati e quotidiani. La sua musica estrae l’anima insospettabile delle cose: una spazzola, un coltello, un cetriolo. The Soul of Objects è un viaggio onirico e carnale insieme in cui la Musica si fa persona e ci accompagna tra le piazze, i profumi, la vita di quest’isola misteriosa, madre e musa.
Federica Seddaiu, attrice romana formatasi presso l’Accademia Silvio d’Amico e oggi trapiantata in Sardegna, porta nella piazza di Rebeccu la sua Anna Cappelli, tra le ultime opere di Annibale Ruccello. E con essa, coglie con slancio la sfida e le insidie di un personaggio ormai distante dalla narrazione corrente del femminile, o forse pericolosamente vicina a quell’immagine di donna possessiva, tradizionalista, lucidamente irrazionale che ancora con difficoltà cerca di sradicarsi dall’immaginario collettivo.
Il nero profondo del Vulcano Spento di Ittireddu emerge dal giallo oro tipico della campagna sarda, in cui il grano si confonde con l’artemisia absinthium, fino ad assorbire gli ultimi raggi di un precoce tramonto. È ormai notte quando Cristina Donadio pronuncia il testamento del dottor Frankenstein, una lettura nata ai piedi di un altro vulcano, lo Stromboli, con la riduzione drammaturgica di Cristiano Demurtas. Le forze telluriche che hanno generato il capolavoro di Mary Shelley riemergono qui, dove la lava è divenuta pietra, nell’interpretazione della Donadio accompagnata dal violino duttile di Adele Madau e dalla presenza di Loris De Luna e Chiarastella Sorrentino.
L’ultimo appuntamento performativo si rivela quello più efficace nel condensare riflessioni ed esperimenti sulle possibilità di interazione tra forme, linguaggi e piani narrativi differenti. Non troverete nulla di me in questo film, prodotto da Ateliersi, è il cineconcerto ideato e diretto da Cosimo Terlizzi che ripercorre l’avventura umana legata alla prima ed unica esperienza cinematografica della divina Eleonora Duse. Cenere, film muto del 1916 dal romanzo di un’altra donna modernissima quale Grazia Deledda, fu un insuccesso. La proiezione della pellicola vive un’inedita tridimensionalità grazie alle sonorizzazioni dal vivo di Luca Maria Baldini e alla voce di Fiorenza Menni: in piedi, rivolta verso lo schermo, la figura potente seppur discreta, in controluce, della Menni si fonde con l’effige muta di una Duse intensa, moderna eppure incredibilmente fragile. Ne ascoltiamo i pensieri, i desideri, le aspettative deluse dalla “Belva”, la macchina cinematografica. Le parole che provengono dalle cronache dell’epoca e dai carteggi della Divina si fanno corpo presente, aleggiano attorno alla sua immagine proiettata, restituendoci l’umanità di una donna mitizzata, austera, eppure tenera nel fallimento. I suoni dal vivo in dialogo con le musiche di Baldini dilatano la percezione, nel potente contrasto stilistico e temporale tra sonorità elettroniche e immagini remote, giudicate “didascaliche” già da chi vide il film all’epoca della sua uscita. Un cortocircuito, una trance onirica grazie alla quale la Duse parla oggi e ammonisce lo spettatore alla ricerca di un’unica testimonianza visiva della sua grandezza: niente di lei, né la sua voce, né la sua modernità, il suo anticonformismo, niente troverà in quel film.
Lo scorrere del tempo sardo, lento e insieme concitato, consegna agli allievi e alle allieve del campus una promessa da mantenere: abitare il mondo come hanno abitato quel luogo. Dal loro percorso sono nati 17 cortometraggi, paesaggi interiori in piano sequenza. Proiettati durante la serata conclusiva del festival, si sono naturalmente allineati in una drammaturgia spontanea e coesa: il dentro che guarda fuori, il fuori che risuona dentro, sollecitando domande, memorie, dubbi che l’arte sublima e trasforma in possibilità. Protagonista il borgo, vivo nel suo deserto, selvaggio e silente nel cuore della Sardegna, questa terra femmina, madre, semplice e intensa come i sapori della sua cucina. Lasciato il borgo, ci si aspetta di tornarvi, magari scoprendo che i semi gettati dal festival MusaMadre, solo all’inizio della sua fioritura, lo avranno popolato di nuova vita, nuove storie, nuovi spettatori. Lo spiega bene Grazia, nel suo corto-“paesaggio” : «Le storie sono tutte uguali, ma solo grazie agli altri esistono».
Sabrina Fasanella