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Motus. Tra le fiamme della civiltà sepolta

Tutto brucia. Recensione. Motus affronta una riscrittura da Le Troiane di Euripide. Tutto brucia, in scena al Teatro India di Roma per Short Theatre, parla al mondo di dopo, quando la città è perduta e la vita, forse, non ancora.

Foto Claudia Pajewski

Non più speranza. Non più requiem. Quando la città è distrutta non resta altro che il silenzio di dentro squarciato dalle urla di fuori, le fiamme divampate ormai in ogni angolo visibile o invisibile, gli edifici di una antichità divelta cadono pezzo a pezzo a conficcarsi, rovine del tempo. Tutto attorno è concluso. I morti non hanno più esequie. È morto anche il rito che li sotterra. La versione che Motus porta in scena al Teatro India di Roma da Le Troiane di Euripide – riscritta con parole di Jean Paul Sartre, Judith Butler, Ernesto De Martino, Edoardo Viveiros de Castro, NoViolet Bulawayo, Donna Haraway – già nel titolo esprime il concetto sommo, totale, che alla loro visione appartiene: Tutto brucia, ossia nulla si salva, come se ci fosse una virgola, lì nel mezzo tra le due parole, a pesare come un macigno e separare definitivamente il tutto da ciò che è ormai lì per diventare nulla.

Foto di Paolo Porto

L’atmosfera è lugubre, cupa; la musica che si eleva da un lato, a destra del palcoscenico, non fa che darne conferma, affondare in una sorta di paesaggio sottomarino che si confonde con lo spettro di una città sepolta: la voce di Francesca Morello (R.Y.F.) si inabissa pronunciando versi strappati nella tela vischiosa, assorbente, della musica elettronica che vi combacia. Dal fondo, nell’oscurità, si agita qualcosa, un corpo dalle viscere della terra arsa, ed emergono due figure larvali – Silvia Calderoni e Stefania Tansini – che si muovono come da un torpore doloroso e danno vita alle parole, pur definendo in ogni suono che vita non è più, o peggio, più non sarà: sono la profezia di Cassandra e il terrore disanimato di Ecuba, l’evocazione di Polissena e la dignità materna di Andromaca fino a rinnovare Elena, figura cardine e contrastante, la cui innocenza torna a esporsi in tutta la sua fragilità, là dove nulla più potrà violarla; e infine il corpo di Astianatte, il futuro negato, l’orma di una colpa atavica compressa in un fosco divenire.

foto di Paolo Porto

È un linguaggio raffinato, poetico, che accompagna la discesa in questo ambiente opaco, definito dalle luci strette, ingabbiate, di Simona Gallo, che produce tutte le tonalità del fuoco e costringe i movimenti in geometrie avare, lasciando alle sole sonorità di Demetrio Cecchitelli il compito, per contrasto, di penetrare lentamente, espandersi in ogni centimetro di palco. I movimenti delle due performer sono ora ratti ora flemmatici, talvolta ridondanti perché se ne noti l’impaccio della trasformazione (forse inattuabile?) di un tempo in altro tempo; la danza, incalzata dal ritmo progressivo di R.Y.F. che imbraccia la chitarra e canta versi in inglese come da un altro mondo, espone la vulnerabilità dei corpi, con la forza delle parole misura l’incertezza spaventosa di un futuro di schiavitù, accennando appena un parallelo con i corpi dei migranti dispersi nell’impossibile viaggio.

foto di Paolo Porto

L’impianto immaginato da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande, sostenuti dalla ricerca drammaturgica di Ilenia Caleo, vibra dunque nell’eco della tragedia, vi si immerge fino a diventarne il canto fatale, irrimediabile; da Euripide a Motus questo canto, questa ritorsione dell’asfissia in cui la cenere tiene la civiltà sepolta, è affidato alle voci di donna che sono un lamento del dopo, già nel dopo, quando la ferita non ha più margine di sutura. Ma se l’impianto ha una chiarezza espressiva molto netta, lo spettacolo sembra non riuscire a crescere sul piano del dinamismo, dando la sensazione di restare bloccato su alcuni assunti che dai primi minuti ne accompagnano l’evoluzione fino alla fine.

Foto Claudia Pajewski

Non è il principio retorico in discussione, rigoroso e perfettamente in linea con il disegno euripideo, bensì la sua applicazione formale che sembra farsi vittima della stessa ipnosi tenebrosa prodotta come riverbero dell’immagine. La ricerca di Motus corre il rischio pertanto di stemperare la forza del proprio assunto, lasciando che quella stessa sospensione dolorosa, cardinale nell’ambiente dell’opera e motore per la trasformazione della società in divenire, avvolga di una sensazione sofferente, faticosa, anche la stessa percezione dello spettatore, negando sul piano stilistico – come si legge nelle note di regia – quelle «possibili altre forme» che lo spettacolo poteva offrire, verso un nuovo e forse antico «mondo che verrà».

Simone Nebbia

Teatro India, Roma – Short Theatre, Settembre, 2021

TUTTO BRUCIA
ideazione e regia Daniela Nicolò e Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Stefania Tansini e R.Y.F. (Francesca Morello) alle musiche
testi delle lyrics Ilenia Caleo e R.Y.F. (Francesca Morello)
ricerca drammaturgica Ilenia Caleo

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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