Al Centro Teatrale Santacristina si è svolta la scuola d’estate. Un momento di alta formazione per giovani interpreti, registi e drammaturghi, quest’anno guidati da Carmelo Rifici, Michela Lucenti e Valter Malosti.
Un silenzio saturo avvolge le architetture geometriche e bianche del Centro Teatrale Santacristina. Bianca anche la strada sterrata per raggiungerlo: lasciati alle spalle gli ultimi agriturismi – qualche cartello di legno intagliato che pubblicizza mieli artigianali, qualche invito a rallentare – ci si addentra nella campagna di Gubbio, immersa nelle colline.
Un luogo di raccoglimento, ma anche «un angolo di libertà», come amava chiamarlo Luca Ronconi che lo ha fondato nel 2001, insieme a Roberta Carlotto, che oggi lo dirige. Un accento ironico, ma timido, sembra segnare la parola libertà: strano parlare di libertà riferendosi a una scuola che sorge in un luogo poco mappato, raggiunta solo da una strada un po’ impervia, dove il segnale telefonico si affievolisce fino quasi a scomparire e per ritornare al paese più vicino servono almeno venti minuti, e una macchina affidabile. Dal 2001, ogni anno, tra luglio e agosto, viene formato un gruppo di lavoro di giovani attori e si dà vita, per qualche settimana, alla scuola d’estate. È un momento di alta formazione, composto di laboratori intensivi, corsi di perfezionamento, masterclass e residenze produttive. Dopo la morte di Luca Ronconi, a occuparsi dell’insegnamento sono stati alcuni importanti attori, registi e autori: tra i tanti, Massimo De Francovich, Manuela Mandracchia, Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Fausto Russo Alesi.
Quest’ultima edizione, che si è svolta tra il 28 luglio e il 13 agosto, ha presentato alcune novità. Gli allievi, selezionati per chiamata diretta, non erano stavolta diplomandi o neodiplomati ma giovani professionisti: tre registi – Fabio Condemi, Giulia Odetto e Silvia Rigon –, due drammaturghi – Pier Lorenzo Pisano e Nalini Vidoolah Mootoosamy – e otto attori – Catherine Bertoni, Gabriele Brunelli, Giulia Mazzarino, Lorenzo Parrotto, Gabriele Portoghese, Federica Rosellini, Petra Valentini e Isacco Venturini. A guidarli, Carmelo Rifici (con il quale hanno lavorato sull’Orestea di Eschilo, lambendo la ritualità del linguaggio di Heiner Müller), Michela Lucenti (che, a partire da Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini, ha instaurato una ricerca sulla relazione corporale tra creature) e Valter Malosti, che ha affrontato la questione della «lingua come corpo». A margine, la conferenza di Giovanni Agosti – dedicata a Caravaggio, al caravaggismo e alla lezione di Roberto Longhi – e quella di Oliviero Ponte di Pino, a proposito della “co-autorialità” tra regista e interpreti. Nel padiglione accanto, infine, si è svolta la prima residenza di Massimo Popolizio e dei suoi attori, alle prese con M di Antonio Scurati, per la nuova produzione targata Piccolo Teatro di Milano.
Entro, quasi in punta di piedi, nella sala dove Malosti è al lavoro con i tredici allievi, radunati attorno a un grande tavolo centrale. È la loro prima lezione e stanno leggendo alcuni passaggi del XXVI canto dell’Inferno di Dante. Scorrendo la lista dei titoli selezionati da Malosti (accanto a Dante, Manifesto per un nuovo teatro e il ciclo delle tragedie pasoliniane composte tra il 1965 e il 1966, Macbeth e Lo stupro di Lucrezia di Shakespeare, Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos e altri), ho la sensazione di un attraversamento ampio, eclettico, eppure nel segno di una profonda concretezza. L’avvicinamento al testo avviene con semplicità, lasciando indietro l’esitazione, la reverenza, il timore di esporre la propria ingenuità, oppure, al contrario, utilizzandoli come materiale di lavoro. È in questo modo che il corpo e persino i “limiti” dell’esperienza corporale – la scansione del respiro, l’intromissione del pensiero che incide nelle flessioni della voce – diventano la cassa armonica del testo, lo spazio nel quale esso viene decriptato e la sua forza propulsiva riattivata.
«La voce è parte del corpo, quasi sempre il segreto sta nel suono: non si può pronunciarlo bene senza capirlo, ma non puoi pensare di capirlo senza pronunciarlo» spiega Malosti. La natura fisica di questo allenamento, la ripetizione, il perfezionamento dell’intensità e degli accenti, l’esercizio a tenere insieme il pensiero, la memoria e la velocità, sembrano generare uno speciale tipo di trascendenza che non è un superamento del corpo (il che implicherebbe l’idea di corpo come peso) ma un’espansione verticale delle sue possibilità. Questo lavoro con la voce, una materia così intima, vulnerabile e sempre nuova, è di necessità fortemente personalizzato, attraverso la relazione con il testo ma anche con le energie psicologiche messe in campo, di volta in volta, dall’interprete. C’è un confine inviolabile, quello ovvio della discrezione, eppure su quel confine sembra giocarsi una partita rivelativa: se i nessi, i guizzi e i passaggi vanno cercati, non replicati, la ricerca si svolge in un altrove interiore che non può essere esposto ma solo misteriosamente sondato dalla parola, e dalla sua emissione.
Nel saggio di Claudio Longhi, Cours de mise en scène générale. Piccolo breviario del (non-) metodo di Ronconi (che apre il volume, di recentissima pubblicazione, Regìa Parola Utopia. Il teatro infinito di Luca Ronconi, curato da Roberta Carlotto e Oliviero Ponte di Pino per Quolibet Studio) si legge: «[…] Ricordiamo tutti i tempi dilatati della recitazione di Ronconi, le pause dubitative tra una parola e l’altra, quasi a interrogare dall’interno il funzionamento della lingua, avendo soprattutto in mente un approccio psicanalitico al funzionamento del linguaggio». Questo intersecarsi dell’approccio strutturalista al testo, con l’attenzione alla parola pronunciata come luogo del pensiero, è uno dei preziosi lasciti di Luca Ronconi, forse complesso da comprendere fino a quando non appare, con massima evidenza, nel momento dell’applicazione.
Interrogato sul proprio non-metodo, Ronconi rispondeva riferendosi alla delicata empiria di cui parlava Goethe in una delle sue massime, la 288: «Vi è una delicata empiria che si identifica nel modo più stretto con l’oggetto, e così diventa teoria vera e propria. Questo incremento delle facoltà dello spirito appartiene però a un’epoca di alta cultura».
Esiste, mi sembra, un luogo non istintivo e non concettuale, al quale si accede con la pratica, elaborando con pazienza le proprie visioni e il proprio modo di tradurle, lasciando che si sviluppino in una concentrazione totale, ma quieta. Questo accesso richiede un tempo che gli sia dedicato, protetto dalle logiche produttive, dal dovere di “restituire”, di mostrare quanto si è acquisito, protetto persino dal proprio divagare. Per questo, nelle settimane della scuola d’estate, gli allievi mangiano e dormono a Santacristina, perché il raccoglimento non sia mai spezzato, e il tempo si distenda. Durante la lezione di Malosti, ho come l’impressione che il discorso non si posi mai, rimanendo alto, calmo, denso, improntato all’esecuzione.
Intanto è quasi ora di cena e sul parquet e sulle pareti bianche della sala si proiettano, in una luce calda, le ombre oblique delle foglie. Da tutte le finestre si vede il verde che si muove e mormora, si sentono i grilli.
La mattina successiva, la lectio magistralis di Giovanni Agosti prende le mosse dagli studi di Roberto Longhi dedicati a Caravaggio e al caravaggismo: attraverso le sue parole, si dischiude il racconto di un’epoca, non distante dal nostro presente ma da esso profondamente dissimile, in cui il sincretismo dei saperi si presentava come un’entità quasi “naturale”, accessibile allo studioso come all’artista. La sua conferenza spazia dalla grandezza della Mirra di Ronconi alla storiografia organizzata attraverso il meccanismo delle generazioni, dalla presenza di fenomeni artistici paralleli che vengono fraintesi per imitativi al problema della trascrizione verbale di un dipinto («la densità delle parole è capace di trasformare un oggetto in un altro»), dal valore dell’ambiguità («l’offerta di un ulteriore») alla funzione della consapevolezza («sottrarre all’ingenuità, senza paralizzare, senza introiettare un non si può fare»), per soffermarsi infine, a lungo, sul ruolo dell’arte e dello studio dell’arte: «si tratta della ricerca di una dimensione apostolica, di rimettere la dinamite».
L’ascolto è come un rapimento: la lezione di Agosti offre un pensiero metodologico complesso ma estremamente limpido che realizza la sintesi di critica, arte e letteratura, dimostrando, ancora una volta, come la conoscenza maturi attraverso la problematizzazione e come l’esperienza abbia bisogno di un tempo (e spesso di un luogo) dove depositarsi e fiorire.
Roberta Carlotto ha parlato più volte, in riferimento a Santacristina, della necessità della natura e, in effetti, è difficile immaginare che la memoria del lavoro di Ronconi, e più ancora la sua composita e concreta eredità, possano attuarsi in questo stesso modo in un luogo diverso, urbano, o in un tempo diversamente scandito.
Il suo archivio intanto (digitalizzato e consultabile sul sito https://lucaronconi.it) è custodito all’Archivio di Stato di Perugia, in attesa forse di essere trasferito, oppure di essere finalmente valorizzato e di divenire patrimonio materialmente accessibile a tutti.
La sensazione che rimane, dopo aver trascorso due giorni a Santacristina, è quella di uno stare insieme profondo e fertile, che attiva l’immaginazione, le visioni e la memoria. Questa dimensione protetta, isolata, quasi dimentica del battito del tempo, potrebbe suggerire l’idea di un “luogo che non esiste”.
E se il termine utopia, parola-cardine della poetica ronconiana, può essere utilizzato in due accezioni – di irrealizzabilità o di idealità – è, di nuovo, l’azione concreta che offre la risposta, spinge in direzione delle altezze, inventa nuovi assetti che, all’utopia, garantiscano la possibilità di essere pensata, e percorsa.
Ilaria Rossini
Centro Teatrale Santacristina, agosto 2021