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Danza Urbana a Bologna. Istantanee da una storia

A Bologna torna la venticinquesima edizione del Festival Danza Urbana, il cui quarto di secolo coincide con le celebrazioni per il cinquantennale del DAMS dell’Università di Bologna. Abbiamo incontrato il fondatore e direttore del festival, Massimo Carosi. Intervista in media partnership.

foto di Stefano Righini

Venticinque anni di Danza Urbana a Bologna. Quale condizione storica generò quel durevole impulso?

Danza Urbana nasce nel contesto della Bologna degli anni ’90, ricca di fermenti culturali legati all’antagonismo e alle subculture giovanili, raccogliendo moltissime istanze “dal basso”. Nel 1995 era nato, presso il DAMS bolognese, il circolo universitario di studi sulla danza MOTUS, in stretta relazione al corso di Storia della danza e del mimo della prof.ssa Eugenia Casini Ropa, il primo istituito in Italia, con l’intento di mettere in opera la fase teorica. Dalla cultura studentesca di quegli anni nasce il desiderio di fare ricerca sulla città in maniera non convenzionale, insieme alla necessità di far conoscere al pubblico bolognese la danza contemporanea. I riferimenti più iconici di quegli anni erano naturalmente la post-modern dance americana e la nouvelle dance francese degli anni ’80, e dunque l’idea di democratizzare l’arte, contro al pensiero diffuso della danza come disciplina di nicchia. Scegliemmo dunque di lavorare fuori dal teatro, come presupposto di ricerca nel tessuto urbano, e trovammo subito attenzione da parte alle istituzioni locale, in particolare nella persona dell’Assessore alla Cultura Roberto Grandi. Benché fossero gli anni in cui Bologna presentava una ricca rete di centri sociali come luoghi di aggregazione culturale (ricordo Link Project fra gli altri…), mancava una realtà di base legata alla danza, soprattutto per via di una consapevole politica culturale che negli anni ’70 vide assegnata ad ogni grande centro nella regione una vocazione specifica. Reggio Emilia era la città della danza, Bologna era la città del cinema e della musica lirica. Le arti sceniche in generale non erano una priorità politica: ciò portò a noi la responsabilità di un ruolo pionieristico su un territorio peraltro ricco. Ci confrontammo dunque con una generazione di giovani autori che non trovava spazi nella città, e ci tenemmo uniti nell’idea e nel metodo di abitare i luoghi per generare visibilità e incontro.

Un’istantanea da questi 25 anni. Sguardo rubato, Compagnia Atacama, 1998

Nel Canale delle Moline c’erano due piattaforme di cemento. Il pubblico poteva osservare da un ponte, o da una grata all’altro capo. Un luogo abbandonato che era diventato un po’ una discarica, che dovemmo ripulire prima dell’evento. La curiosità dei passanti fu tale che dovemmo organizzare due repliche straordinarie. Da quell’esperienza nacque un progetto pubblico di riqualificazione del canale.

Nel 1997 Bologna era una città diversa, prima di essere oggetto delle procaci politiche di gentrificazione e museificazione degli ultimi vent’anni. Dal punto di vista del festival, cosa hanno significato queste trasformazioni?

Hanno significato l’emersione di un tema che il paesaggio urbano stesso poneva: quello della riappropriazione dello spazio pubblico. Può sembrare una retorica obsoleta, legata a culture novecentesche, ma acquisisce un senso nuovo se la leggiamo con la lente degli ultimi 20 anni. Pensiamo al modo di abitare lo spazio dopo il 2001, anno dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Da lì in avanti, il tema dello spazio pubblico divenne appannaggio delle politiche di sicurezza e non di vita comunitaria. Come si condivide uno spazio, come se ne organizza la percezione in maniera non funzionalistica, commerciale, securitaria? È sorto poi un tema ancor più radicale, storicamente legato al concetto della spettacolarità: sostituire all’idea di spazio, astratto e misurabile, quello di luogo, un irriproducibile oggetto esperienziale. Se pensato nel campo della performance, agire nei luoghi, abitare i luoghi, trasforma la rappresentazione in esperienza condivisa. Qui torna il paesaggio come elemento fondativo, che informa la grammatica dell’evento performativo in sé, non ne costituisce solo la cornice. Non più, dunque, il teatro come macchinario per la rappresentazione, che induce uno sguardo prospettico separando rigidamente il pubblico dalla scena. Confrontarsi con un luogo fisico in cui si è calati, implica un processo diverso sia per artisti e pubblico: lo sguardo si apre fino a comprendere sé stessi e l’altro nell’esperienza. Viene dunque meno l’idea di arte come intrattenimento. La danza urbana non vuole essere uno strumento di intrattenimento o di marketing. Non può risolvere questioni, ma può sensibilizzare la cittadinanza. Per questo, negli anni, in risposta alle politiche urbane cui hai accennato, il festival ha visto una progressiva focalizzazione sulle pratiche partecipative e di interconnessione fra il centro e le periferie.

Un’istantanea da questi 25 anni.

foto di Matteo De Blasio

Moto Celeste, Leonardo Delogu / DOM-, 2015

Quattro giorni di attraversamento e quattro notti di accampamento nella città, da Piazza Maggiore ai Giardini Margherita, per arrivare la prima notte al quartiere Pilastro, simbolo della periferia sociale e territoriale bolognese. La seconda notte all’Arcoveggio, presso il Ponte della Bionda, al confine della dispersione urbana, la terza notte al quartiere Barca e infine l’eremo di Ronzano, sui colli.

Come si pensa e si cura l’incontro fra i corpi, in questa fase storica di crisi nuova (e antica)?

L’edizione 2020 di Danza Urbana era stata organizzata nell’ex area ferroviaria rigenerata Dumbo, per gestire al meglio gli ingressi. Per la prima ed unica volta avevamo deciso di chiedere un contributo per ogni performance, devolvendo gli incassi per il progetto Gaia del Comune di Bologna, un programma di forestazione urbana. Anche quest’anno stiamo per vivere un’edizione anomala per le restrizioni. Ma i problemi di fattibilità sono ben più radicati. Abbiamo appena collezionato una documentazione di più di 500 pagine e 28 allegati grafici di permessi. Si potrebbe pensare che uscire dai teatri liberi dalla burocrazia, invece possiamo affermare che oggi non c’è uno spazio più controllato, vigilato e normato dello spazio pubblico. Se visualizzassimo la planimetria di Piazza Verdi a Bologna, sottraendo le aree dedicate al commercio, ai dehors, quelle del traffico e le varie zone di rispetto, resterebbe meno di un sesto della superficie totale per una performance. Nel 2020 è stato promulgato un decreto di semplificazione per gli spettacoli dal vivo, eppure ad oggi solo per l’impatto acustico di un evento la documentazione richiesta si è quadruplicata rispetto a prima: se bastava una relazione, oggi bisogna produrre insieme una “certificazione”, una “dichiarazione” e una “comunicazione”. Queste costrizioni hanno uno sfondo politico, poiché un corpo che performa nello spazio pubblico è democrazia. E dunque, sebbene ci siano restrizioni che certamente rispetteremo, abbiamo scelto con forza di ritornare a diffonderci nella città, selezionando luoghi parzialmente protetti come chiostri, cortili, etc… Certo, ci sarebbe piaciuto lavorare con una maggiore dispersione nel tessuto urbano, programmando più momenti partecipativi. Per rilanciare di fronte a questi necessari compromessi, abbiamo coinvolto il mondo dell’università, rivolgendoci ad un gruppo di studenti del DAR – Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, per cominciare a lavorare sulla trasmissione dell’esperienza raccolta in questi anni. È nata così Devi-azioni, una sezione del festival in cui abbiamo lasciato ampio margine di progettazione ai ragazzi, a valle del seminario/laboratorio di co-progettazione di eventi di danza nei paesaggi urbani, dal titolo Dall’aula alla città, co-curato da me e Rossella Mazzaglia. D’altro canto Danza Urbana nacque da un gruppo di studenti del DAMS, di cui quest’anno festeggiamo i cinquant’anni con DAMS50.

Un’istantanea da questi 25 anni.

foto di Renzo Zuppiroli

Veduta, MK, 2016

Un progetto nato a Bologna, per Bologna. Uno sguardo su Piazza Maggiore dal Palazzo del Podestà. Performance articolata sulla distanza fra i performer e il pubblico: in estrema prossimità, nella sala di Palazzo Farnese, o ad estrema distanza, coi perfomer in piazza Maggiore, o con un fumogeno acceso sulla Torre degli Asinelli. Come si muove la città mentre il corpo performa? Come cambia la percezione di chi è immerso nell’esperienza e di chi passa per caso?

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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