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Cherish Menzo. Il teatro del futuro è già presente

Recensione di Jezebel di Cherish Menzo. Dopo il debutto italiano a Santarcangelo lo spettacolo è stato ospitato a Short Theatre, in Italia sarà possibile vederlo anche a Prato per Contemporanea Festival.

Foto Claudia Pajewski

Entra in bicicletta, di quelle con la canna ricurva, nascosta sotto un pellicciotto bianco, mentre la luce blu e la musica caricano l’atmosfera del Teatro 1 alla Pelanda di una densità innaturale. Cherish Menzo è arrivata a Short Theatre, forse da un luogo e da un tempo sconosciuti, con una performance che in qualche modo è specchio deformante, chiave di lettura di questi nostri anni. Anche di un festival che ormai è definitivamente mutato verso contesti internazionali, con una vocazione alle comunità attive e ai linguaggi del corpo e delle arti visive, convocati per un’indagine in cui rappresentazione e attivismo vanno di pari passo (qui l’intervista alla direttrice Piersandra Di Matteo).

Figlia di surinamesi, nata in Olanda nel 1988, dopo aver studiato ad Amsterdam, Cherish Menzo ha danzato con alcuni tra i coreografi più in vista della scena internazionale – Akram Khan, Olivier Dubois, Lisbeth Gruwez, Jan Martens, per citarne solo alcuni. Con Jezebel, prodotto nel 2019, si dedica a un immaginario ben preciso, quello delle modelle, cosiddette video vixen, le ragazze che compaiono nei video dei rapper. Giovani donne dal corpo perfetto a bordo piscina, cantanti con denti d’oro o d’argento ultra tatuati, automobili potenti e costose, lusso esibito con sfarzo, come fosse una sorta di rivincita per chi viene dalla strada; ma la mitologia degli eroi del rap americano la conosciamo. Con Cherish Menzo questa narrazione viene fatta esplodere dall’interno: da una donna di colore, con il corpo giovane e prestante come quello delle modelle messe in posa a mostrare le natiche mentre il cantante fa le facce da duro in camera.

Foto Claudia Pajewski

L’artista afro-olandese è però sfuggente, non si lascia decodificare immediatamente, non usa parole se non quelle delle canzoni, si pone di fronte al pubblico come di fronte a uno specchio, non racconta ma si lascia attraversare. Come se la performance stessa (l’insieme delle azioni, delle pose, della gestualità, dell’energia impiegata…) la scuotesse con delle scariche per poi abbandonarla e svuotarla per qualche attimo.

Avrebbe potuto usare le armi affilatissime della stand-up comedy, della narrazione, rendendo il messaggio univoco e infallibile e invece è proprio nell’indeterminatezza dell’apparato estetico che emergono i contorni di un’opera d’arte vivente in grado di elaborare stimoli e moderne mitologie per trasformarli in un riflesso deformante e spettacolare.
È vero che Menzo guarda a un immaginario che ormai ha qualche anno, quello appunto dei rapper con le ragazze iper-sensuali, ma lo sguardo dell’uomo sulla donna è poi così cambiato? Che tipo di giudizio devono scontare le donne quando usano il corpo per lavorare? Il titolo d’altronde affonda nel mito e nella sua torsione linguistica: Jezebel, personaggio biblico, regina dell’antico Israele, descritta come donna molto forte, dominatrice; ora quella parola è indicata per giudicare donne come le video vixen, “le poco di buono”.

Foto Claudia Pajewski

Dopo l’ingresso in bicicletta, il corpo statuario si rannicchia, si lascia inquadrare da una telecamera in proscenio, le unghie di 10 cm, bianchissime e ricurve come fossero zanne di leonessa. Unghie che, nelle mani incrociate, una dentro l’altra, divengono ali di farfalla o artigli.

Le modelle dei video patinati e sexy che in Italia arrivavano nel palinsesto della MTV dei tempi d’oro (quella generalista in cui il pubblico italiano, oggi quarantenne, scopriva anche Verdena e Prozac +, per intenderci) erano oggetto e soggetto del racconto attraverso il corpo e le sue parti anatomiche. Ecco allora che nella seconda parte della performance è la schiena a essere nel fuoco dello sguardo: anche in questo caso la performer viene attraversata da ritmi frenetici, fino a finire carponi. I movimenti sono ipnotici, a un passo dalla sfinimento, fino a quando è l’artista stessa a rinegoziare lo sguardo del pubblico: si ferma, poi ricomincia improvvisamente, poi ripiega verso una posizione laterale nella profondità sinistra dello spazio scenico. C’è anche una sorta di rifiuto dello statuto spettacolare, quasi una necessità di nascondersi proprio da quel fare spettacolo che se venisse accolto senza questa sfumatura darebbe ancora una volta il corpo della donna in pasto alla visione. Ma è proprio in questa contraddizione che si situa Jezebel, una fenditura nella cui polisemia Menzo può muoversi con libertà anche grazie a capacità tecniche e fisiche stupefacenti, anche quando dal corpo queste si spostano al viso: la maschera facciale nell’ultima parte dello spettacolo si trasforma in ironica e deturpante caricatura proprio di quei rapper, le labbra protagoniste di ampi movimenti circolari, la testa che accompagna il ritmo, gli occhi sgranati in un playback ironico e deformato.

Foto Claudia Pajewski

La parodia, che in questa performance sfuggente e allo stesso tempo di gran rigore, è uno dei motori drammaturgici, però non può non suggerire anche un’altra immagine: l’artista si infila un costume dorato gonfiabile che diventa una sorta di corpo espanso. Elementi di un immaginario che ancora una volta viene attivato con un sorriso beffardo: l’oro sempre presente nell’iconografia dei rapper afroamericani, e poi quel fisico fuori formato, super muscoloso o grasso, ma nel quale sono presenti dei seni appuntiti, pronti a colpire; metafora di un’opulenza senza freni oppure di una riscossa femminile?

Cherish Menzo con questo spettacolo diventa simbolo di una precisa e contemporanea attitudine alle arti performative, internazionale (dopo Short Theatre a Roma, replicherà a Prato per Contemporanea, poi a Oslo, ad Anversa, a Varsavia…), esteticamente proteiforme e attiva nella riflessione politica sugli stereotipi (in questo caso naturalmente sul corpo della donna nera). Una modalità artistica in cui la performance art mescola i propri segni con quelli del teatro e della danza; nella consapevolezza che abbiamo bisogno di uno scarto ulteriore: non basta più riproporre un immaginario pop, bisogna deformarlo, sabotarlo e farlo deflagrare attraverso il gesto artistico.

Andrea Pocosgnich

Short Theatre, settembre, 2021

JEZEBEL
idea, coreografia e performance Cherish Menzo
luci e coordinamento tecnico Niels Runderkamp
musica Michael Nunes
video Andrea Casetti
costumi Daniel Smedeman
drammaturgia Renée Copraij
sguardo esterno Berthe Spoelstra, Christian Yav e Nicole Geertruida
vocal coach Shari Kok-Sey-Tjong
immagine Tatchatrin Choeychom
coproduzione Frascati Producties
responsabile produzione Bibi Scholten Van Aschat
distribuzione e tour management Grip e Frascati Producties
con il supporto di Amsterdam Fonds Voor De Kunst
con il sostegno di Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi in Italia
grazie a Benjamin Kahn e al Centre Chorégraphique Le Château © Bas De Brouwer.

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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