HomeArticoliVideogame e virtualità live. L'altro teatro da Kilowatt

Videogame e virtualità live. L’altro teatro da Kilowatt

Un attraversamento di quattro spettacoli presentati a Kilowatt Festival 2021, all’interno dei quali la dimensione della virtualità è declinata attraverso prospettive originali, in un diversificato coinvolgimento dello spettatore. 

Foto Luca Del Pia

«Tutto è pronto, dunque, per avviare un processo di sostituzione e sovrapposizione, che permette al lettore di intervenire attivamente nella costruzione del testo, attraverso chiavi interpretative suscettibili di inesauribili variazioni e ribaltamenti». In questa citazione tratta da La grande rete della scrittura (A. Mazzarella, Bollati Boringhieri, 2008) sostituendo al lettore lo spettatore, individueremmo come da almeno una trentina d’anni (e con un notevole salto in avanti dalla pandemia in poi) la virtualità abbia inciso nei meccanismi di finzione, e nel nostro specifico, della finzione teatrale, aprendo nuovi orizzonti fra tradizione e innovazione digitale. Questo aspetto distintivo, riscontrato in alcuni lavori presentati durante l’ultima edizione di Kilowatt Festival 2021, rivela come la virtualità non annulli completamente la liveness, ma anzi crei un sistema di cortocircuiti tra presenza/assenza, tra sovrapposizioni di corpo/voce, tra simultaneità/differita. I quattro progetti scelti nell’analisi si inseriscono concretamente e fisicamente in alcuni spazi del borgo di Sansepolcro, che siano questi case, strade, cortili, foyer, giardini. In questa dimensione appare evidente come la presenza degli spettatori sia attivamente chiamata a interferire, modificandolo, il “testo”; tale intervento di ruolo può avvenire sia nel rapporto one to one richiamando lo spettatore alla singola responsabilità, che attraverso una presa di posizione collettiva. 

Foto di Elisa Nocentini

Il punto di vista del fruitore può spostarsi da un luogo fisico a uno mentale, da quello intimo e singolare a quello sociale e condiviso. I lavori di Alessandro Sesti, Gurshad Shaheman e della compagnia Enchiridion (Francesca Montanino, Mauro Parrinello, Matteo Sintucci), elaborano la relazione con gli spettatori a partire da un’opera che si fa medium. Nella performance Eclissi di Sesti, coprodotta dallo Spazio ZUT, uno spettatore/visitatore alla volta è accompagnato a girovagare per le strade del borgo, aspetto sostanziale della modalità di fruizione che permette a chi vi partecipa di addentrarsi nella conoscenza del luogo attraverso l’azione performativa, approccio caratteristico del festival e già riscontrato in altre edizioni. Su questa azione, la traccia letteraria, ripresa dalla novella di Luigi Pirandello, Una giornata, viene rimodulata sul tema della perdita di memoria e della presenza di sé: siamo invitati a seguire un individuo claudicante in accappatoio rosa (un malato di Alzheimer, patologia a cui è dedicato l’intero spettacolo) che, dopo averci consegnato un paio di cuffie, uno zainetto e un mazzetto di fiori, ci precede in una camminata durante la quale ascoltiamo in cuffia alcuni frammenti di vita puntinati da continui vuoti. A sopperire questa assenza interviene l’illuminazione di un ricordo, altre volte degli oggetti consegnati allo spettatore durante la performance, altre ancora dalla presenza di una figura femminile che diventa quasi il correlativo oggettivo di quanto stiamo ascoltando. In un continuo affastellamento tra familiare e sconosciuto, l’esperienza del singolo è così attraversata da alcune persone, la realtà irrompe nel flusso drammaturgico tanto da spingere chi assiste a domandarsi quanto, di ciò che lo sta circondando, possa fare parte dell’azione e quanto no. Anche quando non si tratta di scelte programmate dallo spettacolo, “l’anomalia” della presenza di questi due corpi, l’uno che segue l’altro (l’attore e lo spettatore), attrae lo sguardo dei passanti che, incuriositi, li seguono ed entrano, fosse anche a loro insaputa, nel campo percettivo. Questa estensione dell’esperienza è inoltre suggerita da una drammaturgia multipla (in collaborazione con Giacomo Sette), in cui al racconto personale si aggiunge un minuzioso racconto sonoro. Una confusione di suoni da strada, provenienti dai balconi, in lontananza o ravvicinati, amplifica lo spazio sonoro donandogli una corporeità virtuale. Percezione questa coadiuvata dal lavoro sulle musiche di Debora Contini e suono di Nicola Fumo Fratteggiani, ottenuto attraverso l’utilizzo dei microfoni binaurali, che ricostruisce fedelmente la percezione acustica naturale, tanto da spingere lo spettatore a domandarsi se quanto stia ascoltando sia o meno proveniente dallo spazio circostante.

La dialettica tra sostituzione e sovrapposizione crea uno spaesamento nel fruitore che, verso la fine, inizia a riflettere sull’identità della voce narrante e a domandarsi: a parlare è l’uomo che cammina dinanzi a me o è la mia vita quella che sto ascoltando? Lo slittamento è suggerito anche dalla presenza degli oggetti (una busta di plastica, un cappello giallo, dei fiori…) che nel racconto appartengono a colui che parla, ma nella realtà della performance sono consegnati allo spettatore. Tale ambiguità, dolcissimamente vaga, è accentuata nel passaggio finale in cui ci scopriamo soggetti di una foto scattata durante la camminata, consegnataci con la richiesta di scrivere dietro di essa un ricordo della nostra vita che vorremmo fosse indelebile.

Foto di Luca Del Pia

«Arrestate il vento, è lui il colpevole»: è una donna iraniana a parlare, in risposta a un’offesa a lei rivolta per il suo abbigliamento che le scopre inavvertitamente le gambe. Il vento, elemento invisibile i cui effetti si fanno però evidenti, arriva come una rivelazione all’interno del dispositivo messo in atto dall’artista franco-iraniano Gurshad Shaheman negli spettacoli Touch me e Taste me, che assieme a Trade me (non presentato a Kilowatt) compongono la trilogia Pourama Pourama. Sono due tappe di un romanzo di formazione il cui protagonista è un giovane e il suo rapporto con i genitori, dall’infanzia fino all’età adulta: nel primo spettacolo il riferimento costante è al padre, mentre, nel secondo è la figura della madre il contraltare della sua crescita. Nel primo, Touch me, lo spettatore è invitato a ascoltare la storia in voice over con indosso una maschera, che si scoprirà essere il volto del padre; nel secondo, Taste me, invece, Shaheman ci invita a cena, vestito con abito da sera nero, pendenti e décolleté, cucinandoci la specialità che usava preparargli la madre.

Foto di Elisa Nocentini

In Touch me, l’attore non agisce per tutta la durata dello spettacolo, è seduto tra il pubblico, ma la consapevolezza della sua presenza viene presto accantonata, ascoltiamo e basta, finché nella seconda parte, il suo corpo diventa catalizzatore dell’azione del pubblico, il quale è invitato a toccarlo per impedire la fine del racconto e quindi dello spettacolo stesso. La volontà di coinvolgere i fruitori nel processo spettacolare è evidente in entrambe le tappe, ma se in Taste me, la condivisione del cibo porta naturalmente a una condivisione esperienziale, nell’altro l’intervento del pubblico non acquista quella forza necessaria tale da farsi dispositivo di creazione o, in questo caso, di interruzione dello spettacolo, ma diventa pura forma.

Foto di Elisa Nocentini

Anche la non coincidenza della voce e del corpo non acquisisce un senso precipuo – tranne forse in alcune scene, di entrambi gli spettacoli. Nel finale di Touch me, l’azione di osservare alcune foto del padre proiettate diventa una possibilità per ciascuno di riguardare al passato e chiedersi quanto sia rimasto di quel rapporto con il proprio padre. In Taste me il contrasto tra l’azione narrata e l’azione agita da Shaheman innesca dei contrasti efficaci, a tratti anche commoventi. Alla narrazione della scoperta della maturità sessuale, delle prime sconfortanti, goffe, esaltanti esperienze, si oppone invece un corpo en travestie, stanco, maturo, consapevole; non fa più niente, ha già cucinato, già servito (singolarmente, tutti i presenti, con premura e dedizione), già mangiato. Shaheman, nei panni della madre, è seduta, pensierosa, la voce sembra dare corpo ai suoi ricordi lontani, ma nel suo “non agire” si addensano pensieri e considerazioni. La drammaturgia di Youness Anzane si costruisce attraverso l’utilizzo di tempi verbali al passato che destituiscono l’oggettività del racconto facendo prevalere, al contrario, la soggettività della voce narrante; questa crea una stratificazione di sensi “spostati” tra il protagonista del testo letterario, ascoltato, e la presenza fisica, più o meno efficace, dell’attore sulla scena, tra il “qui performativo” e l’”altrove del racconto”.

Foto di Elisa Nocentini

Virtualità evidente e manifesta è quella esplorata da Enchiridion in Shakespeare Showdown – with a kiss I die, progetto vincitore delle Residenze Digitali 2019 (promosse da Capotrave Kilowatt e Armunia) e poi sviluppato nel 2020. Con questo videogioco, inizialmente sviluppato come un coin-op arcade (con in progetto un ampliamento per la versione laptop), lo spettatore/giocatore può scegliere se ricoprire il ruolo di Romeo o di Giulietta e, come vuole la tradizione delle storie a bivi, raggiungere determinati obiettivi che sbloccano “momenti teatralizzati” interpretati da attori e attrici processati in PixelArt dallo studio Jarsik. Tra di loro Alice Giroldini, Tindaro Granata, Celeste Gugliandolo, Marco Maccieri, Manuela Mandracchia, Mauro Parrinello, Antonella Questa, Matteo Sintucci, con la partecipazione di Iaia Forte. Shakespeare showdown riesce a comunicare l’universo shakespeariano a un pubblico non per forza teatralmente alfabetizzato. Il senso dell’operazione non è la creazione di un videogioco che ricalchi il testo teatrale – difatti nella storia che si costruisce a partire dalla scelta dei due player, la trama di Romeo e Giulietta viene arricchita di altri personaggi appartenenti ad altre opere – quanto la possibilità di creare avventure grafiche che abbiano come finalità la virtualizzazione delle dinamiche proprie alla poetica del Bardo. Tale virtualizzazione genera una dimensione reale del testo collocandolo nel presente del gioco interattivo e contaminandolo con le interferenze dei diversi testi shakespeariani che possono essere o meno esperiti (in base all’abilità e al tempo dell’esperienza), essere o meno capiti (ma diventerebbe un esercizio intellettuale esplicitare la provenienza di quell’oggetto, personaggio o battuta). Nel tempo limitato dei 25 minuti della partita coin-op è forte il desiderio di continuare a giocare, di superare i livelli e andare avanti con la storia, anzi le storie, di esplorare ulteriormente il mondo di questi personaggi fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i… pixel!

Lucia Medri e Viviana Raciti

ECLISSI

di Alessandro Sesti
suono Nicola Fumo Frattegiani
musiche Debora Contini
collaborazione alla drammaturgia Giacomo Sette
coproduzione Infinito srl, Centro di Residenza Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Spazio Zut!, Strabismi, Thesorieri
si ringraziano Federico Pedini, Chiara Olivia Pernicini

TOUCH ME
TASTE ME

ideazione, regia, interpretazione Gurshad Shaheman
drammaturgia Youness Anzane
musiche Lucien Gaudion
scene Mathieu Lorry-Dupuy
luci Aline Jobert
video Jeremy Meysen
direzione tecnica Pierre-Eric Vives
cena Amer Ghaddar
traduzione in italiano Luca Ricci
produzione Rencontres à l’échelle – B/P
coproduzione Pôle des arts de la Scène, Friche la Belle de Mai, La Ferme du Buisson, Scène Nationale de Marne-la-Vallée

SHAKESPEARE SHOWDOWN – WITH A KISS I DIE

di Enchiridion (Francesca Montanino, Mauro Parrinello, Matteo Sintucci)
sviluppo Jarsick
con Alice Giroldini, Tindaro Granata, Celeste Gugliandolo, Marco Maccieri, Manuela Mandracchia, Mauro Parrinello, Antonella Questa, Matteo Sintucci
con la partecipazione di Iaia Forte
sviluppato nel contesto di Residenze Digitali 2020

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