Dalla Biennale Teatro di Venezia, recensioni e racconti: Il lago del cor di Danio Mandredini, We Are Leaving di Krzysztof Warlikowski, e lo spettacolo firmato dal vincitore del bando registi under 30, Paolo Costantini. Nell’articolo anche una riflessione sul futuro del festival.
La ripartenza nelle città turistiche comincia a manifestarsi di nuovo, con le vecchie abitudini, spesso indigeste in termini di affollamento e rispetto per l’ambiente: così la Venezia silenziosa e svuotata dello scorso anno ha lasciato il posto alla vecchia normalità. Sanificazione dappertutto, contingentamento dove c’è bisogno e poi via, ripartire! Ci siamo stati nel primo fine settimana della rassegna dedicata al teatro, periodo anche della Biennale Architettura. Una mostra, quest’ultima, che tra Arsenale e Giardini si pone come riflessione rizomatica sul presente e sul futuro dell’abitare, cercando di rispondere a una domanda ormai cocente: How will we live together?
Perché le modalità, gli approcci e le filosofie che utilizzeremo per vivere insieme rappresentano una sfida sensibile al futuro ma anche al presente; infatti, alcuni dei padiglioni più interessanti sono quelli che che guardano alle possibilità futuribili in cui legare a doppio filo ambiente e tecnologia, con la seconda che sia di sostegno alla prima e al benessere comune; oppure quelli che registrando il presente mettono in evidenza storie più o meno recenti di migrazioni e grandi cambiamenti nei popoli. Da segnalare anche quelli dedicati a piccole comunità che svolgono ruoli sussidiari nei territori: è il caso di uno dei fumetti verticali nel padiglione italiano, dove spicca la lotta aperta di Lucha y Siesta. È impossibile uscire dalla mostra di Architettura senza la percezione che il nostro immaginario teatrale sia stato sollecitato e stimolato; d’altronde, il teatro è un’arte nello spazio e nel tempo e come l’architettura deve rivolgersi al cittadino, eppure i due eventi condividono solo la contiguità degli spazi e le promozioni sui biglietti.
Vivere insieme, sfiorarsi, distruggersi, amarsi fino a farsi male sono tra i leitmotiv delle relazioni tra i personaggi di We Are Leaving del Leone d’oro Krzysztof Warlikowski. Non siamo più a Biennale Architettura ma siamo a teatro. Il duo di artisti Ricci/Forte, alla direzione da quest’anno, ha portato in laguna il regista polacco che in questo caso affida a uno sguardo iper realista e pieno di dettagli la messinscena di più di tre ore al Teatro Arsenale. I dettagli sono nell’ambiente scenografico, vintage ma realistico. Siamo in Israele, supponiamo ai giorni nostri (dato che a un certo momento spunta anche uno smartphone…) eppure il mobilio rimanda a un gusto rétro, proprio all’Europa dell’Est di qualche decennio fa.
E infatti Suitcase Packers di Hanoch Levin è del 1983, il testo, che riporta il sottotitolo “A comedy with eight funerals”, diventa nelle mani del regista polacco un gioco di specchi ma anche di accumulazioni: l’ironia c’è ma insieme a musica, sesso, luci al neon, perimetri da illuminare col wood, fondali con porte vetrate, culturisti queer, dirette social da proiettare in uno schermo sul fondale, fuori scena di bagni pubblici in cui consumare amplessi e morire. Un frastuono di segni che insieme alla necessità di seguire i sovratitoli (giacché lo spettacolo naturalmente è in polacco) richiede una fatica importante.
Dall’Europa dell’Est siamo abituati al teatro del corpo o delle visioni, per l’Italia teatralmente la Polonia è sempre stata soprattutto Grotowski e Kantor, dunque un teatro di ricerca fisica oppure di artigianato artistico. Con Warlikowski siamo di fronte a un teatro di regia che nel gusto rappresentativo ricerca ancora la propria relazione fondante con i testi.
Paolo Costantini è tutto il contrario: giovane regista selezionato da Antonio Latella attraverso l’ormai consueto bando (Biennale College – Registi Under 30); al debutto l’ex direttore era presente con tante risate e applausi. Dell’opera di area tipicamente post-drammatica (come l’ha definito Andrea Porcheddu nell’incontro post spettacolo citando Hans-Thies Lehmann) rimangono, ancora alcuni giorni dopo la visione, i volti in crisi, quasi sofferenti delle due attrici/performer e il loro chiedere al pubblico “Sto bene? Come sto? Sto bene?” Rimane anche il sangue che a un certo punto comincia a uscire dai cassetti, dalle fessure di un mobile, una cassettiera utilizzata come un essere vivente, come un attore. Cosa che probabilmente avrebbe fatto sorridere proprio uno come Kantor (per tornare alla genia polacca).
Uno spettacolo senza trama (la drammaturgia è di Linda Dalisi), con un incipit lunghissimo in cui nella scena vuota (ad eccezione di qualche oggetto e del citato mobilio che verranno mossi più in là) corre uno di quegli aspirapolveri robot, quelli automatici comandati dai sensori e dunque dallo spazio circostante. È un grande silenzio, interi minuti. Poi entrambe le attrici (Evelina Rosselli, Rebecca Sisti) cominceranno a manipolare oggetti, spazio e parola, ma appunto senza nessuna volontà rappresentativa, con le luci ben accese sul pubblico. Non c’è una storia e neanche i suoi brandelli a focalizzare la nostra attenzione, Costantini lavora su zone emotive e citazioni: quella da cui parte la seconda scena, l’arrivo delle attrici dalle scale (dal romanzo Oggi avrei preferito non incontrarmi di Herta Müller), poi affronta una serie di questioni dedicate ai ruoli sociali e lavorativi, come la storia della cicala e della formica che ritorna più volte. Formalmente il lavoro di Costantini si muove su un piano musicale, tutto sembra temporizzato, come in una partitura: così non c’è molta differenza tra un essere umano e un comò, entrambi possono sanguinare, entrambi hanno un ruolo centrale. È probabile che Costantini abbia calcolato anche la noia del pubblico, inevitabile in più di un momento, oppure la riattivazione causata da qualche effetto riuscito. E il contenuto? Arriva, in alcuni momenti, il tema relativo al nostro essere animali sociali, a questa disperazione evidenziata nell’ossessività di farci guardare dagli altri e nella necessità di trasformare quella pulsione in uno sguardo interno attraverso il quale domandarsi se tutto ciò ci faccia stare bene o meno; d’altronde, anche il titolo sembra voler riflettere su questa zona di pensiero: Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda. Come accade spesso con le opere non narrative, l’efficacia del lavoro di Costantini non è evidente nell’immediato e richiede uno sguardo complice, una predisposizione all’astrazione, e, nonostante il minimalismo del linguaggio, alcuni momenti si piantano nella memoria con forza.
Di Danio Manfredini è impossibile dimenticare la forza proprio delle immagini. Un uomo accartocciato di fronte all’orrore del lager, la cui angoscia d’altronde è evocata con immediatezza anche dal titolo che rimanda al primo canto dell’Inferno di Dante (Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta pieta), il deportato forse ricorda, proprio nel momento in cui la liberazione si avvicina; è un grumo di sofferenza:
Ci siamo aggrappati a tutte le ore tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora un poco.
Il sole si è coricato in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere, di fili spinati, stamattina è inverno.
La maschera di Manfredini sembra uscita fuori da uno spettacolo di Josef Nadj, (ricordate quel meraviglioso Woyzeck?); ma il ricordo è solo nell’impassibilità del viso data dalla maschera e in una certa andatura, quasi inerte, del corpo. Didascalicamente vestito della tipica uniforme a righe, è costretto in una sorta di marcia eterna, reso fantoccio dall’autoritarismo spersonalizzante.
Su una pedana posta in alto, sulla destra, l’angelo (Francesco Pini) suona dal vivo; dialoga in musica con l’attore e autore. È una ricerca poetica quella di Manfredini (prodotto dalla Corte Ospitale): tra le testimonianze emerse dai lager, la drammaturgia rappresenta così una moltitudine più che la storia di un singolo. Però questo tentativo di universalizzare il dolore, di creare un unico magmatico campo di racconto, quasi rimane sovrastato dalla forza e dalla potenza visiva dei disegni o del corpo dell’artista milanese.
Bisogna puntare l’orecchio, avere la pazienza e strappare alcuni stralci poetici alla monotona litania recitativa:
Ci siamo aggrappati a tutte le ore tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora un poco.
Il sole si è coricato in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere, di fili spinati, stamattina è inverno.
La programmazione pensata da Stefano Ricci e Gianni Forte è votata almeno per quest’anno alla consacrazione (in equilibrio tra maestri internazionali e italiani) e si può certamente ragionare, come ha fatto Amleta (l’associazione che monitora il campo dei diritti di genere), sulla mancanza di autorialità femminile; ci sarebbe poi da fare anche un discorso ad ampio raggio sulla permeabilità tra le diverse arti performative e il tessuto sociale: la Biennale Teatro e la Biennale Danza continuano ad essere divise (nonostante ormai i linguaggi abbiano trovato punti di contatto evidenti) e per ricordare una Biennale che invadeva le strade cittadine bisogna tornare alla memoria con la rassegna di danza diretta da Virgilio Sieni dal 2013 al 2015, ”una polis abitata dal gesto della danza”.
Per il teatro, se con Rigola abbiamo visto l’affermarsi del modello college in laguna, con Latella si è affinato maggiormente lo sguardo sui giovani con il bando dedicato ai registi, impulso in grado di far emergere un piccolo vivaio (Leonardo Lidi, Fabio Condemi, Leonardo Manzan, Giovanni Ortoleva e Martina Badiluzzi)
Naturalmente quest’anno la Biennale Teatro è stata ancora legata a protocolli di emergenza Covid ma, se la prossima edizione sarà quella dell’uscita definitiva, allora dovremmo sperare anche in una grande festa. Senza arrivare a imitare certe utopie del passato (il carnevale teatrale di Scaparro e gli isolotti di Ronconi per citarne solo due), bisognerà pur pensare a portare fuori dagli spazi bellissimi e ormai iconici dell’Arsenale alcuni momenti di un festival che altrimenti rischia di chiudersi alla città; e qualcosa si è già visto in questa edizione con il teatro sui tir di Kornél Mundruczó (Hard To Be a God) e un paio di performance all’aperto dei giovani della Biennale College; si tratta dunque di far esplodere questa progettualità. Non è un caso che la Biennale Musica sia stata definita proprio come “il pellegrinaggio dell’ascoltatore”, a mettere in evidenza la diffusione nei luoghi storici. Da qui anche la necessità di entrare in contatto non solo con la rassegna di danza (mescolare i due festival sarebbe una soluzione molto interessante) ma anche con musica, arti visive e architettura.
Insomma è arrivato il momento di rischiare, di collaborare, di aprirsi e trasformare la roccaforte in punto nevralgico, per un arsenale da cui partire e non in cui arrivare.
Andrea Pocosgnich
WE ARE LEAVING
Anno / durata: 2018, 210’
Tratto da: “Suitcase Packers” di Hanoch Levin
Traduzione in polacco: Jacek Poniedziałek
Adattamento: Krzysztof Warlikowski, Piotr Gruszczyński
Regia: Krzysztof Warlikowski
Scene e costumi: Małgorzata Szczęśniak
Musica: Paweł Mykietyn
Design luci: Felice Ross
Movimenti: Claude Bardouil
Animazioni e video: Kamil Polak
Drammaturgia: Piotr Gruszczyński
Collaborazione alla drammaturgia: Adam Radecki
Trucco e parrucche: Monika Kaleta
Con: Bartosz Bielenia, Mariusz Bonaszewski, Agata Buzek, Andrzej Chyra, Magdalena Cielecka, Ewa Dałkowska, Bartosz Gelner, Maciej Gąsiu Gośniowski, Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, Jadwiga Jankowska-Cieślak, Wojciech Kalarus, Marek Kalita, Dorota Kolak, Monika Niemczyk, Maja Ostaszewska, Jaśmina Polak, Piotr Polak, Jacek Poniedziałek, Magdalena Popławska
Direttore di scena: Łukasz Jóźków
Assistenti alla regia: Katarzyna Łuszczyk, Adam Kasjaniuk, Jeremi Pedowicz
Direttore di produzione: Hubert Prekurat
Direttore tecnico: Paweł Kamionka
Costruzione del set: Paweł Paciorek
Suono: Mirosław Burkot
Luci: Dariusz Adamski
Video: Tomasz Jóźwin
Trucco: Joanna Chudyk, Monika Kaleta
Oggetti di scena: Tomasz Laskowski
Costumi: Ewa Sokołowska, Elżbieta Fornalska
Palco: Tomasz Laskowski, Kacper Maszkiewicz
Traduzione in italiano: Marzenna Smoleńska
Sottotitoli: Zofia Szymanowska
Produzione: Nowy Teatr, Varsavia
Co-produzione: Théâtre National de Chaillot, Parigi; La Comédie de Clermont-Ferrand; Théâtre de Liège, Hellenic Festival, Atene; Bonlieu Scène national Annecy; CULTURESCAPES Svizzera, Basilea
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NEL LAGO DEL COR
Di e con: Danio Manfredini
Musiche composte ed eseguite dal vivo da: Francesco Pini
Aiuto regia: Vincenzo Del Prete
Dipinti e maschera: Danio Manfredini
Progetto audio: Marco Olivieri
Progetto luci: Giovanni Garbo
Scene: Rinaldo Rinaldi
Costruzione scene: Alan Zinchi, Officine Contesto
Montaggio video: Ivano Bruner
Costumi: Tina Cucci
Direzione tecnica: Guido Pastorino
Produzione: La Corte Ospitale
Con il sostegno di: Théâtre du Bois de l’Aune
In collaborazione con: Armunia Rosignano
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UNO SGUARDO ESTRANEO OVVERO COME LA FELICITÀ È DIVENTATA UNA PRETESA ASSURDA
Anno / durata: 2020, 70′ (prima assoluta)
Regia: Paolo Costantini
Con: Evelina Rosselli, Rebecca Sisti
Drammaturgia: Linda Dalisi
Elementi scenici: Giuseppe Stellato
Supervisione al disegno sonoro: Franco Visioli
Disegno sonoro: Riccardo Marsili
Luci: Fabio Bozzetta
Costumi: Graziella Pepe
Interaction design: Andrea Spontoni
Tutor del progetto: Antonio Latella
Produzione: La Biennale di Venezia
Residenza artistica: Carrozzerie N.O.T di Roma
Con il sostegno di: Associazione Ex Lavanderia di Roma
Tratto da: OGGI AVREI PREFERITO NON INCONTRARMI di Herta Müller © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano S.r.l. Prima edizione ne “I Narratori” giugno 2011