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Armando Punzo. Farla finita con la realtà

Intervista ad Armando Punzo. Naturae, La valle dell’annientamento – III quadro, è il nuovo lavoro della Compagnia della Fortezza.

Dal lavoro di Armando Punzo emerge un modo preciso di intendere l’arte, le possibilità dell’uomo e la capacità di astrazione del teatro. Nella conversazione vengono affrontati questi temi, a partire dal terzo quadro di Naturae; qui la recensione del secondo.

Foto Mauro Fanfani

Naturae è un progetto che si lascia alle spalle gli esseri umani che già conosciamo, pieni di difetti e passioni contraddittorie che Shakespeare ha ben descritto nei suoi capolavori, per lasciarsi guidare da una visione: il sogno di un’umanità perfetta e luminosa, che costituisce la nostra autentica natura. Ne hai parlato molto e con cura nel libro-intervista (recensione) che hai realizzato con Rossella Menna (Un’idea più grande di me. Conversazioni con Rossella Menna, Luca Sossella editore, Bologna 2019). Quando ti è apparso per la prima volta questo ideale? E perché pensi che il teatro sia un medium adeguato?

Sinceramente non potrei dire una data o un episodio specifico, tranne il mio ingresso all’interno del carcere, che all’inizio è stato fatto in maniera non consapevole. Credo sia importante stabilirlo per capire che la mia non è una posizione intellettuale. Le mie scelte hanno generato una pratica o un metodo, e anche una possibilità di lavoro all’interno del carcere: un rapporto mio (e del teatro attraverso me) con questa struttura della realtà che comunque ti pone dei vincoli, dei limiti, e si manifesta in tutta la sua crudezza, bruttezza. Il carcere è testimonianza di questa crudeltà e dei limiti che noi esseri umani esprimiamo attraverso simili strutture, che abbiamo creato. Questo tipo di struttura dà l’opportunità per esprimere qualcosa di terribile sull’essere umano.

C’è una giustificazione a questo e lo sappiamo: c’è la legge, c’è una crisi etica, c’è un tentativo anche di difesa rispetto al detenuto, che può aver commesso azioni assolutamente riprovevoli. Quando ti rapporti a una struttura del genere, ti sembra che l’essere umano sia ridotto in fondo a questo. Poi però ti guardi fuori e ti rendi conto che non è solo una condizione carceraria. Qui nel carcere c’è un concentrato di questo tipo di ragionamento. Fuori sembra solo più diluito e pare meno visibile, ma non è diverso.

Questo tipo di riflessione credo di averla fatta – o meglio, credo di aver iniziato a reagire a questa realtà – attraverso il teatro. Penso che quest’ultimo debba in un qualche modo produrre rispetto alla realtà uno scarto in avanti, anche enorme. Ma per riuscirci dovevo impormi una strategia, altrimenti mi avrebbero eliminato.

Credo quindi che le radici della mia visione siano vere, concrete. Credo che a monte ci fosse l’idea che il teatro o l’arte sia un modo di raggiungere una possibilità altra. Ritengo però che il carcere sia stato il fattore che mi ha fatto fare un autentico salto in avanti.

I miei lavori su Shakespeare… Sono lavori che io ho riscritto o tentato di riscrivere in una maniera poetica, perché (drammaturgicamente parlando) nei testi shakespeariani non mi piaceva il modo in cui era posto e rappresentato l’essere umano. Sono opere che ti sono state consegnate, che a causa di registi/letterati puristi sono diventate letteratura, canoniche, in alcuni casi persino un festival… Sentivo di voler lavorare contro queste cose perché avevo bisogno di un punto di partenza negativo. L’idea consisteva nel partire da dei “testi sacri” da riscrivere, da reinventare, da reimmaginare, che sembrano intoccabili come la realtà, come il carcere in cui di fatto mi trovo da 33 anni e in cui facciamo accadere – come pratica, non come teoria – delle cose incredibili. Ne segue allora che questa realtà si può modificare.

Mi pare che nel tuo discorso si celi un’analogia segreta. Il carcere come struttura è la concretizzazione visibile di una serie di altre prigioni invisibili in cui siamo intrappolati, o in cui ci rinchiudiamo volontariamente. Ti riconosci in questa analogia?

Io credo di essere arrivato proprio al carcere di Volterra con questa idea. Non mi chiedo quando, come e perché sono arrivati i detenuti in un carcere, che è questione che pertiene all’attualità, cosa a cui non riesco a interessarmi. Non mi interesso neanche della mia attualità, della mia biografia, che credo siano davvero meno interessanti… È piuttosto legato a quanto siamo prigionieri noi. Quanto sono prigioniero io? È evidente che ci sono dei limiti, che si è nati in un periodo storico, insomma che ci sono dei confini che ti vengono posti e altri che ti poni tu, a cui ti adegui per aver accolto una struttura. Cosa comprensibile e anche umana, normalissima, a volte anzi ti salva la vita, se vuoi. Altrimenti non si regge, a mettersi sempre continuamente in discussione.

È chiaro che invece io tendo all’idea che tutto deve essere messo in discussione, che tutto bisogna rielaborare. Questa direzione un po’ è all’origine della mia scelta di dedicarmi al teatro, perché penso che la realtà intorno è talmente fatta male, è talmente orribile, siamo talmente orribili anche noi, che credo veramente occorra trovare situazioni per metterci in discussione. Ho la sensazione concreta che viviamo in un periodo storico dove si ha l’impressione che tutto sia ormai impossibile da fare. Tutto è stato già provato, tutte le rivoluzioni sono fallite… L’idea è che tutto è inutile, che tutto ciò che di utopico abbiamo tentato è stata chiacchiera, gioco. Momenti dell’umanità in cui si è creduto di poter far qualcosa, ma in fondo noi restiamo sempre noi. Si prova per secoli, millenni, ma l’essere umano rimane sempre quello che è. Ecco, per me questa prospettiva è angosciante, è una cosa che mi ferisce personalmente, perché allora io sono un detenuto, non ho alcuna possibilità di evadere mai. Non riesco assolutamente a crederci.

Poi se vedo quello che c’è qui in carcere, quello che abbiamo fatto… Se dovessi chiedermi se ho risolto tutti i problemi che incontro, risponderei di no. Se mi chiedi se ho visto delle trasformazioni enormi, risponderei mille volte di sì. Questo è documentabile, non è illusione.

Sono tutte cose che vanno continuamente alimentate. Questa è la cosa terribile. Si parla di cose che vanno scritte, vanno spiegate, vanno vissute tutti i giorni. Devi combattere per queste cose, devi discutere. Non bisogna nemmeno dare per scontate le conquiste che hai raggiunto: se manco qualche giorno, il carcere si rimangia tutto. Si attiva un meccanismo dentro questa struttura che assomiglia molto a quello che avviene nell’essere umano, il quale tende a tornare a un punto di stasi, equilibrio, difesa.

Tu sei un ricercatore, credo che il tuo lavoro sia proprio l’opposto o l’antitesi di questa condizione. I ricercatori bruciano la loro vita, con questa loro missione, o in questa cosa in cui credono, o da questa loro passione e scelta intellettuale, quello che si vuole… Gli altri se ne approfittano anche. Si migliora la loro vita, ma ciò non viene riconosciuto.

Vorrei un attimo chiederti precisazioni sul tuo lavoro attuale. I quadri precedenti di Naturae avevano stabilito un legame molto intimo tra drammaturgia e luogo scenico: La Valle dell’Innocenza è stata ad esempio collocata in un’ex salina statale. Quale luogo ritieni ora confacente al terzo quadro La Valle dell’Annientamento? E che intendi per “annientamento”?

Il concetto di “annientamento” l’ho preso in prestito da Farîd ad-din Attâr – poeta sufi che ha scritto un poema sugli uccelli. Non lo affrontiamo direttamente, ma è stato uno dei testi che ci ha accompagnati nel nostro lavoro sin dalle origini, perché lo intendiamo come una saga. Prima si è lavorato due anni su Shakespeare, poi due anni su Borges, quindi due anni su Naturae. Adesso siamo nel settimo anno, anche se è stato interrotto da questa grave situazione del Covid.

Abbiamo meditato a lungo se mettere la parola “annientamento” nel titolo. Il quadro coincide con la settima valle: quella della consapevolezza – secondo il poema sufi, ma anche secondo la religione sufi. L’essere umano diventa consapevole di essere bene e male, di avere tutte queste qualità dentro di sé. Arrivati a questa consapevolezza, bisogna procedere ad annientarsi per quello che si è, per quello che si è sempre pensato di essere, per trovare o far emergere altre possibilità.

La consapevolezza è che tu sei mosso da queste passioni, che hai un modo di essere che coincide con l’essere umano che siamo noi adesso. La libertà e la felicità starebbero qui, nel cercare di avere consapevolezza di questo e di distaccarsene. Questo è dunque l’annientamento. Non c’è niente, e quindi si raggiunge uno stato assolutamente liberatorio.

L’ultima valle sarebbe quella della permanenza. Se tu raggiungi degli obiettivi, il problema sta nel portarli nella vita di tutti i giorni, nel permanere in questa condizione. Non bisogna raggiungere questo momento e poi tornare a noi stessi così come siamo. Sarebbe troppo facile.

Il luogo de La Valle dell’Annientamento è in questo caso la visione di questo Lui, del bambino. Siamo arrivati al punto in cui il suo sguardo innocente non è più una metafora. Il bambino si è appropriato della verginità dello sguardo, della capacità di mettere tutto in discussione e di interrogarsi su tutto, senza più sovrastrutture. Poiché questo lavoro non è terminato, ma è ancora in approfondimento, stiamo lavorando ancora sulla questione della “visione di Lui”. È come se fosse un pittore, o meglio una via di mezzo tra pittore e scrittore, che sta in quel momento riscrivendo l’umanità che ha incontrato – un’umanità che gli corrisponde, chiaramente. La sta re-immaginando completamente, dunque il suo sguardo diventa affermativo, non ha più i dubbi che invece aveva Shakespeare. Per questo poeta, il mondo e il suo stesso essere umano non gli appartenevano, non gli andavano più bene. Ha cominciato dunque a porre delle domande, a sollevare questioni… ma si è fermato ed è tornato indietro.

In Borges avevo trovato un compagno di strada, perché si spinge a dire (in estrema sintesi) che la realtà non è una. Essa è piuttosto una delle tantissime possibilità. Col suo modo di scrivere, fa così piazza pulita dei modi di porre la realtà che lo avevano preceduto.

E adesso c’è Naturae. Queste qualità che si trovano dentro l’essere umano sono state quasi castigate, sono finite dentro a un pozzo, e Lui in qualche modo le riconosce, le fa emergere, rendendosi conto che ci sono altre possibilità. È evidente che “armonia” rispetto a “gelosia” risulti molto più astratta, lo sembra proprio in termini di quantità. Tuttavia, è qualcosa che esiste ed è estremamente concreto. Noi stiamo lavorando su questo: sulla concretezza di queste qualità che sono nell’uomo e che invece sembrano essere eteree, illusioni, insignificanti, marginali, mentre sarebbero la parte da far crescere dentro di noi.

Ma l’annientamento e la consapevolezza di cui parli coincidono con la saggezza? Forse sbaglio, ma a me risuona molto in queste tue parole la concezione antica del saggio: un essere umano che si è preso cura delle qualità migliori e sa conservare questa sua condizione. Ha poi capito come orientarsi nel mondo, quindi anche come modificarlo. Dalla saggezza forse discende quella felicità di cui hai parlato prima e che hai anche posto a chiusura del libro-intervista con Rossella, scrivendo che occorre «superare l’Homo sapiens e andare incontro all’Homo felix» (op. cit., p. 357). Che opinione hai al riguardo?

Ma guarda, credo che il problema enorme in questo tipo di riflessione è che occorre rendere tutto concreto, ossia che si debba mostrare che non stiamo parlando di qualcosa di completamente astratto. Si devono lanciare semi di collegamento, che è poi quello che sta accadendo anche adesso tra me e te “qui e ora”, o accade con gli attori della compagnia e con i collaboratori mentre ragioniamo su questi temi.

La concretezza è la nostra vita. Siamo sempre noi esseri umani che ci stiamo ponendo queste domande e che stiamo cercando di trovare una soluzione: la forma che poi illustriamo per condividerla con gli altri. Ed è una forma che, a mio avviso, non deve essere solo estetica. Essa va riportata nella vita di tutti i giorni, perché ha a che fare con noi.

È chiaro comunque che ci troviamo di fronte alla questione della mimesi, se parliamo del teatro (che considero ormai deleteria, ma tant’è). Certo è una scelta artistica fondamentale, ma in cui io non credo più. Non credo sia più possibile avere qualsiasi forma di trasformazione della realtà se tu continui a giocare con gli stessi giochi, perché non avviene nulla. Posso avere tutte le buone intenzioni di fare Otello e Desdemona, o di studiare la gelosia e la sopraffazione. Posso trovare sempre più ragioni attuali per indagare il maschile e il femminile, così come il potere. A me sembra però che semplicemente questo materiale è tutto legato al quotidiano, riporta sempre gli stessi fatti, che io conosco e gli altri conoscono. Non si capisce mai se c’è un’altra possibilità: con la scusa di attaccare la gelosia e il potere, di fatto dovrò chiedere agli attori di cercare in sé queste cose. Di cosa parleremo allora? Sempre di quello che siamo oggi.

Tornando dunque alla concretezza, il mio proposito è prendere forme che sembrano più astratte, che non sono mimetiche e non cercano di ripetere l’essere umano per quello che è. Questo livello di astrazione rivela che l’essere umano ha tante altre possibilità, anche nel modo di porsi rispetto all’altro. Ci diamo del “tu”, del “lei”, del “voi”… Ma perché non posso giocarmi altre possibilità, quando nella storia dell’umanità abbiamo trovato mille altri modi di rapportarci? Perché ci ingabbiamo in queste disposizioni che poi non portano a chissà quali grandi risultati?

In fondo, uno spettacolo teatrale non è che l’estensione e la trasposizione di questi ragionamenti su un piano che quotidianamente sembra tu non possa raggiungere. Perché quello di cui ho parlato sopra è un piano quotidiano, anche con gli attori. Occorre ambire a stati del tutto diversi, con altre sensibilità: aperture, disponibilità, sguardo sull’altro che hanno molto a che fare con il teatro, inteso come pratica.

In un qualche modo, potremmo dire, sulla scia de Il critico come artista di Oscar Wilde, che non è più l’arte che imita la natura, ma la natura che imita l’arte? Forse quando un artista pone una visione lontana da raggiungere, la natura andrà in quella direzione.

Potrebbe essere, sì, e sarebbe anche auspicabile, ma soprattutto credo che l’arte semmai crea altra realtà, e se la crea questa automaticamente esiste e vive. Noi qui dentro al carcere stiamo creando altra realtà, ponendo altre prospettive. Il problema enorme è far capire che tutto questo accade come un fatto concreto: se qualcuno si precipitasse qui dentro all’interno delle nostre discussioni, gli parrebbe che stiamo parlando del nulla. La ragione è che questo non è il punto di vista maggioritario – ma sia chiaro che non voglio dar l’impressione che mi sto presentando come grande perché faccio discorsi minoritari. Vorrei invece che questa minoranza fosse la maggioranza.

Nel momento in cui vedo che i carcerati hanno l’opportunità di scoprire nuove cose, dismettendo la propria biografia, mi chiedo: “Ma come fanno queste cose? Se lo fanno loro, possono farlo tutti”. La loro condizione di partenza è terribile, parliamo di storie mostruose e di persone con assenza di cultura, nella stragrande maggioranza dei casi, insomma siamo di fronte a casi-limite di difficoltà. Quindi se ce la possono fare loro, significa che puoi fare questo tipo di ragionamento ovunque.

Vorrei chiudere sollevando un unico dubbio, non per polemica ma perché mi sembra di trovare una tensione. Parti dall’assunto che la vera natura umana nascosta nel nostro intimo sia luminosa. Ma come fai a esserne così convinto? In fondo, se è nascosta, significa che la nostra vera natura è ignota. Ma se si va davvero verso l’ignoto, non possiamo sapere in anticipo a cosa andiamo incontro, se verso un grande bene o un orribile male…

La tua prospettiva è chiara, ma non mi ci ritrovo. Il problema non è di andare verso l’ignoto. Ho fatto prima un esempio che credo valga per tutti, che è quello di “armonia”, ma si potrebbe fare un elenco lungo. In ogni caso, pongo lo sguardo su qualità che vedo essere dentro di noi e lo rifuggo da altri. Parlo quindi di un noto migliore da far emergere, da sottoporre alla maggioranza, da mettere in luce di più rispetto ad altre cose – anzi, credo che questa terza sia l’espressione più corretta. 

Quando abbiamo cominciato Le parole lievi, siamo andati in cerca nel vocabolario delle parole che non fanno riferimento alla concretezza: sono una minoranza assoluta. Questo forse ci dice quale sia la nostra natura di essere umani, di cosa siamo fatti, quali sono state le nostre maggiori occupazioni e le cose a cui abbiamo dato importanza, che abbiamo nominato e considerato come molto concrete. Certo sulle parole lievi hanno parlato anche le religioni, ma hanno preso una forma che non mi interessa. Sono diventate chiese strutturate, chiuse. Bisogna cercare sempre di guardare oltre l’umano, senza però affidarsi a qualcosa che è oltre l’umano. Non è una questione che io posso arrivare fin qui e poi mi affido a un’entità superiore perché non ci arrivo.

In un intervento video di Margherita Hack, ho sentito dire che il cervello umano contiene delle domande inspiegabili, o che la scienza non riesce a spiegare. Non trovando la risposta, l’umanità si è inventata la figura di Dio. La mente attiva tanti altri meccanismi similari per cercare di salvarsi, per trovare modi per non impazzire o non perdersi. Quindi ricollego il mio discorso a questi aspetti, non all’ignoto. Le qualità migliori ci sono e non le spendiamo, né le mettiamo in luce, né le pratichiamo abbastanza, né le ripensiamo tanto. Non parlo dunque di qualcosa di insondabile: il mio orizzonte resta sempre quello dell’essere umano.

Enrico Piergiacomi

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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