Intervista a Ermanna Montanari e Marco Martinelli, sul presente del Teatro delle Albe al momento della nascita di Malagola, scuola di vocalità e corso di alta formazione.
A Ravenna si respira sempre una remota aura di capitale, declinata da decenni nella fioritura teatrale che tutti conosciamo. Qui, la parola teatro è quasi coppia metonimica di Albe, compagnia che si è fatta, in trent’anni, somigliante alla sua stessa città: teatro, piazza, scuola, archivio, arrivando a innescare una tradizione viva che ha pochi analoghi in Italia. Durante la pandemia, questo processo conosce un passaggio naturale nella nascita di un luogo per la vocalità, per la sua archiviazione, per il suo esercizio. Palazzo Malagola guarda la basilica di Sant’Apollinare Nuovo e quello, diruto, di Teodorico. Malagola è parola immaginifica, evoca un’interiorità abissale, uterina che non è strano associare alla voce di Ermanna Montanari.
È proprio lei ad accoglierci e guidarci fra le sale del Palazzo, prima di sederci a discorrere nel cortile. Al piano terra gli ambienti dell’archivio. Ermanna Montanari disegna con la voce gli spazi, con gli schermi, ancora da installare, dove si potrà scorrere la playlist audio-video dell’archivio sonoro. In fondo, oltre un corridoio, una sala ombrosa, che verrà lasciata al buio per ascolti immersivi, a tu per tu con la voce. Al primo piano le stanze per il corso di alta formazione. Una sala grande, voltata, per lezioni e performance, poi camere più intime per l’esercizio e la sperimentazione dei quindici studenti che potranno iscriversi al percorso, gratuito, offerto da Malagola.
Ermanna Montanari (EM): Malagola è una Scuola di Vocalità in relazione ad archivi sonori, è un luogo di grande potenzialità per divenire negli anni un centro studi sulla voce. Un luogo di sperimentazione per artisti, un bozzolo sonoro in cui confrontare percorsi del contemporaneo, e poi via via accogliere le suggestioni di chi collaborerà a questa avventura. I luoghi del corso di alta formazione che prenderà il via ad ottobre, li immaginiamo collegati all’archivio sottostante. Le lezioni che si terranno qui, con Meredith Monk, Mariangela Gualtieri, Alvin Curran, Moni Ovadia, Chiara Guidi, Francesca Proia ecc… verranno registrate e scenderanno nell’archivio, come per un processo di digestione.
Questo ricorda il disegno che avete scelto per rappresentare l’identità di Malagola…
EM: A partire da una suggestione di Marco Sciotto, che sta lavorando sull’Archivio delle Albe per la sua tesi di dottorato, abbiamo chiesto a Stefano Ricci di creare una cosmogonia interna della vocalità, che fosse anche la mappa di uno spazio, per cercare di mettere al centro alcune domande: che cos’è la voce? Da dove origina? Gli antichi la immaginavano chi nei polmoni, chi nel cuore… L’attenzione alla dimensione biologica della fonazione è testimoniata anche dalla presenza, fra i maestri del corso, di Franco Fussi, foniatra. Poi naturalmente ci saranno anche lezioni filosofico-teoriche, come quelle di Enrico Pitozzi, che di Malagola è vicedirettore, Piersandra di Matteo, Caterina Piccione, Valentina Valentini ecc…. Malagola accoglie oltre ai docenti della scuola contributi di artisti e studiosi in altri momenti dell’anno come Vinicio Capossela, Antonio Attisani, Daniele Roccato… È un luogo pneumatico che si mette sul solco di quel pensiero gioioso iniziato dall’umanista Vittorino da Feltre che fondò la “Cà Zoiosa” per i suoi studenti nel 1400.
In un settore in cui il mercato del lavoro registra lo squilibrio fra disponibilità di offerta ed esiguità della domanda, quale scenario lavorativo potrebbe schiudere un corso come questo?
EM Pensiamo ad esempio ad una figura che possa relazionarsi coi musei, per la preparazione di audioguide o di percorsi sonori, una figura ancora non del tutto riconosciuta ma che, di fatto, è richiesta sul mercato – soprattutto in questo momento. E poi a figure formate proprio nel campo degli archivi sonori, o teatrali in generale – un tipo di archivio che per l’eterogeneità dei suoi documenti richiede specifiche competenze. Senza dimenticare che le attrici e gli attori e i cantanti e i musicisti necessitano percorsi che marchino la qualità della formazione. In Italia ad oggi mancava un sentiero dedicato esclusivamente all’esercizio della vocalità. Perché salire in scena è sempre scalare una parete nord, anche se a volte pare ce ne dimentichiamo.
Quello che si avverte qui è che questo luogo, che a breve aprirà le sue porte, esista da molto tempo.
EM: Viene da lontano, ma è scaturito come i fiori delle piante grasse che nascono all’improvviso, magari di notte.
Marco Martinelli (MM): è parte naturale del nostro rapporto con la città, che si articola lungo quei due assi su cui sempre abbiamo lavorato: l’orizzontalità della polis, la verticalità della ricerca artistica e della poesia. Oggi si fa tanto teatro che parla della “realtà”, ma ci pare che spesso lo si faccia in modo arido, privilegiando il “contenuto”. Il “cosa” è importante, sì, ma in arte determinante è il “come”. Le formule di “teatro sociale” o “teatro partecipato” spesso sono soffocanti, rivolte esclusivamente a quell’orizzontalità che è insufficiente, senza verticalità: i due assi si evocano a vicenda.
L’orizzontalità del mare-pianura e verticalità dei campanili bizantini… Ravenna sembra una città ideale per lavorare col pubblico fra queste due dimensioni essenziali della partecipazione e della ricerca dediziosa.
MM: Abbiamo seminato con tenacia negli ultimi trent’anni. In una città di 160.000 abitanti, se ogni anno 400 studenti delle scuole superiori fanno un’esperienza profonda di teatro come quella della non-scuola, si crea qualcosa di più di un semplice pubblico. Noi lo chiamiamo il principio-cattedrale: come gli scalpellini medievali, lavoriamo coralmente nella consapevolezza di lasciare un edificio che altri continueranno a elevare. Nel costruire il Cantiere Dante, che nel 2022 porteremmo a compimento presentando insieme il lavoro sulle tre cantiche, abbiamo infatti seguito due modelli che coniugano partecipazione e verticalità dell’arte: la sacra rappresentazione e il teatro di massa di Majakovskij.
Lavorare qui, nella Romagna felix, è anche una fortuna rispetto ad altri territori italiani – benché certamente voi compartecipiate alla creazione di questa stessa fortuna. Come ne declinate la responsabilità?
MM: Alimentando la concorrenza. Sapendo che nel far crescere le nuove generazioni di artisti e spettatori, a loro volta autori della visione, alimentiamo anche noi stessi.
EM: Favorendo l’autonomia dei percorsi di pensiero e di pratica, pur nel solco della nostra poetica…
MM: …che è una storia insolitamente lunga, quasi quarantennale. Siamo in una fase in cui i destini individuali vengono favoriti. I percorsi di cui ti stiamo parlando oggi riguardano Ermanna e Marco, anche se sono parte di un ecosistema della creazione. D’altro canto all’inizio in compagnia eravamo quattro, oggi siamo più di quaranta all’interno delle Albe: il nostro compito di direzione artistica è lasciare che le singole personalità si espandano. Più che una compagnia, siamo oggi una spirale di spirali: Albe è il termine che designa questo universo, una parola generante, un femminile plurale. Spesso il ruolo della direzione porta all’esclusione delle eccentricità, il che può essere anche giusto in certi casi; per noi, invece, è meglio così, è meglio lasciare che tutto venga al mondo.
In questa differenziazione dei percorsi, tu, Marco, hai incontrato il cinema: credi che ciò sia dovuto alle contingenze in un momento storico in cui ci è stato chiesto di ripensare la prossimità?
MM: No, la pestilenza non c’entra. Per quel che riguarda il teatro, non credo lo si possa ripensare: è l’arte dell’assembramento dionisiaco per eccellenza. Punto. Il cinema per me non è una questione di oggi: mi ha nutrito fin da quando avevo vent’anni. Al cinema ho sempre invidiato, da teatrante, la capacità di trattenere la realtà. I volti, le nuvole, il cielo… già nel nostro teatro, se ci pensi, dalla non-scuola al Cantiere Dante, non abbiamo fatto altro che mettere in scena, “mettere in vita” tanta realtà. Gremire lo spazio di centinaia di corpi è di per sè un lusso che imita i procedimenti del cinema. Quando la grande macchina della produzione cinematografica si è digitalizzata, mi è stato finalmente possibile accedere ai mezzi per produrre cinema. E benché venga dal teatro, il nostro è un cinema che inventa il suo linguaggio: onirico, politico, frontale, bizantino. Che si faccia nella cripta di una chiesa o in uno slum sovraffollato di Nairobi. E non è “teatro filmato”, ma semmai, come ha ben detto Laura Mariani nel suo libro (Il teatro nel cinema. Tre film di Marco Martinelli e Ermanna Montanari, di Laura Mariani, Luca Sossella Editore, 2021 – ndr), è teatro trasfigurato.
EM: Forse saprai che i calligrafi cinesi, a metà della loro vita, si cambiano nome – come per darsi un’altra forma, per rigirare lo sguardo su di sé; le donne indiane, invece, si tagliano i capelli, la loro parte erotica, per rinascere. Così noi ci siamo messi di fronte ad un foglio bianco.
Ed è stata un’esigenza di entrambi?
EM: (ridendo) purtroppo, di entrambi! Il cinema è soprattutto una passione di Marco, e al tempo stesso non può che essere anche mia, perché dopo quarant’anni non possiamo prescindere dal movimento dell’altro. Se uno si sposta, l’altro non può non seguirlo, che si apra una porta, che si chiuda una finestra, o che si finisca in fondo ad un pozzo. Che è, poi, la pratica del tai chi, del “farsi curvi”
MM: Così come la questione della voce, e di questa Scuola di Vocalità diretta da Ermanna, scaturisce sì da lei, ma io ne prendo parte. Mi arricchisce. Non possiamo prescindere dall’altro, anche quando è l’altro a segnare il passo.
Come si relazionano il lavoro di Ermanna sulla voce e quello di Marco sull’immagine?
EM: Attraverso la voce si vede. Attraverso il soffio si genera la figura. Pensiamo al Dio ebraico che è pura voce; una “visione” d’ascolto. Sono due momenti inseparabili, martellanti. Certo, le “situazioni” sonore mi ipnotizzano maggiormente, mi mettono in relazione subitanea al mistero. In genere posso accettare la mia voce, ma non la mia immagine. Negli anni ho costruito un’immagine di me da guardarsi in lontananza, attraverso un velo. Tutto ciò che resta impresso, come al cinema, mi terrorizza, io lo chiamo “tomba”.
MM: Una tomba assai vitale! Cocteau diceva che il cinema è la morte al lavoro. Pensa che ho dovuto lottare con Ermanna per avere un suo primo piano, cosa che desideravo da tempo… ma d’altronde lei e Pitozzi stanno pensando a un palazzo Malagola abitato da archivi sonori, e cos’è un archivio sonoro se non il coro dei morti che ci parlano?
Ermanna, da dove inizia, secondo te, il tuo percorso nella e sulla voce?
EM: Dal rumore dei trattori, dalle voci dei nonni, dal dialetto. La mia casa contadina era priva di immagini, priva di libri…
MM: …Aniconica…
EM: Più che aniconica, iconoclasta. Quando disegnavo, dovevo nascondere i disegni, perché disegnare era non fare nulla. Era un mondo di suoni, e sensi, siamo sempre immersi in un mondo sonoro (alza le mani per indicare il frinire delle cicale, ndr). Se ascoltassimo ciò che guardiamo saremmo più allenati all’ascolto dell’altro. L’ascolto apre alla relazione attraverso differenti tipi di pelle. La voce è la notte, è la parete nord.
Andrea Zangari