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Quel che resta della rivoluzione. Ottantanove di Frosini/Timpano

Ottantanove di Frosini/Timpano, in scena con Marco Cavalcoli, ha debuttato al Fabbricone di Prato nel finale di stagione del Teatro Metastasio. Recensione

Foto Ilaria Scarpa

Grandi bandiere francesi, stropicciate e délavé, lambiscono la scena scura del Fabbricone di Prato. Elvira Frosini – in un’intervista su Doppiozero, rilasciata all’indomani delle chiusure autunnali che hanno congelato il debutto – ha definito quell’insegna una specie di «fantasma, un convitato di pietra». È in una penombra desolata e quasi aliena che si gioca la partita di Ottantanove, l’ultimo lavoro di Frosini/Timpano, stavolta in scena con Marco Cavalcoli (tra le altre cose attore storico di Fanny & Alexander) una terza presenza che, senza spezzare il ménage, ne allarga con delicatezza le maglie, offrendo una simmetria nuova.

Siamo in un luogo che sembra di passaggio, eppure stagnante, orfano dei due ottantanove che hanno segnato la storia: la presa della Bastiglia e il crollo del muro. L’arbre de la liberté è diventato un bonsai che segna l’avamposto di un debole qui, il passato appare fondativo, incombente ma allo stesso tempo muto come un fossile, quasi sepolcrale. La memoria delle quattro rivoluzioni – protestante, francese, comunista e sessantottina – si dischiude (ma suona come la frattura di un guscio vuoto) all’avvento inquietante del futuro. Inquietante come un ultrasuono, non come un proclama, quasi astratto dalla contingenza (non si menziona mai il Covid), radicato nelle contraddizioni del presente: «abbiamo introiettato il neoliberismo […] / il capitalismo grida ai quattro venti: “noi difendiamo la cultura” / siamo sbiaditi, tutta questa luce egualitaria ci ha accecati».

Foto Ilaria Scarpa

Invece del passato si parla e il discorso è sovrarticolato, frenetico, esondante: tiene insieme La storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi e il teatro di Federico Zardi, Il misogallo di Vittorio Alfieri («ma è solo pour parler…») e i miti risorgimentali, il canone scolastico e Marat/Sade di Peter Weiss.  Una raccolta di materiali che è in parte confluita in una “playlist-archivio” su Youtube, intitolata Aspettando ottantanove.
Si tratta di uno sforzo di nominare che è sforzo di non far scomparire, di sottrarre all’oblio, quello della coscienza, prima di quello del tempo, i segnali di qualcosa, qualcosa che è avvenuto, che si situa nelle profondità identitarie di tutti noi («il ‘700 è l’infanzia della nostra modernità» come dice Daniele Timpano in un’intervista a Lucrezia Ercolani sulle pagine de il manifesto), che ci fa commuovere. Ma cosa accade quando la commozione coincide con un bisogno e l’evocazione, così verbosa, così caotica e disperata, della storia somiglia a una catasta di reliquie? Cosa accade se la nostra, da Italiani, è sempre una rivoluzione d’importazione (La vercellese al posto de La marsigliese, il tricolore scopiazzato che sostituisce al blu il verde) e, da esseri umani, una rivoluzione di secondo grado, passiva, spiata da una feritoia – o dallo schermo di uno smartphone («Scendiamo in piazza e prendiamo la Bastiglia? Scendiamo in piazza a vedere quelli che scendono in piazza»)?
Cosa accade se il repertorio è lontano, se il teatro è esclusivo e classista, non c’entra nulla con la rivoluzione anzi, chiudendo il pubblico nel silenzio e nella passività, riproduce i meccanismi della sudditanza?

Foto Ilaria Scarpa

C’è amarezza, ma c’è anche, in queste domande, in questa febbre classificatoria – accanto agli elenchi di teatranti e patrioti, quello di parole francesi entrate nel vocabolario italiano, sciorinato da Frosini – un dàimon che guizza e non si estingue. Sopravvive al suo stesso esorcismo, al martellare spasmodico delle parole che compongono liste, all’accusa di mitizzare l’infanzia, di mummificare la rivoluzione, di disarticolarla. Una veemenza che sfida, esibendola, la propria vergogna al cospetto della «dignitosa, intelligente impotenza» altrui, quel senso del ridicolo che ci investe quando vorremmo implorare gli altri di mettere a fuoco, insieme a noi, lo sfacelo: «Abbiamo bisogno di un’essenza mistica, oscura […] dentro di me c’è qualcosa che vuole agire, e qualcosa che vive isolato». Questa di Frosini/Timpano/Cavalcoli è un’auto-interrogazione frenetica e spietata, che si apre per strappi dolorosi, sostenibile perché costruita con sapienza di scena e gestita come uno scambio di palla ritmico, coordinatissimo da parte dei tre interpreti. E la chiave sembra essere proprio nel gioco a eludere quella facile commozione che irride.  

Foto Ilaria Scarpa

L’accusa generalizzata di attendismo, l’idea che l’atteggiamento della contemporaneità sia quello di aspettare che qualcun altro risolva, esibisce una strana vulnerabilità. In questo tempo di fioritura ipertrofica degli attivismi, alla colpa dell’indifferenza tout-court si è spesso sostituita l’insidia di vedere le battaglie opacizzarsi sempre di più, di smarrire il centro, in un flusso di auto-narrazioni performative e brandizzate (ne parla Irene Graziosi in questo pezzo su siamomine). 
Eppure, sul finale, quell’invito a «cambiare a piccoli passi, poco poco, piano piano» – che consuona, forse con casualità, al «morire per delle idee, vabbé, ma di morte lenta» di De André – appare come un bagliore e apre una piccola breccia, nella quale viene voglia di insinuarsi.

Ilaria Rossini

OTTANTANOVE

drammaturgia e regia Elvira Frosini e Daniele Timpano
con la collaborazione artistica di David Lescot
con Marco Cavalcoli, Elvira Frosini, Daniele Timpano
disegno luci Omar Scala
assistenza alla regia e collaborazione artistica Francesca Blancato
scene e costumi Marta Montevecchi
musiche originali e progetto sonoro di Lorenzo Danesin
elettricista e fonico Omar Scala
amministratore di compagnia Andrea Maltagliati
coordinamento tecnico dell’allestimento Marco Serafino Cecchi
assistente all’allestimento Giulia Giardi
cura della produzione Francesca Bettalli e Camilla Borraccino
ufficio stampa Cristina Roncucci
immagine del manifesto di Valentina Pastorino
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Kataklisma teatro e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
residenze artistiche Istituto Italiano di Cultura Parigi, Città delle 100 Scale Festival
un ringraziamento a Compagnie du Kaïros – France
vincitore della Menzione Speciale Franco Quadri nell’ambito del Premio Riccione 2019
photo Piero Tauro
in corealizzazione con Teatro di Roma

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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