Nell’ambito del Progetto Incroci, tra inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca, in relazione al tema scelto “da dove veniamo?” dal laboratorio di Asinitas Onlus, coordinato da Fabiana Iacozzilli alla regia e da Antonia D’Amore, per la costruzione degli oggetti, una riflessione sullo stato dei lavori.
Il progetto Incroci, il cui capofila è Teatro Magro di Mantova, in partenariato con Asinitas Onlus di Roma e Progetto Amunì-Babel di Palermo, grazie al sostegno di Fondazione Alta Mane Italia e di SCENA UNITA, Fondazione Cesvi, La Musica che Gira e Music Innovation Hub, intende attivare linee di inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca attraverso le arti performative. Da marzo a ottobre le attività riguarderanno tre progetti laboratoriali (condotti da Flavio Cortellazzi, Fabiana Iacozzilli e Giuseppe Provinzano, l’incontro tra i diversi gruppi in fase creativa e durante le presentazioni al pubblico, l’ideazione di tre giorni di riflessione con la Migra.Art Lab.Conferance che si terrà presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo. Teatro e Critica, media partner del progetto Incroci, accompagnerà le realtà coinvolte in una serie di approfondimenti e interviste durante tutto il processo di ricerca, attraversando le pratiche creative degli artisti e dei gruppi coinvolti, gli incontri di scambio, le presentazioni, gli interventi.
Colori, colla, poster, matite, metri arrotolati, vestiti di scena appesi in corridoio. Un’energia silenziosa e ancora immobile si percepisce nelle aule vuote, nell’attesa che arrivino i ragazzi e le ragazze per iniziare le prove. E poi, scatoloni e bozzetti e pasta e quaderni e confezioni di Pan di Spagna impilati uno sull’altro in cucina… Vista la vicinanza geografica, decidiamo di andare a trovare Fabiana Iacozzilli e Antonia D’Amore nella scuola di Asinitas Onlus di Roma dove stanno lavorando con il gruppo, che unisce undici stranieri/e e sei italiani/e, agli ultimi preparativi prima della presentazione a Santarcangelo Festival dell’esito laboratoriale del Progetto Incroci, dal titolo Abitare il ritorno. Echi e visioni di donne uomini e oggetti.
Alla domanda «Come state?» la risposta è un sincero e sorridente «arrivate, in tutti i sensi!», dice Fabiana Iacozzilli, «ci siamo quasi, mi sembra ci sia tanto entusiasmo da parte delle ragazze e ragazzi, a parte la naturale stanchezza». Attorno alla tematica relativa al passato, in risposta al quesito “da dove veniamo?”, anche nel caso del gruppo romano il lavoro si è rivelato inaspettato, una sorpresa, confermano entrambe. La relazione con la domanda sulla provenienza non è stata di tipo geografico, relativa quindi a una precisa località, ma ha un carattere intimo e esperienziale, riguardante la percezione da chi o da cosa si sente di essere stato generato. Imprevedibili e poetiche sono state le testimonianze: chi nato da una trottola, chi dalla lampada dello studio del padre, riportando, senza averlo stabilito a priori, il focus sugli oggetti e la loro natura che è cifra autorale specifica del lavoro della regista romana.
L’incontro con la peculiarità di Asinitas – che è prima di tutto un luogo di pratiche educative, didattiche e sociali – è stato fondamentale, e ha permesso alla regista e alla puppets maker di poter sopperire al tempo moderatamente ridotto di incontro con il gruppo, conosciuto solo quest’anno, grazie a un’osservazione e condivisione delle pratiche a lungo portate avanti dentro il centro interculturale. «Nonostante avessimo pianificato una buona parte del lavoro in precedenza, con Antonia siamo arrivate in un posto che non immaginavamo potesse esistere. Succede spesso in tutti i processi ma devo dire che questo è un metodo che mi appartiene, ovvero cerco sempre di creare i presupposti affinché si possa creare qualcosa di inatteso. Il lavoro con il gruppo è stato davvero un’epifania e devo ringraziare l’incontro con Asinitas. Quando siamo arrivate nella scuola, ci siamo messe in relazione con la concretezza del luogo, abbiamo visto i disegni, le case, e abbiamo compreso i laboratori attraverso i quali esplorano l’autonarrazione e l’apprendimento dell’italiano. Abbiamo innanzitutto lavorato su queste pratiche, sulla relazione e costruzione degli oggetti da cui nasce la domanda. Ad Asinitas sei libero di dire quello che pensi e anche libero di tacere».
Alcuni dei partecipanti (sono tutti amatori non professionisti tranne Nour Zarafi, qui anche assistente alla regia, ndr) hanno scelto di condividere delle idee e delle storie che sono poi diventate materia per la messinscena. Materia, approfondisce Fabiana, che è riuscita a far emergere mettendosi agli angoli, non imponendosi, aspetto chiave di questo lavoro e in questa occasione diverso rispetto alla sua solita modalità di interazione coi performer. Durante un’improvvisazione, la regista racconta di essersi resa conto che non avrebbe potuto lavorare come suo solito, che avrebbe dovuto fare un passo indietro, perché in quel momento il gioco teatrale aveva ceduto il posto a qualcos’altro, che non aveva senso sviscerare e portare alla luce per farlo restare invece nelle maglie di una complessità intima. Chi del gruppo ha deciso di condividere una parte di sé lo ha fatto sul serio. Quella della costruzione delle case è un’altra delle pratiche imparate ad Asinitas e rispetto a ciò «qualcuno non ha voluto parlare della sua casa, e dove non c’è stato racconto resta allora un vuoto sulla scena, ma quell’assenza è però presenza fondamentale».
Se dal punto di vista drammaturgico e di allestimento, il risultato è stato inatteso, per quanto riguarda la costruzione degli oggetti invece, vi è stato un lungo lavoro di pianificazione e interrogazione reciproca tra Fabiana e Antonia, iniziato tempo prima rispetto al progetto, a distanza e online. Gli oggetti, hanno spiegato entrambe, sono in parte nati in risposta alla domanda “da dove veniamo?” e in parte no. L’idea dei giganti di carta (i puppets manovrati dai partecipanti) ad esempio, è stata il punto di partenza prendendo spunto da alcune creazioni del National Theatre di Londra, mentre la progettazione delle “testoline” (un altro degli elementi manipolati durante la messinscena) è stata proprio una sorpresa. Stabilito ciò, si è dispiegato in seguito e dal punto di vista metodologico, un approfondito ragionamento sui materiali e la loro natura. Ci ha spiegato Antonia: «inizialmente avevo ipotizzato l’utilizzo delle pigne, a significare sia l’anima degli oggetti che il loro cervello, poi invece durante uno degli incontri, ho optato per delle testoline fatte con la polpa di cellulosa, più semplice da reperire. In questa fase, mi è stato d’aiuto l’insegnamento di uno dei miei maestri, Stephen Mottram, legato al gioco sullo sguardo della marionetta, a come determinarlo partendo dai movimenti che la sua testa deve compiere per seguire con gli occhi un oggetto».
Sforzo d’ingegno e creatività perseguito tanto nel reperimento del cospicuo materiale con un budget esiguo che nelle suggestioni suscitate: presa una pallina e fatta seguire dalle teste delle marionette per lo studio sullo sguardo, Antonia è stata osservata da Fabiana che ha deciso poi di far diventare questa sua azione una scena dell’esito laboratoriale: «intuitivamente e creativamente mi sembrava molto pertinente sia alla nostra tematica che alla prassi seguita. Antonia è riuscita a creare un mondo, anche se fatto “solo” di carta».
Il lavoro sullo sguardo e sulla necessità di non rispondere alla domanda sulla provenienza geografica quanto esperienziale, nasce inoltre da uno spunto bibliografico, scovato in un saggio di Shahram Khosravi, professore iraniano di Antropologia sociale all’Università di Stoccolma. Essendo stato migrante illegale nel 1988, ha riportato il suo vissuto negli studi focalizzati su migranti, deportazioni forzate e richiedenti asilo. Nel testo Bordered Imagination apparso nella rivista Crisis Revising Europe’s migration crisis, l’antropologo si interroga sulla domanda “da dove vieni?” sottolineandone l’aspetto implicito di distanza e classificazione: «più che un semplice atto di esclusione, la domanda mira a mantenere l’altro al suo posto in termini di gerarchia sociale. Esclude quello che è già incluso. Da dove vieni? è posta per ricordare che l’estraneità non si dimentica né si perdona» afferma Khosravi. Lo studioso propone una risposta simile: “da quale parte della tua fantasia e immaginazione pensi che io provenga?”. In questo modo la relazione dialettica tra chi interroga e chi è interrogato muta in un ribaltamento di segno che costringe l’interrogatore a rivolgere a se stesso quella domanda e a ridefinire il senso tra un dentro e fuori, io e noi. «Per me è stato fondamentale leggere questo testo – spiega Iacozzilli – e mi ha aiutato anche a comprendere la risposta di un partecipante che mi colpì molto, che è stata “io non vengo dalla mia casa, io vengo dalla rivoluzione».
La pratica di lavoro con gli oggetti determina uno spostamento di paradigma nel modo in cui si approccia un tema: l’oggetto infatti diventa, ha sottolineato D’Amore, un catalizzatore di attenzione, esso assorbe tutti i pensieri e le energie non solo di chi lo manovra ma anche di chi lo osserva. «È come la maschera, implica uno spostamento da te a lui. C’è chi, lavorando non con i giganti ma con le testoline, si è percepito nudo di fronte al gruppo». Dopo aver costruito il gigante, le formatrici hanno chiesto alle ragazze e ai ragazzi di pensare che il gigante potesse rappresentare una figura importante della loro vita, sia nel bene che nel male, scegliendo di esso dieci elementi che lo caratterizzassero. «Nella scena del compleanno, ogni gigante è mosso rispettivamente da tre persone e ciascuno di loro è consapevole di star muovendo la sua creatura. Tra loro, alcuni hanno voluto dire chi fosse quel gigante, altri hanno solo riportato le caratteristiche, altri ancora non hanno specificato e io non lo so tuttora e non voglio saperlo», ammette Iacozzilli. «Nella scena in cui racconto in voice over di mia madre, credo che in questa mia breve storia autobiografica possano essere rappresentate tutte le storie delle persone che hanno lavorato in questo anno; anche chi non ha condiviso nulla sta portando qualcosa in scena».
Gli incroci avvenuti tra Palermo, Roma e Mantova hanno significato per Iacozzilli un’opportunità molto importante di ridefinizione della sua consapevolezza autoriale, nonostante lo scetticismo iniziale rispetto alla paura di perdere del tempo funzionale alla creazione: «anche se è un laboratorio, devi pensare al suo esito e ti toglie un po’ il respiro in termini di tranquillità, soprattutto se hai una scadenza precisa. Ciononostante incontrare Giuseppe e Flavio è stato necessario per due ragioni: la prima per i ragazzi e le ragazze perché loro si sono goduti due giorni di lavoro sugli esercizi corporei, sulla voce, ancora di più di quelli da me programmati perché poi ho dovuto dare più spazio alla pratica con gli oggetti; la seconda perché per me essere spettatrice di quello che Giuseppe e Flavio hanno innescato, mi ha dato la possibilità di cogliere delle sfumature inaspettate nei caratteri, modi di fare, abilità nascoste del mio gruppo». Se dal punto di vista registico autorale magari non vi sono stati dei cambiamenti in quanto resta centrale l’autonomia professionale di ciascuno, sicuramente dal punto di vista pedagogico è stato un tempo proficuo, di indagine, anche e proprio alla luce di quel “passo indietro” necessario alla scoperta di elementi nuovi nell’altro, e in se stessi: «ho capito che anche se non ho il controllo diretto, io esisto ancora».
Al termine della nostra chiacchierata, iniziano ad arrivare Jamila, poi Jack, Zara, Piero… è quasi l’ora dell’inizio delle prove e bisogna sistemare i materiali scenici in sala. Stiamo per andare via, quando Fabiana, aprendo il suo quaderno degli appunti, con segnalibri colorati e schemi e pagine riempite di inchiostro, ci legge un passaggio del poeta Rainer Maria Rilke, che già era ritornato all’inizio di questo percorso incrociato: «Quelli che sono morti molto tempo fa esistono ancora in noi come predisposizione, come peso del nostro destino, come mormorio del sangue». Predisposizione, peso, mormorio.
Redazione