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El Conde de Torrefiel. Il teatro del futuro è nella nostra mente

Recensione. Ultraficción nr. 1 del duo catalano El Conde de Torrefiel visto a a Santarcangelo 2050.

Foto El Conde de Torrefiel

Uno schermo scuro come una voragine orizzontale che immette, o nasconde, a quel bosco che gli spettatori di Santarcangelo conoscono come l’ordinata cortina naturale delimitante il parco Baden Powell – Nellospazio secondo la biennale toponomastica coniata dai Motus per quest’edizione esplosa, sconfinata del Festival. Uno schermo scuro come un cinema senza immagine e solo il nitore di due linee di testo intermittenti, a scandire storie, finzioni. Sotto, una ribalta abbandonata per fare spazio all’assenza. È proprio dall’assenza che meglio prende corpo l’immaginazione? Ultraficción nr. 1 / Fracciones de tiempo radicalizza quell’apostrofe allo spettatore-in-quanto-tale che ha sempre, potentemente segnato i lavori de El Conde de Torrefiel, come nell’indagine messa in opera l’anno scorso proprio a Santarcangelo con Se respira en el jardín como en un bosque. Lo spettatore è un circuito immaginativo, chiamato in questo caso a leggere il testo e costruir-si un flusso di immagini. Il teatro del futuro, claim che eccheggia esplicitamente in questo lavoro come nella drammaturgia tutta del festival, si delinea nella mente: è un teatro fantastico in quanto esiste nella fantasia. Potrebbe essere scontato come un’invettiva contro l’overflow di pixel della nostra quotidianità, è invece uno spiazzante atto iconoclasta questo del duo catalano, che sa trovare e mettere in risonanza le corde dell’immaginazione.

Foto TeC

Ultraficción comincia nel “momento in cui la luce del giorno incontra l’inizio della notte” e le anatomie si fanno incerte, così da mettere in crisi lo sguardo che cerca i confini fra le cose. In una prolusione, El Conde esplicita la volontà di farci riflettere sulla permeabilità della coppia reale-fictionale. “Ciò che vedrete e ascolterete qui è reale. I luoghi e le persone sono reali. Nulla è stato inventato”. Semplicemente reale come il parco e lo schermo davanti a noi, come l’aria umida che risale dalla terra e punge le caviglie scoperte dell’audience. C’è qualcosa di duro, quasi ascetico in quest’asserzione di realtà: il momento spettacolare stesso è ricondotto alla lettura personale – gesto che è già ne La Plaza, in cui però le parole in sopratitolo convivono, in dilaniante contrasto, con l’immagine scenica. Il distanziamento moltiplica la potenza della lettura come atto individuale; la postura isolata, lievemente sacrificata sopra scranni lignei, favorisce la ricezione del flusso di parole e la sua commutazione immaginifica, quasi si performasse un esercizio spirituale. A indurire il respiro, la drammaturgia sonora esplode in rocciosi rift di chitarra elettrica su un ipnotico basso continuo. Testo e musica ci portano nel deserto californiano, il cui paesaggio ispirò, a inizio anni ’90, le sonorità dello stoner rock, sottogenere musicale dell’heavy metal. Stiamo ascoltando i Kyuss, come come ci informa il testo, gruppo pioniere del genere. Perché siamo in questo paesaggio? Non c’è che il tempo di percepire la minacciosità di queste masse sonore (profezia climatica di un mondo desertificato?), che il testo opera la prima delle dislocazioni geotemporali che scandiscono il montaggio drammaturgico: siamo nel 2015, nella sala del Bataclan di Parigi. Sul palco, durante il famigerato attentato, suonano gli Eagles of death metal, band che nacque proprio dallo scioglimento dei Kyuss.  Il ritmo cresce, al pari del respiro che suggerisce ai neuroni un’angoscia di imminente catastrofe, associata dall’inconscio mediatico al volto del terrorista velato di nero.

Foto di Claudia Borgia e Lisa Capasso

L’analogia come strumento sintattico, che crea parentele fra luoghi e tempi distanti, prosegue in due passaggi-paesaggi narrativi “paralleli”, uno in cielo, l’altro in mare. Un aereo fa rotta dalla Germania a Israele, un barcone attraversa nella stessa frazione di tempo il Mediterraneo, verso l’Europa. C’è vita a bordo di entrambi i mezzi di trasporto, vita verosimile che nel montaggio interiore ricompone immagini televisive e ricordi di viaggio (notevole anche la qualità letteraria del testo, che con precisa eleganza sa scavare nell’attenzione e nell’archivio immaginario di ciascuno). Il barcone, giù nel gelido inferno del mare notturno, è la metafora rovesciata dell’occidente che viaggia nell’alto dei cieli? I due vettori si incrociano per un attimo lungo la verticale. Su una mappa – a chi scrive pare più volte d’intravedere l’immagine di una mappa dietro la drammaturgia – i due punti coinciderebbero in quell’unico istante. Qualcosa di astrale s’inverte, o forse no: è messo in scacco lo stereotipo narrativo. Sul barcone qualcuno avvista la terraferma, è la costa cretese; sull’aereo, uno dei motori esplode. I migranti sono costretti a raggiungere la riva a nuoto dallo scafista, molti non sanno nuotare; in alto, un ragazzo spagnolo, di cui avevamo ascoltato le riflessioni trascritte, afferra la mano del suo anziano vicino di posto. Climax di bracciate e vuoti d’aria, arti e rottami. Silenzio. Dal bosco un gregge di pecore, in moto perfettamente coordinato dai richiami melodiosi ed enigmatici di un pastore, si avvicina. Ci gira intorno, mentre fumo e la luce liquida dello schermo ora radioso inondano la platea. Poi anche le pecore passano fra gli spettatori. Il qui dell’odore acre del gregge, della morbidezza del vello che scorre su braccia e gambe: della performance. L’altrove della drammaturgia, dell’arcadia cretese, di un’aldilà orfico che bagna gli occhi. L’immaginazione è interrotta dove inizia un miraggio. C’è una tensione indefinita fra due luoghi e tempi che nemmeno sapremmo nominare.

Foto di Claudia Borgia e Lisa Capasso

Così investiti dalla realtà multisensoriale di un’immagine-metafora, il tempo presente interferisce con l’idea stessa di rappresentazione teatrale, come un glitch disturba un segnale video. Il testo-spettacolo entra in risonanza col festival-spettacolo diffuso, includendo riferimenti site-specific come il villaggio HTBT, effettivamente esistente al di là delle fronde. Lì la narrazione ci porta a spiare un rave improvvisato dai giovani abitanti, riversato sul pubblico in forma di rutilante musica techno che fa, letteralmente, sobbalzare il cuore e la natura circostante. L’ultrafinzione è un’ultrarealtà, è affastellarsi di realtà in sovrannumero che producono per analogia una realtà più reale di noi stessi (ed è forse la finzione che la contiene – la finzione come universo, anzi pluriverso). La realtà è così un destino, non un presupposto: siamo chiamati a immaginarla e forgiarla per dare vita ad una nuova specie che ci trascenda. Nelle pieghe di quest’atto generativo si nasconde un detonante contenuto politico, ma anche il recupero possibile della meraviglia, o del perturbante, che restituisce al teatro la sua fondativa sospensione d’incredulità.

Foto Betty Apple

Nella parte finale del testo-guida, in un mondo infetto e surriscaldato, il corpo di una donna genera da sé una specie compagna. Vengono in mente il Ctuhulucene e le creature ctonie di Donna Haraway. Un corpo del futuro emerge dallo schermo, dalla parola, alla carne, al chip, come quello di Betty Apple che ci appare durante la talk Body in transition _ Time/Space Travels, l’epidermide squamosa di pixel, la voce ri-mediata dalla distorsione digitale. “Il destino dell’uomo è il pixel” dice ad un certo punto il testo di Ultraficción, con un’assertività più saggistica che poetica. Il futuro immaginato da El Conde, come nei lavori precedenti, resta un allarmante enigma, un paesaggio da perlustrare con piglio di sperimentatori – pronti anche a vedersi il corpo mutilato e ibridato con protesi cibernetiche, purché si accetti di non restare mai sé stessi, come chiosa in epilogo l’immaginaria regista di un film ambientato nel futuro. Siamo di fronte ad un’estetica del problema, che, come ricorda ancora Haraway, in inglese è trouble, dal francese troubler che significa “rimescolare”. Così, mentre s’interrompe la proiezione di parole e suoni, non potremmo dire se un gruppo di giovani che esce dal bosco sia parte della finzione. Chissà se lo sanno, loro, di prendere parte a questa ultrafinzione.

Andrea Zangari

ULTRAFICCIÓN nr. 1 / Fracciones de tiempo

8 – 10 luglio 2021, Santarcangelo festival

idea e regia El Conde de Torrefiel
testo Pablo Gisbert
suono Rebecca Praga e Uriel Ireland
direzione di scena Roberto Baldinelli
con il sostegno di Institut Ramón Llull, ICEC – Generalitat de Catalunya / © Olga Fedorova

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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