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Concita De Gregorio e Erica Mou: le ultime cose che restano da dire

Concita De Gregorio e Erica Mou intervistate per il debutto di Un’ultima cosa. Cinque invettive, sette donne e un funerale, in scena al Campania Teatro Festival il 19 giugno 2021

Un’ultima cosa. Cinque invettive, sette donne e un funerale, debutterà il 19 giugno nel Cortile della Reggia di Capodimonte a Napoli. È uno spettacolo prodotto da Teatri di Bari e Rodrigo, scritto e diretto dalla giornalista e scrittrice Concita De Gregorio, con la musica live della cantautrice Erica Mou, lo spazio scenico e le luci di Vincent Longuemare e la regia di Teresa Ludovico.
Un modo per dare l’opportunità a cinque importanti voci del Novecento come Dora Maar, Amelia Rosselli, Carol Rama, Maria Lai e Lisetta Carmi, di confessare “un’ultima cosa da dire”, raccontando chi sono state e chi per sempre saranno.

Riportiamo di seguito l’intervista a Concita De Gregorio e a Erica Mou, a cura di Francesca Pierri, all’interno della trasmissione Babylon; al termine dell’intervista, il video completo della puntata.

Partiamo da qui. Cinque donne al centro della drammaturgia: sono cinque artiste, soltanto una vivente e che prendono parola per l’ultima volta. Dora Maar, Amelia Rosselli, Carol Rama, Maria Lai e Lisetta Carmi. Perché avete scelto il teatro per far dire a qualcuno le proprie ultime parole?

C.D.G.: Che le morte parlino da vive è una cosa molto importante e significativa, anche se ci sarà da fare un discorso a parte per Lisetta Carmi, unica vivente tra le protagoniste. Si tratta di invettive funebri e lo stesso funerale sarebbe un’occasione della vita magnifica se uno fosse vivo: bellissimo poter assistere al raccogliersi di tutte le persone amate che hanno avuto senso all’interno di un’esistenza. È un vero peccato non essere presenti al proprio funerale ed è altrettanto un peccato non cogliere l’occasione per dire l’ultima cosa prima di andare, agli amori di prima, agli amori di dopo, a quelli segreti, ai propri figli così come ai vecchi compagni di scuola.

Lo spettacolo nasce da una mia ricerca sul tema del confine tra la vita e la morte che va avanti da moltissimi anni. Quando mio padre stava male mi chiese di scrivere il suo necrologio e io non sono stata capace di farlo perché era una circostanza rovente e non ci riuscivo, poi ho cominciato a ragionare sul desiderio di ascoltare le parole che si possono dire sulla propria vita e ho pensato che potesse parlare proprio mio padre del suo di funerale così come queste donne, che hanno avuto un posto nella storia della letteratura e dell’arte molto marginalizzato, hanno avuto l’occasione in questa circostanza di poter parlare. Naturalmente il teatro è il luogo proprio, come una chiesa lo sarebbe o un tempio, qualunque luogo che veda un rapporto officiante tra una o più persone e un pubblico.

Il libro Così è la vita – imparare a dirsi addio che è il libro scintilla da cui ha preso vita questo progetto teatrale è incentrato sull’esperienza della fine ma soprattutto sulla mancata accettazione della fine. Che portata ha la morte all’interno di un’opera artistica, che significa affrontarla musicalmente, drammaturgicamente in questo caso, che tipo di lavoro rappresenta consegnarla a uno spettatore?

C.D.G. Tutte le storie che raccontiamo nascono da un dolore, l’arte attinge fatalmente e sempre dal dolore e dalla malinconia, da una ricerca di equilibrio nel provare a stare al mondo. La scrittura trascina dietro di sé un modo di porsi con il tempo della riflessione che aiuta a rendere una storia personale, universale; mentre il teatro, la relazione unica e irripetibile e ogni volta diversa che si genera in uno spazio scenico è proprio una messa in scena. Le invettive delle cinque donne protagoniste dello spettacolo, più quelle delle due viventi in scena a dirle, sono parole veementi e risarcitorie, sono loro che dicono di se stesse esattamente quello che vogliono dire.

Erica Mou oltre a essere autrice delle musiche di questo spettacolo è anche una scrittrice, l’ultima pubblicazione è Nel mare c’è la sete, un romanzo che ha il suono «di una lunghissima canzone». Che suono ha questo spettacolo?

E.M. I suoni sono sempre in tutte le parole, c’è una componente sonora in quello che Concita ha scritto di questo spettacolo e il mio ruolo è stato quello di tessere una trama uditiva ed emozionale che fosse eterogenea per questo tipo di parole. Quanto mi commuove dello spettacolo è il fatto che si collochi sulla soglia di un confine in cui prima o poi ci troviamo tutti e, prima di varcarlo, sarebbe interessante capire chi siamo stati e poterlo lasciare in eredità con le parole.

Importante è anche la scelta del suono, io utilizzo solo la voce, una voce in dialetto, una voce nuova, un suono che sia universale nella sua materia atavica. E tra questi suoni, il dialetto, che è il primo suono sentito quando si viene al mondo, si misura con la lingua e nella timbrica si uniscono.

C.D.G. E siccome nel cerchio della vita l’entrare nel mondo e l’uscirne hanno molto in comune, il dialetto è una lingua in cui è possibile l’incontro. Moltissime persone anziane regrediscono all’infanzia e a un linguaggio infantile, come se tornassero bambini, e viceversa molti bambini sembrano vecchi, nascono vecchissimi e poi a un certo punto smettono di esserlo per diventare bambini e con una parola che gli appartiene, come il dialetto, s’incontrano e parlano con le stesse parole raccontano il punto dell’inizio e della fine di una vita.

Erica Mou in una recente intervista su Rai1 a Sottovoce, il programma di Gigi Marzullo ha detto che «quella che si fa in teatro sul palco è una vita amplificata in bellezza, non è la vita vera». Cos’è allora il teatro?

E.M. È più della vita vera. In teatro non è strano che un morto parli da vivo, tutto è possibile e tra l’altro è anche quel luogo in cui si riesce a essere in un posto della propria vita molto più profondo, che quasi non si è mai visto coscientemente e che ha la stessa illuminazione di un sogno. È come se si vedesse il futuro.

Tutta l’arte vede il futuro perché è più presente e riesce a trovare dettagli che la testa e le nostre sovrastrutture non ci permettono di vedere. È un posto dove la vita è amplificata.

Concita De Gregorio, stare a teatro per una scrittrice, per una giornalista, che tipo di metamorfosi è? E ha più a che vedere con la prima o con la seconda, con la scrittura o con l’inchiesta?

C.D.G. È un falso problema che però ci permette di mettere a fuoco la questione delle categorie. Tanto per cominciare io non dico mai “sono” ma dico “faccio”. Che cosa cambia quando fai una cosa o un’altra? Sicuramente l’intenzione, perché cambia la persona a cui ti riferisci. La nostra voce esiste per comunicare, noi siamo il racconto che facciamo di noi stessi e che gli altri danno di noi. Io nella mia vita ho sempre fatto questo, ho raccontato ed ho ascoltato storie a cambiare è il modo di mettersi in relazione con l’altro, perché quando scrivo mi metto dal punto di vista di chi ascolta, quando scrivo per il teatro immagino di scrivere per qualcuno che mi sta guardando e cambiano il ritmo, la musica e pure le intenzioni.

In teatro ci sono poche registe donne, poche drammaturghe, pochissime alle direzioni dei teatri. Come si bilancia la necessita di migliorare queste statistiche con quella di favorire un talento?

Con l’educazione. Penso che l’unico strumento che abbiamo a disposizione per arrivare a una vera parità di opportunità sia investire nell’educazione diffusa, nell’educazione di bambini che saranno bambini per poco e che poi diventeranno per molto più tempo degli adulti. Con noi è andata così, possiamo solo rimediare, pretendere e lamentare ma non possiamo più cambiare la testa di chi pensa che l’ordine naturale delle cose sia un altro, di chi si stupisce che ci sia una donna alla guida di qualcosa, di chi scende dall’aereo perché c’è una donna pilota. Bisogna mettere i bambini di fronte a una evidenza e cioè che tutti possono fare tutto e che il genere non c’entra niente rispetto alla funzione. Questo produrrà una generazione in cui naturalmente non sarà interessante sapere se uno è bianco, nero, uomo o donna ma sapere che cosa sa fare.

Francesca Pierri

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Francesca Pierri
Francesca Pierri
Laureata in Filologia Classica e Moderna con una tesi magistrale in Letteratura Comparata all'Università degli Studi di Macerata, frequenta il master in Critica Giornalistica con specializzazione in Teatro, Cinema, Televisione e Musica presso l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" a Roma. Ufficio stampa e comunicazione, continua la sua attività redazionale collaborando con la Rai - Radiotelevisione Italiana. Vive a Roma e da gennaio 2017 è redattrice di Teatro e Critica.

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