Questo è il tempo in cui attendo la grazia per la drammaturgia e montaggio dei testi di Fabio Condemi e Gabriele Portoghese è l’omaggio a Pier Paolo Pasolini in scena da ieri sera al Teatro India. Recensione
E allora vorremmo sentirlo parlare, ancora, in quella sua maniera meravigliata, un po’ sbilenca, severa anche, accigliata, smarrita o colta nella frenesia. Poco importa dell’incespicare punteggiato qua e là dall’emozione, il pubblico della prima di Questo è il tempo in cui attendo la grazia al Teatro India non smetterebbe di ascoltare Gabriele Portoghese, di farsi ubriacare dal suo segno vocale con il quale dice dei colori, suoni, polvere e della terra e del cielo, con le sue nuvole, delle sceneggiature pasoliniane, che non sono ancora cinema ma puro sguardo, facendoci percorrere nuove strade dopo quelle già conosciute ed entrate nel mito, contraddetto e contraddittorio, del poeta che scriveva «di niente». Gli spettatori e le spettatrici non vogliono andarsene, continuano ad applaudire, sembrano non voler uscire da quella dimensione grezza di spazio e tempo, lisa e bucata, proprio là dove entra la luce. Abbiamo atteso l’andata a teatro dopo questi ultimi mesi, e anche questo lavoro firmato dalla coerenza estetica di Fabio Condemi ha atteso a presentarsi, precedentemente sospeso a causa dell’emergenza pandemica, restituendo ora l’esito del lungo periodo in cui ha vissuto nello spazio del Teatro India grazie ai progetti di “creazione abitativa” di Oceano Indiano.
«Un omaggio a Pier Paolo Pasolini fortemente voluto dal Teatro Verdi, commissionato a due giovani artisti» recitano le note di sala, e verrebbe da dire che questa sintonia ritrovata delle due “nature” di Condemi e Portoghese – quella registica e quella attoriale già mature nell’elegante Jakob Von Gunten e ne La filosofia nel boudoir – sia andata ben oltre la commissione e l’omaggio formale restituendo attraverso la selezione dei testi, sceneggiature, immagini, volti e protagonisti scelti, un’opera che è, come ci conferma lo stesso Condemi in un saluto post spettacolo, una «biografia poetica». Biografia costituita di dissolvenze, primi piani, campi lunghi che non sono agiti cinematograficamente ma vengono detti attraverso la parola scenica arricchita di verbi riguardanti proprio l’atto della visione (“vedo”, “guardiamo”, “sono visti”…). La drammaturgia persegue una costruzione circolare che dalla nascita, passando per l’età puberale e quella adulta, torna poi alla dissoluzione nella terra, giaciglio di inizio e fine, presente sulla sinistra dello spoglio foyer del Teatro India ora adibito a sala, le cui linee che lo delimitano sembrano proprio quelle rettangolari e lunghe di una fossa, sulla quale immobili stanno ciuffi d’erba, e fiori rossi, ad aspettare anche essi quella furia che sul finale li sradicherà, scaraventandoli altrove e lasciando quel lembo di terra nudo e silente. Nel testo interpretato da Portoghese si inizierà dicendo dello sguardo ingenuo del neonato insonne con gli occhi spalancati durante il coito dei genitori (Edipo Re, il cui titolo come quelli successivi appariranno e svaniranno proiettati sullo schermo alle spalle dell’attore) passando per quello del Centauro che afferra il bambino per i piedi (Medea) e l’incanto umido e assolato de Il fiore delle Mille e una notte, e l’età adulta con gli appunti sul film mai realizzato attorno alla figura di San Paolo, la cui vicenda è calata nell’Europa nazista e nell’America degli anni Sessanta, dove Gerusalemme diventa Roma, il Palazzo del Gran Sacerdote è il Vaticano. E poi quel volo a planare sulle brutture urbane, diventato un cortometraggio documentario nel 1974 dal titolo La forma della città, in cui Pasolini nello specifico interroga la costruzione assuefatta alle logiche capitalistiche di Orte e Sabaudia, denunciandone, a suo modo, la «degenerazione ambientale, urbanistica e quindi culturale del nostro Paese».
Sdraiato, iroso e nervoso al centro, e poi di nuovo poggiato svogliatamente sulla sedia, sporco di terra e lanciato verso uno degli angoli dello spazio occupato da pochi oggetti scenici, protagonisti anche loro, con lui, di questa biografia: i movimenti di Portoghese rispettano una geometria netta e senza sbavature, non si agita, ma è sempre agito da ferma convinzione quasi a percorrere una via narrativa che nel suo svolgimento si ferma in delle “stazioni”, luoghi della memoria appartenuti allo sguardo e al pensiero del poeta. Nonostante sia presente, al centro dello spazio e calato dall’alto, uno schermo, all’interno del quale “fluiscono immagini video” (drammaturgia dell’immagine di Fabio Cherstich), queste non hanno tuttavia alcuna dipendenza didascalica con ciò che avviene, sono autonome nella loro definizione e montaggio. Ed è proprio in questo intreccio tra letteratura, voce, corpo e segno scenico che percepiamo il lavoro congiunto e complementare di Condemi e di Portoghese. Non ci sono ridondanze, è una scrittura pulita che si basa su di un’economia di senso senza eccesso, religiosa nel saper legare insieme concetto-immagine-corpo.
Dirà, stanco, Franco Citti rivolto a Ninetto Davoli, che tutto ha nascita e poi morte, e nascita nella morte e morte nella nascita. E solo in quel dialogo che il pensiero dello sguardo finora detto diventerà corpo proiettandosi in immagini su quello di Portoghese, stanco anche lui sul finale. Sul suo petto respireranno i fotogrammi e vi si poserà la parola, allargandosi in sfumature giallognole prenderà posto tra la scrittura cinematografica dei due primi piani di Citti e Davoli, a voler ricordare la performance Intellettuale dell’amico di Pasolini e artista Fabio Mauri, proposta in occasione dell’inaugurazione della nuova Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna nel 1975. L’artista dichiarerà a proposito che «il poeta è trasformato in uno “schermo umano”. Su di lui viene proiettato il suo film Il Vangelo Secondo Matteo».
In Questo è il tempo in cui attendo la grazia – titolo tratto da un verso della poesia di Pasolini, Le nuvole si sprofondano lucide, inserita nella raccolta Dal diario (1945-1947) di Salvatore Sciascia – il «corpo spirituale che è corpo animale» dell’opera pasoliniana è studiato e selezionato, ricreato in una narrazione che, nonostante si serva delle stesse parole del poeta, le inserisce in una sintesi originale e mutuale, in cui Condemi e Portoghese fanno emergere del soggetto/oggetto scelto la sua crisi, intellettuale e popolare: emblematica l’ironia superba con la quale viene tratteggiata la figura del giornalista. Ci resterà un solo suono scolpito a lungo, anche dopo la fine, quello scorrere della pellicola, una corsa, prima del silenzio e del buio.
Lucia Medri
QUESTO È IL TEMPO IN CUI ATTENDO LA GRAZIA
da Pier Paolo Pasolini
drammaturgia e montaggio dei testi Fabio Condemi, Gabriele Portoghese
regia Fabio Condemi
con Gabriele Portoghese
drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich
filmati Igor Renzetti, Fabio Condemi
Produzione Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello,
Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Comunale Giuseppe Verdi – Pordenone
Un omaggio a Pier Paolo Pasolini fortemente voluto dal Teatro Verdi, commissionato a due giovani artisti – Fabio Condemi e Gabriele Portoghese –
e condiviso con il Teatro di Roma – Teatro Nazionale