Nell’ambito del Progetto Incroci, tra inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca, il reportage dal secondo laboratorio, avvenuto a Roma negli spazi di Asinitas Onlus, Centri interculturali con i migranti
Il progetto Incroci, il cui capofila è Teatro Magro di Mantova, in partenariato con Asinitas Onlus di Roma e Progetto Amunì-Babel di Palermo, grazie al sostegno di Fondazione Alta Mane Italia, intende attivare linee di inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca attraverso le arti performative. Da marzo a ottobre le attività riguarderanno tre progetti laboratoriali (condotti da Flavio Cortellazzi, Fabiana Iacozzilli e Giuseppe Provinzano), l’incontro tra i diversi gruppi in fase creativa e durante le presentazioni al pubblico, l’ideazione di tre giorni di riflessione con la Migra.Art Lab.Conferance che si terrà presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo. Teatro e Critica, media partner del progetto Incroci, accompagnerà le realtà coinvolte in una serie di approfondimenti e interviste durante tutto il processo di ricerca, attraversando le pratiche creative degli artisti e dei gruppi coinvolti, gli incontri di scambio, le presentazioni, gli interventi.
Il Reportage del secondo laboratorio del Progetto Incroci: a Roma il gruppo di Asinitas Onlus guidato da Fabiana Iacozzilli ha lavorato per due giorni con Flavio Cortellazzi, alla guida del gruppo di Teatro Magro di Mantova, alla presenza di alcuni suoi ragazzi, di Giuseppe Provinzano del Progetto Amunì-Babel e dell’équipe di ricerca.
La pratica del Progetto Incroci è in continua evoluzione, muta nel rispetto della gradualità della conoscenza reciproca fatta di tempo e ascolto, permettendo che tanto il metodo quanto le personalità artistiche “scambiate” possano innestarsi in una dialettica fatta di riunioni, prove, esercizi e visione dei laboratori. Una metodologia non data a priori ma empiricamente sperimentata che, ad ogni incontro, viene calibrata su nuove necessità e stimoli. E dopo la prima tappa di Palermo, si approda a Roma dove i tre registi – Flavio Cortellazzi (Teatro Magro), Fabiana Iacozzilli (Asinitas Onlus) e Giuseppe Provinzano (Progetto Amunì/Babel Crew) – si danno appuntamento negli spazi della scuola di Asinitas Onlus Centri Interculturali con i migranti in cui, fin dal 2005, si promuovono attività rivolte alla cura, all’educazione-formazione, all’accoglienza e alla testimonianza di persone minori e adulte, italiane e straniere. Quello della “testimonianza” risulta essere l’aspetto più distintivo del lavoro di Asinitas, la cui azione è in primis di tipo sociale, e non teatrale. Il teatro è semmai quella pratica, indispensabile, che permette al «desiderio comunicativo» – come definito dall’insegnante e operatore Luca Lotano – di dispiegarsi, di costituire un tessuto relazionale e partecipativo finalizzato a «creare contesti condivisi con persone provenienti da altri paesi per i quali l’insegnamento dell’italiano si definisce grazie a un continuo rimando tra teoria e prassi, tra ricerca e azione».
Le due giornate di lavoro ad Asinitas si aprono con un momento di riunione e incontro, in cui nuove e vecchie facce si salutano e/o conoscono per la prima volta: ogni tappa dei tre incontri programmati è infatti all’insegna di una processualità che inizia e rinizia ancora, rinnovandosi in ogni scambio, consolidando alcuni tasselli del percorso, interrogandone altri, aggiungendone di ulteriori. Nell’occasione romana si prosegue lo scambio iniziato a Palermo impostando tre focus relativi alla consapevolezza dello stare, affinché attraverso queste tre direttrici tematiche si possa veicolare lo studio fatto coi tre gruppi di lavoro interrogandone sia la prassi offerta dai tre conduttori che la risposta dei/delle partecipanti.
“Multilinguismo”, “narrazione del sé”, “perché sono qui?” non sono allora delle categorie definitorie quanto delle prospettive di attivazione che impostano l’approccio su di un piano orizzontale di trasmissione degli insegnamenti. La lingua è infatti il codice espressivo coi quali i ragazzi e le ragazze partecipanti si presentano e agiscono, chi scegliendo di usare la propria, altri/e preferendo di sforzarsi a parlare in italiano o dimostrando di saperlo parlare fluentemente. Ed è tramite la lingua, anzi le tante lingue, che i/le partecipanti si presentano e decidono autonomamente di raccontarsi. Lo dimostra lo stesso Provinzano quando, facendo riferimento ai ragazzi e ragazze del suo gruppo, afferma come davanti alla possibilità offerta loro di esprimersi nella propria lingua, alcuni/e preferiscano l’italiano. Oppure, come nel caso di Amisu del gruppo di Asinitas: «Sento di più con le mie parole». L’approccio è soprattutto istintivo, ribadisce Provinzano, del tutto sensibile all’elaborazione del passato. Le lingue – e si sceglie volutamente il plurale per insistere sul concetto di multilinguismo – permettono un recupero delle proprie origini, determinando una narrazione del sé che non può prescindere dalla sua rappresentazione, che passa proprio attraverso la lingua scelta. Flavio Cortellazzi, alla guida di questa tappa romana, rifugge sempre dalla traduzione, afferma di evitarla volutamente preferendo invece di modulare la parola in diverse «occasioni di significato» e afferma come «l’apprendimento di una frase sia troppo difficile per alcuni/e di loro; quindi scelgono una parola per restituire di quella stessa frase la propria, singolare, interpretazione».
Quel confine tra l’italiano e l’interlingua è approfondito nelle parole di Cecilia Bartoli, psicoterapeuta e coordinatrice di Asinitas Onlus, quando spiega come la prassi educativa del centro sia finalizzata proprio alla costituzione di pratiche per un «lessico familiare» per il quale l’accezione di “famiglia” ha a che fare proprio con la sfera individuale e intima di ciascun individuo che dalla sua lingua, e quindi dal suo passato, deve imparare a relazionarsi con la lingua da studiare e apprendere, che rappresenta il suo presente. Di «narrazione stratificata» ha parlato anche Federica Mezza, insegnante della scuola per donne di Asinitas, quando ha notato come una delle ragazze partecipanti abbia avuto la possibilità di ricostruire la sua storia in un andirivieni indefinito tra passato e presente, ricordi dolorosi e felici, tramite la costruzione dei puppets, giganti di carta animati dai partecipanti del laboratorio della regista Fabiana Iacozzilli.
Parleremo allora di un dedalo di narrazioni rispetto alle quali è doveroso un atteggiamento di delicatezza poiché la maggior parte di questi racconti derivano da una «zona resiliente della vita di queste persone», secondo il punto di vista di Bartoli. Di «discorso di cura», attraverso il quale deve essere impostato questo lavoro, ha parlato anche Iacozzilli: «“stare sulla lingua” è per me una grande responsabilità che richiede tempo innanzitutto, e per la quale devo essere pronta a tenere sempre vivo l’interesse dei/delle partecipanti. Per questo credo che ci voglia un discorso di cura specifico e diverso per ciascuno dei/le sedici partecipanti al mio laboratorio, migranti e non».
Dalle lingue alle identità il passo è breve, ma queste non possono soltanto essere un’etichetta – ciò che chiamiamo rosa, senza il suo nome conserva sempre il suo profumo, direbbe Shakespeare. Allora Cortellazzi preferisce entrare in contatto con i ragazzi non a partire dai nomi, in astratto, ma scoprendoli nel lavoro, che si esplica in una continua variazione sull’attenzione. Attenzione ai passi di un corpo che, quando allenato, riesce a seguire ciò che gli viene chiesto; attenzione verso la verità riproducibile delle azioni – la cui riproduzione passa attraverso la memoria, la presenza, la reinvenzione; attenzione verso il gesto degli altri, nei confronti di un’indicazione esterna da fare propria, da interiorizzare e restituire attraverso il linguaggio di ciascuno.
Gli esercizi diventano così un allenamento per un corpo-mente comunicativo, cosciente dei propri strumenti ma che nello stesso tempo è anche il mezzo per un’emozione non decifrabile razionalmente che assume una potenza poetica, delicata e affilata insieme. Mostrare il volto, il profilo, i palmi delle mani, i denti, la vita; ciascuna di queste parole risuona diversamente nei partecipanti, sia nel suo significato comune (attribuibile all’accezione che ciascuno ne dà), sia nell’attraversamento di quel gesto in relazione alle esperienze del singolo. O, ancora, lo sviluppo di un’idea tanto semplice quanto infinitamente applicabile: un breve saluto, un lungo addio. Quali storie si possono annidare in queste sequenze basilari? Si lavora a lungo su sequenze semplici, che però diventano un contenitore malleabile dove accogliere i molti gesti su cui si stratificano intenzioni o scoperte improvvise.
E se a voler raccontare la propria identità fosse un oggetto, o cinque? Se inoltre ciascuno/a provasse a pensarsi come elemento stesso dell’equazione, per le scale, in mezzo all’erba, sulla strada, accanto un fornello, dietro una grata; in una dimensione sospesa dove non emerge più il confine tra l’io e i libri amati, o i biglietti di un treno, o un mestolo, o un pallone, o una canzone, o un blister di medicinali? In questa direzione di indagine espressiva si articola poi la consegna che occupa buona parte del secondo pomeriggio: una richiesta di cinque oggetti che li/le identifichino, poi l’indicazione di porli nello spazio e collocarvisi insieme per arrivare a una serie di istallazioni (tante quante i partecipanti, compresi Julia e Naomi di Amunì e Diarra e Florent di Teatro Magro), da poter poi osservare in una sorta di “visita collettiva”. C’è chi studia accuratamente lo spazio, chi entra in relazione con i propri oggetti, chi offre il proprio sguardo e chi invece si nega, preferendo una dimensione più intima, meno estroflessa, tanto da spingere qualcuno dei visitatori, a rimettere in discussione l’atto in sé, quasi ci si possa sentire estranei a quella intima rivelazione. Ma non c’è volontà di spettacolarizzare dell’altro, quanto una necessità di condividerne il percorso, di riappropriarsi della possibilità autoriale di manipolazione di un oggetto e di uno spazio, nella volontà di aggiungere un’ulteriore strato alla ricerca che il gruppo romano sta portando avanti nel rapporto con i loro puppets. Si discute allora, dopo averne viste alcune scene, della possibilità di riconoscere l’umanità di quel corpo artificiale, del sentirsene prolungamento, in un atto di grande generosità dove, se è vero che è il gigante a prevalere con la sua forza scenica, è la cura dei suoi conduttori, a prima vista invisibili, a garantirne la stabilità, lo scheletro motorio, ritmico ed emotivo, a determinarne «l’aria, la vita e l’anima».
Questa seconda tappa di progetto condiviso diventa nuova occasione di incontro, di messa in discussione del proprio lavoro cui poi si ritorna rinfrancati, riscoprendo una rinnovata qualità di presenza, ritrovando nella visione dell’altro conferma di quanto fatto e nuovi stimoli. Abbandonati i timori di perder tempo, di deviare l’attenzione su altro che non fosse il proprio punto di vista, ci si rigenera, si scopre nuovamente la «libertà reale di stare dentro a un processo senza pensare al processo stesso» e si conferma quella disponibilità all’incontro che, libera da vincoli, predispone uno spazio creativo, comunicativo e identitario.
Redazione
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Qui un video trailer dal laboratorio Incroci a Roma. A cura di Giuseppe Galante