Intervista a Fabrizio Arcuri, regista (l’ultimo lavoro lo ha portato a dirigere Trittico Dantesco per il Teatro Stabile del Veneto) e co-direttore artistico del Css di Udine.
Fabrizio Arcuri, di recente in scena al Teatro Maddalene di Padova con il Trittico Dantesco in cui ha diretto tre drammaturgie (Fausto Paravidino, Letizia Russo, Fabrizio Sinisi) ispirate alle tre cantiche della Commedia, affronta i caratteri del progetto, ma anche questioni urgenti che appartengono alla storia politica e artistica del teatro di questi anni.
Un Trittico dantesco attraverso le tre cantiche della Commedia non è un progetto tra i tanti. Immagino sia stata una grande sfida come regista, andare a scardinare ciò che viene definito stabile per la sua grandiosità, farlo detonare invece con l’instabilità essenziale della creazione in teatro, appunto, per com’è vocazione della ricerca…
La proposta del Teatro Stabile del Veneto è stata immediatamente quella di fare qualcosa con una certa visibilità; pertanto io ho proposto di andare verso una riscrittura di un classico – pensavo inizialmente a Goldoni, a Shakespeare – poi però, nonostante non sia una mia prerogativa quella di fare teatro di regia, dare letture e interpretazioni dei testi, ho proposto di andare su qualcosa di ancor più popolare, di cui tutti hanno un’opinione. È dunque venuta fuori l’idea di Dante, aggiungendo la scelta di tre autori che potessero affrontare la scrittura di un testo altro.
Com’è avvenuta la scelta degli autori?
L’umore delle cantiche ci ha spinto a individuare gli autori, secondo le loro caratteristiche ma anche quanto avessero voglia di confrontarsi con un testo simile. Per l’Inferno abbiamo pensato a Fausto Paravidino perché sa essere allo stesso tempo grottesco, ironico, tragico, capace di essere alto e basso proprio come l’immaginario della prima cantica della Commedia; per il Purgatorio abbiamo scelto Letizia Russo e la sua scrittura sempre così sospesa, atemporale, molto intima; mentre per il Paradiso la scelta è ricaduta su Fabrizio Sinisi che è il più lirico, meno immediato, pensando fosse vicino a quella cantica che è per Dante un po’ il luogo della sperimentazione linguistica e filosofica, dove cioè cerca di spiegare quello che non si può spiegare e si limita, davanti a Beatrice, ad osservare e non saper raccontare.
Dal momento della scelta abbiamo poi iniziato a riunirci per riflettere prima di tutto sulla grande convenzione della religione entro cui si inscrive l’opera, a cui la poesia ambisce; il passo successivo è stato allora cercare quella convenzione che avesse oggi lo stesso potere sulle persone, individuandolo nell’economia, che in questo scorcio di epoca muove tutto (“che move il sole e l’altre stelle” ndr). Ultimo passo, ma decisivo, è stato quello di trovare nella Commedia le varie declinazioni del desiderio, del piacere, del peccato, alla luce proprio della nuova convenzione.
C’è una differenza sostanziale: Dante struttura il contrappasso sulla base delle opere in vita, quindi il meccanismo religioso lega in un unico filo opera, colpa e pena; l’economia è invece percepibile come un Dio che impedisce un miglioramento della condizione dell’individuo. Insomma, l’economia non è sensibile alla preghiera…
Esattamente, pur esprimendosi sempre attraverso il meccanismo della punizione, quella pensata dal capitalismo è meno calendarizzata, forse interiorizzata, ponendo l’economia come dottrina alla quale si piegano tutti gli uomini, chi se ne arricchisce e chi ne subisce gli effetti.
Questo è un progetto che ti vede al lavoro con un gruppo di attori giovani, che fanno parte di un percorso formativo biennale del teatro, quindi non sono attori che conoscevi presumibilmente, e che non conoscevano il tuo modo di lavorare. Come ti sei trovato in questa dimensione?
Le cose non succedono mai per caso, perché da parte mia c’era una grande volontà di rimettermi in gioco, sentire la crisi come momento di crescita possibile; stavo cercando l’esperienza attraverso cui ricominciare, dopo aver concluso un ciclo che sentivo arrivato al termine. Bisogna mettersi nelle condizioni di sorprendersi, vedere sempre delle possibilità ulteriori e la richiesta coincideva proprio con la volontà di misurarmi con altro. Quindi, dalla proposta del teatro, ho fatto provini di molti giorni con gli oltre 60 attori che mi hanno messo a disposizione, prima di selezionarli; poi abbiamo iniziato, a gennaio, una fase lunga di preparazione, prima di allenamento, poi pian piano siamo passati a lavorare sui testi.
Già che hai avuto questo tipo di esperienza, come ti sembra sia cambiata la figura dell’attore in questi anni?
Ci siamo posti fin da subito certe questioni di stile, con Accademia degli Artefatti, una volta chiusa l’esperienza performativa per avvicinarsi a quella più attoriale; all’inizio l’ostacolo più grande era la relazione con la tecnica legata alla parola, era sempre difficile far capire che la parola potesse avere anche un valore politico e non solo estetico, perché 15 anni fa era molto forte l’impronta di un certo tipo di fonazione. Mi sembra che oggi un po’ questa lezione sia passata, grazie anche a tante altre esperienze e la maggiore circuitazione del teatro straniero in Italia. Anche per questi attori con cui ho lavorato, tutti tra i 25 e i 30 anni, è molto importante cosa dicono prima ancora di come lo dicono, quindi mi viene da dire ci sia una maggiore maturità rispetto a questa impronta che la ricerca ha portato nel mondo attoriale.
La situazione della politica teatrale sta vivendo un momento di grande caos, tra occupazioni più meno spontanee, una acquisizione traballante e faticosa dei diritti per i lavoratori dello spettacolo, poi di contro teatri nazionali che non sembrano vivere condizioni di serenità, a partire da quello di Roma al momento e da tempo privo di un direttore. Cosa leggi in questa situazione?
Mi sembra ci sia in atto da diverso tempo un tentativo di restaurazione, dovuto a una grande confusione politica che di conseguenza si porta dietro una confusione nelle intenzioni: è stata fatta una legge con continue modifiche, rimesse a punto, ma senza una linea guida chiara. E neanche si è compiuta ancora del tutto, il che sarebbe anche benefico, almeno per permettere quel margine di azione concreta per ribaltare la situazione.
In virtù di questo stato di cose io ho scelto di fondere la mia compagnia con il CSS di Udine, quando mi ha proposto di entrare nella direzione artistica, proprio perché le condizioni del MiBACT (ora MiC ndr.) in questi anni sono di fatto impossibili alla sopravvivenza delle compagnie di giro. E per questo la qualità del teatro italiano si è molto abbassata, ma non certo per mancanza di artisti o di idee: in una carriera artistica non si può pensare di produrre spettacoli cercando di imporsi dei limiti produttivi, anteponendo quindi un discorso strategico alla capacità e la volontà di sorprendersi attraverso il teatro: si deve lavorare con la necessità, non con la strategia.
Simone Nebbia
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