Recensione Le nozze di Anton Čechov, con la regia di Claudio Morganti. Visto al Teatro Metastasio di Prato
Essere. O non essere. Non è completa, nelle intenzioni di un Amleto, la domanda del tempo presente. Essere contempla una precisa identità dell’azione, per meglio dire, non è solo essere il problema, ma esserci, essere dentro, consistere lo spazio e il tempo della propria esistenza. In un anno orribile come quello appena vissuto, il Teatro Metastasio di Prato rilancia proprio con il verbo essere così declinato la sua, la nostra presenza. E così si segnala ancora una volta tra i migliori teatri d’Italia, dove arriva al debutto assoluto, al Fabbricone, Le nozze di Anton Čechov, atto unico che la regia di Claudio Morganti affida quasi interamente al gruppo di attori del GLA, il Gruppo di Lavoro Artistico nato in seno al teatro per interpretare al meglio questo anno trascorso, apparentemente, senza teatro.
E quanto mancava, a quel “ci” particella a complemento dell’essere luogo, che fosse proprio qui; vivere sensazioni comunitarie disattese da una solitudine lunga e ingrata, convocare tutte le emozioni in questo luogo che le amplifica: il teatro, requiem a festa di morti per finta.
Le nozze si aprono con una tavola imbandita estesa interamente in orizzontale, sfruttando lo spazio prospettico in larghezza Morganti disegna una scena in fondo minimale, geometrica, perfetta perché resti all’attore il privilegio e la fatica di renderla viva; ci sono piatti bianchi per ogni commensale, calici neri opachi, vino che non basta mai e, al centro, un mazzo di rose bianche. Eppure, ancora nessuno degli invitati è seduto a tavola. L’attesa sarà parte fondante di questa commedia mescolata alla farsa, questo continuo gioco di rimandi, di allusioni, che rimarcano le profonde differenze della società russa di fine Ottocento, in un dipinto a colori velati, con costumi lisi resi moderni dall’occasione, in questa atmosfera priva di trasparenza, fitta come una nebulosa che avvolge l’antracite della tavola. Quanta poca luce, in quella Russia che nega la modernità, come si avverte nel dialogo polemico del misero innamorato Ivan Michajlovič Jat’ (Francesco Rotelli), telegrafista, con il bieco promesso sposo Epaminond Maksimovič Aplombov (Oscar De Summa), a proposito dell’avvento della “furfanteria” elettricità, rifiutata a favore di una metaforica e retrograda foschia che nega la limpidezza.
Fervono i preparativi, si scaldano gli animi in vista del banchetto, la musica è in un angolo della scena e passa per le mani, la voce, il fiato della figura clownesca rappresentata da Roberto Abbiati (autore anche della scena su descritta). La padrona di questa casa umile, Nastas’ja Timofeevna (Monica Demuru), è agitata non solo perché tutta vada per il meglio e possa maritare anche questa figlia, Dašen’ka (Arianna Pozzoli), che è un diamante un po’ troppo grezzo, pur se per il non troppo nascosto interesse economico dello sposo, ma anche perché ha cercato di esaltare la propria condizione con un invito altolocato, un “generale”, uno qualunque, che potesse dare lustro alle nozze. Ci pensa quel traffichino del maggiordomo (Gianluca Stetur, che guida la giovane cameriera Ilaria Francesca Marchianò) che la convince di averlo trovato, questo vecchio graduato in pensione in realtà di un livello molto più basso, il comandante in seconda, sordo come una campana, Fedor Jakovlevič Revunov-Karaulov (Francesco Pennacchia).
L’intera prima parte si svolge tergiversando l’arrivo possibile, presunto, di questo generale: lo sposo incalza la suocera circa la dote; il telegrafista corteggia miseramente la levatrice, presunta cantante, Anna Martynovna Zmejukina (Paola Tintinelli); il padre della sposa Evdokim Zacharovič Žigalov (Savino Paparella) dialoga amabilmente con l’ebbro, spassoso pasticciere greco Charlamji Spiridonovič Dymba (Luca Zacchini).
Eppure sarà proprio questo ingresso a scardinare l’equilibrio, attraverso l’innesco di continui equivoci determinati dalla sordità, il sedicente generale porterà alla luce l’infima apparente raffinatezza di questa piccola borghesia russa, cui Čechov non perdona la volontà di ingigantire la propria umile condizione.
Claudio Morganti, per questa volta fuori dalla scena, non tradisce l’occasione di allestire un lavoro felicemente corale, confermando ancor di più di essere tra i registi più capaci nel far coesistere in una sintesi perfetta il teatro di regia e il teatro d’attore, in cui rigore e libertà si rincorrono fino a creare un equilibrio magnetico per una platea che non abbandona alcuna delle battute del testo. Il Čechov che passa per le mani del regista diviene quasi goldoniano, perimetra un codice di rappresentazione perché gli attori vi possano spaziare attraverso tutte le loro armi, raggiungendo così, nella gioia della scena, l’eternità dell’immediato che condensa, in teatro, la vita.
Simone Nebbia
GRUPPO DI LAVORO ARTISTICO
LE NOZZE
di Anton Čechov
traduzione di Vittorio Strada
regia Claudio Morganti
aiuto regia Rita Frongia, light designer Fausto Bonvini
scene di Roberto Abbiati, costumi Annamaria Clemente
produzione Teatro Metastasio di Prato
con Roberto Abbiati, Monica Demuru, Oscar De Summa, Ilaria Francesca Marchianò, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Arianna Pozzoli, Francesco Rotelli, Gianluca Stetur, Paola Tintinelli, Luca Zacchini