Intervista a Mario Gelardi, drammaturgo e regista; direttore artistico del Nuovo Teatro Sanità
Il Nuovo Teatro Sanità nasce a Napoli nel 2013, in un complesso settecentesco e in un contesto non facile, grazie all’incontro tra un gruppo di giovani e caparbi appassionati e il drammaturgo, oggi direttore artistico Mario Gelardi. Lo abbiamo intervistato per ricostruire la parabola di questa realtà e indagare insieme l’attraversamento di un periodo di sospensione e nuovi progetti.
Se dovessimo tracciare una mappa del tuo percorso quali punti dovremmo andare a segnare in una prospettiva progressiva?
C’è un mio percorso che poi si fonde con quello del teatro. Per me l’anno fondamentale è stato quando sono arrivato in finale al Premio Riccione col mio secondo testo e mi sono detto che forse era il caso mi occupassi di teatro, perché mi occupavo di cinema, facevo documentari, l’aiuto regista, l’assistente sui set, non vivevo nemmeno più a Napoli. Ho iniziato a scrivere di teatro per caso, mi fu chiesto e ho visto la concretezza del teatro rispetto al cinema dove scrivi e scrivi sceneggiature che leggi tu o le tieni nel cassetto. Il teatro ha un’immediatezza che il cinema non possiede o almeno non negli anni Ottanta. Nel 2002 ho vinto il Premio Flaiano ed è stato importantissimo, come se da quel momento fossi diventato un professionista, anche l’atteggiamento di chi mi stava accanto cambiò totalmente. Poi c’è stato il Premio Scenario nel 2004. Da lì, per molti anni, almeno dieci o dodici, mi sono occupato di teatro di impegno civile, una cosa che non rinnego affatto, anche perché credo che ci sia un teatro profondamente incivile e quindi ci tengo ad essere un regista di impegno civile. Ho iniziato a distaccarmene quando iniziava a diventare un modo per fare le scolastiche e non un sentimento, prima che di autore, di cittadino, politico. Questo è coinciso con la mia decisione di lasciare il teatro per tre o quattro anni. Un teatro così stanziale, così fatto di numeri e basta non mi interessa, non faccio il ragioniere, non devo accumulare spettacoli, devo farli decenti, il più possibile onesti, non devo farne centocinquanta. Non si muore se non si fa teatro, ci credo fermamente.
Poi cosa è successo?
Poi è arrivato questo posto ed è stato abbastanza scioccante. La Sanità è un quartiere in cui fino a dieci anni fa non ero mai entrato pur essendo napoletano (e come me, molti dei nostri spettatori ci hanno detto altrettanto). Era l’inizio di un cambiamento che ho avuto la fortuna di intercettare un po’ per caso, faceva paura anche a me entrarci, attraversarlo, il teatro è alla fine del quartiere. Però farlo a piedi ogni giorno mi ha dato la possibilità di conoscerlo bene. Dovevo fermarmi pochi giorni, mi sono fermato, penso, tutta la vita. Il motivo è semplice: era la prima volta che arrivavo in un teatro costruito da dieci ragazzi sotto i vent’anni e che avevano voglia di fare le cose sul serio, ma non sapevano come. Questo ha rinnovato il mio entusiasmo, mi sono detto che qui aveva un senso, non si poteva sprecare il talento e la voglia di fare di quei ragazzi, l’istituzione l’avrebbe fatto sicuramente, non se ne sarebbe accorta, non li avrebbe aiutati. Ho chiamato un po’ di persone, gli “adulti” che ci e mi potevano dare una mano, avevo diretto festival e rassegne, ma un teatro sulle spalle è un’altra cosa. All’inizio non era ben vista l’idea di un teatro lì per tantissimi motivi, sociali, i genitori all’inizio avevano un atteggiamento non conciliante: i ragazzi dovevano lavorare, finché è un passatempo va bene, ma se deve diventare un lavoro no, devi stare dentro la fabbrica a nero a fare le borse o fare il meccanico o il fabbro a venti euro a settimana. Invece la forza di questi ragazzi era, allora come adesso, anche superiore alla mia, fino a convincere gli artisti che sono venuti da noi. Ogni volta che arriva qualcuno di una generazione passata rimane stupito dall’età media di chi gestisce il teatro, di solito è sotto i trent’anni, poi di tutti questi ragazzi che fanno domande e chiedono di poter assistere alle prove. Succede spesso che un artista voglia tornare a lavorare con noi e questo ha dato frutti bellissimi, di grande generosità e ci dà grande speranza per il futuro, anche se sembra assurdo detto in questo momento.
Il vostro è un teatro nato all’interno di un spazio specifico, il Complesso della Chiesa dell’Immacolata e San Vincenzo. In che modo il teatro e il complesso si sono adattati reciprocamente in riferimento alla pratica e alle esigenze di lavoro?
Il complesso è una chiesa e di per sé non parte con una grande adattabilità. Abbiamo una chiesa del Settecento, ancora molto presente, non adibita a culto ma non sconsacrata. Non riusciamo ad essere burocraticamente un teatro perché, al catasto, siamo una chiesa a tutti gli effetti. Per fortuna non ci sono beni artistici rilevanti tali da comportare restrizioni particolari, a parte un bellissimo pavimento di cui abbiamo una cura maniacale. Tecnicamente e strutturalmente è come se avessi costruito una barca che comprende la platea e il palco in un’unica forma, sta lì quasi si fosse fermata, quindi tutto attorno c’è il mare, il pubblico quando si spengono le luci è isolato in questa scatola nera di teatro. È una cosa che avevo visto in esperienze fatte in Belgio in molte chiese, forse è meno bella di alcune che ho visto avendola fatta da soli. Il palco io lo chiamo “il palco di Roberto Saviano”, è stato costruito coi suoi soldi, e anche le nuove sedie in parte, noi abbiamo pensato alle luci e a tutto il resto. La chiesa era già chiusa da una decina d’anni e i ragazzi ci facevano un’attività come di oratorio, avevano costruito questa sorta di sala, quando sono arrivato non c’erano più funzioni da tempo. Il problema è stato il passaggio dal luogo in cui stare per diletto alla professionalità. All’inizio non è stato semplice, ci sono state incomprensioni con la curia (in questo momento sono abbastanza sanate), abbiamo avuto anni difficili, siamo stati tutelati in parte da Padre Antonio Loffredo (pur sapendo che sono ateo e di sinistra, ci ha dato la chiesa da gestire con la massima libertà e sta dietro a tutte le esperienze associative giovanili nel Rione Sanità), in parte ci siamo tutelati da soli.
Se invece, oltre lo spazio, dovessimo provare a definire il concetto più ampio di luogo applicato alla realtà del NTS?
Ho un termine che sto cercando di far passare anche burocraticamente da anni senza riuscirci: “teatro di comunità”. Un teatro che serve ed è frutto della comunità che sta attorno, un teatro che in qualche modo recepisce e restituisce i sentimenti della comunità che lo circonda. Ti parlo di un quartiere di circa cinquantamila abitanti, con il più grande tasso di abbandono scolastico di Europa, il 37%. Non è una cosa da poco, non si può pensare di essere a Berlino. Purtroppo molte esperienze di teatro nuovo o innovativo sono nate come cattedrali nel deserto, fare il proprio teatro nel quartiere, in una zona della città (vale per Napoli, come vale per Palermo, come vale per Milano) senza tener conto di dove ci si trova diventa un’autocelebrazione. Non avevo bisogno di un posto dove fare teatro, lo facevo già. I teatri che nascono da zero, che non hanno una storia, dovrebbero costruirsi una storia del posto dove stanno. Ovviamente un posto frequentato da artisti e teatranti sotto i trent’anni ha una sua cifra stilistica e l’altra cifra è quella di una casa della drammaturgia. Nella città della drammaturgia per eccellenza non si curano affatto i giovani drammaturghi, ho voluto un posto dove chi scrive può venire, incontrare me o altri drammaturghi, spesso di altri paesi, parlare dei suoi testi, provare a leggerli, discuterne insieme. Sai, ho spesso delle discussioni con i ragazzi, vorrei mettere i laboratori a pagamento, sarebbe una risorsa molto importante. Invece i ragazzi non vogliono e i nostri laboratori restano gratis (paghiamo gli insegnanti coi soldi del Ministero), ovviamente facciamo una grande selezione, così possiamo mandar via chi non ha talento o sta sprecando il nostro tempo e il nostro luogo. Per fortuna arrivano da ogni parte e li invito sempre ad andare via, a fare esperienza per poi magari ritornare.
Quindi un teatro che vive all’interno di un contesto specifico, quello della Sanità, il quale a sua volta rientra in un tessuto urbano preciso, quello di Napoli, e in una sorta di processo multistrato si trova a relazionarsi con un’idea di comunità: non solo quella del quartiere e della città, ma anche la comunità teatrale a livello nazionale e internazionale. Quale la tua o la vostra percezione e concezione di tale processo?
La prima cosa che dissi ai miei ragazzi è che dovevamo fare un teatro a Napoli che guardasse all’Europa, anche se ci sarebbe voluto tempo. Ci abbiamo messo tempo, meno però di quanto mi aspettassi. La svolta è stata certamente quando la direttrice del Goethe Institut mi ha sentito parlare di loro in un incontro e ha deciso di creare un progetto e produrlo, questo ci ha portato in Germania tante volte, in Francia, aiutando a crearci una prima rete europea. Da lì, anche grazie a La paranza dei bambini e agli articoli che scriveva Roberto (Saviano n.d.r.), il nostro nome è circolato molto, hanno iniziato a chiamarci altri teatri per fare progetti e andare fuori dall’Europa. La collaborazione più forte in questo momento è con Sardegna Teatro e il Festival di Castrovillari. Loro sono più grandi di noi, impariamo, io personalmente dal direttore Massimo Mancini imparo un sacco di cose e mi fa piacere, non ho paura di imparare. Le realtà più grandi ci hanno un po’ traghettato nel fare progetti. Ci vuole un curriculum serio e teniamo tantissimo all’eticità del nostro lavoro, soprattutto io ho iniziato a dire una cosa semplice e banale: chi lavora va pagato. Sapevo che i miei ragazzi non potevano stare troppo tempo in teatro senza nessuna risorsa economica, la vita e le famiglie li avrebbero portati via, quindi ho dovuto creare una piccola impresa culturale. Non facciamo altro che fare bandi, scrivere a fondazioni, e da molte abbiamo avuto aiuto. Attualmente il laboratorio è sostenuto anche dalla fondazione Altamane, il numero di ragazzi è diventato troppo alto, abbiamo dovuto iniziare a dire diversi no e ci dispiaceva moltissimo (abbiamo sia i bambini, che i ragazzi, i giovani drammaturghi e le mamme). Alcune delle nostre ragazze sono diventate esperte di bandi, hanno studiato, si sono preparate e ora ce le contendono. Altre invece sono diventate educatrici, abbiamo capito che nel campo di teatro ed educazione si potevano trovare risorse che nel teatro tout court non sempre si trovano. Ti do un dato statistico: nel nostro teatro solo le donne sono laureate, non c’è un solo uomo che lo sia. La comunità teatrale a cui accennavi è molto interessante secondo me. Ne parlavo proprio qualche giorno fa con Roberto Solofria (dirige il Teatro Civico 14 a Caserta), stavamo lavorando a un progetto per dare la possibilità a quattordici giovani compagnie di debuttare in estate. Riflettevamo su come a noi questa possibilità non venisse mai data. Siamo un po’ orfani di padri, la generazione napoletana precedente alla mia è stata molto avara, patrigna e matrigna, egoista. Forse, proprio perché figli di quella generazione, abbiamo deciso di fare diversamente, molti di noi sono stati promotori di giovani compagnie e con fierezza posso dire che oggi a Napoli ci sono almeno una decina di compagnie sotto i trentacinque anni di cui ci si sta accorgendo in tutta Italia. I numeri ci sono e sono importanti, questo certo non vuol dire che ci siamo messi d’accordo per fare il rinascimento napoletano. A differenza di qualche anno fa, risorse dalle istituzioni a Napoli adesso non ce ne sono, pensa che noi dal Comune di Napoli non riceviamo assolutamente niente, dal Ministero siamo stati riconosciuti progetto speciale di formazione tre anni fa con ventimila euro. Così tutto diventa più complicato ed è la cosa più frustrante, come ricominciare da capo.
Tornando a quanto dicevi, all’avarizia della generazione precedente… Napoli è nella concezione comune fra le principali se non la principale città teatrale e città del teatro. Poi, negli ultimi anni, si è aggiunta una certa iconografia cinematografica a standardizzarne un ulteriore aspetto e visione, ormai parimenti appartenenti all’immaginario, forse anche alla retorica comune. In questo sovrapporsi di immagini, immaginari e stereotipi è interessante indagare la lacuna generazionale di cui sopra…
Ma, sai, adesso vediamo il fenomeno contrario. Ultimamente vedo un’immagine anche televisiva di una Napoli irreale. Capisco che non si possa sempre restituire quella di Gomorra e io lo posso dire in maniera pura, perché Roberto (Saviano n.d.r.) è uno dei miei migliori amici. Però nemmeno una Napoli da fiaba, in cui non c’è mai traffico, non c’è mai confusione, c’è sempre il sole: mi fa irritare, non è quella che io e i napoletani viviamo ogni giorno. Non c’è una via di mezzo?! Per quanto riguarda la generazione precedente alla mia, è una generazione magari di grandi attori o artisti, ma solisti, che volevano essere i protagonisti relegando ai giovani ruoli secondari, sulla scena e fuori. Bisogna aspettare gli inizi degli anni Duemila per fare in modo che una nuova generazione trovi effettivamente spazio. Tra Moscato e Borrelli manca una generazione. Ora è cambiato qualcosa: cosa può togliermi il successo di un drammaturgo di trentacinque anni, se sono cosciente di quello che valgo e ho ancora un minimo di vena artistica e di ispirazione?! I ragazzi che sono stati miei allievi e ora sono in giro in tutta Italia sono il senso del lavoro, di fare teatro, almeno del mio.
Qual è il criterio che sottende a una programmazione e come è cambiato o si è evoluto nel tempo?
C’è stato un periodo in cui cercavo i nomi, soprattutto all’inizio, quando la gente non voleva venire a teatro per non venire alla Sanità se non avessi offerto nemmeno nomi e titoli interessanti… abbiamo avuto la fortuna di ospitare da Tony Servillo a Renato Carpentieri, e sono venuti per piacere, non per “guadagnare” (Servillo ha lasciato l’incasso intero). Man mano poi questa generazione che stava nascendo intorno a me sgomitava e me ne accorgevo, ho visto che pure il pubblico iniziava ad avere voglia di vederli in scena. Anche sotto il consiglio e lo sguardo di giornalisti teatrali, intellettuali, di persone che studiano e mi esortavano a proseguire su questa onda, man mano i nostri cartelloni si sono andati a definire con le compagnie all’inizio di un percorso da rafforzare e con la drammaturgia contemporanea, senza limiti di provenienza. Credo fortemente nelle “quote meridionali”, secondo me c’è bisogno di impresa culturale meridionale. La programmazione si è andata orientando in questo senso e negli ultimi anni ha avuto grande apertura alla drammaturgia contemporanea straniera, in particolare a quella catalana. Abbiamo molti rapporti con drammaturghi catalani che spesso vengono da noi, hanno un senso teatrale vicino al nostro e sono nate bellissime esperienze. Poi offriamo la sala per le prove, anche a ragazzi che magari devono registrare i cinque minuti per Scenario. Ma ci tengo sempre a specificare che non siamo un taxi su cui si sale, si fa la corsa e si va via, da noi si viene per restare, è impegnativo, ci sono tanti altri teatri a Napoli, si può andare anche altrove. Se si vuole lasciare qualcosa va bene, se ci si usa come un taxi per scendere velocemente, ce ne accorgiamo presto. Ho dovuto poi favorire le inclinazioni artistiche dei giovani “nati” in teatro, i quali hanno iniziato a scrivere, a voler dirigere, c’è stato proprio un affiancamento non solo da parte mia, ma anche di altri artisti, soprattutto attori della mia generazione che hanno voluto dare una mano. Si creano situazioni interessanti, ho sempre l’impressione del neorealismo dopo la guerra, nel mio quartiere sembra sempre sia successo da poco qualcosa che genera agitazione, la folla per strada è il senso comune del Rione Sanità. Però c’è molto darsi da fare e io sono contento di questa generazione di teatranti che si dà da fare, quando posso do una mano, seppure a volte ho bisogno di una mano io. Ho avuto la fortuna di trovare sul mio percorso persone come Ruggero Cappuccio o Laura Valente del Museo Madre, che hanno creduto fermamente in quello che facevamo e ci hanno messo fiducia e soldi. Perché tutto quanto sto dicendo senza soldi non si può fare. Ciò che faccio con i soldi che riesco a recuperare, i teatri importanti non lo fanno avendone parecchi di più. Dico sempre che è una differenza di zero, o di zeri se preferisci: basterebbe aggiungere uno zero a quei ventimila euro e potrei fare molto di più.
Come avete vissuto il blocco dei teatri? Come avete attraversato questo tempo fermo sia come nucleo autonomo sia rispetto alla messa in dialogo con il resto dell’universo teatrale e istituzionale?
Il primo lockdown lo abbiamo accettato. Avevamo una vita personale, delle famiglie a cui pensare, è stata una cosa imprevista, come una bomba che scoppia in casa e la prima cosa da fare è cercare di salvarsi la vita. Siamo rimasti sempre in contatto, con tantissime videochiamate di gruppo, continuando a pensare cosa sarebbe stato il futuro. Quando ci hanno detto che potevamo ricominciare lo abbiamo fatto subito, cercando tutti gli spazi all’aperto che potevamo prenderci. Abbiamo iniziato a immaginare se e come riprogrammare, ma era impossibile, nel nostro teatro in quel momento potevamo ospitare ventisette persone. Il secondo blocco è stato tremendo, dovevamo iniziare un progetto col Teatro Bellini che è stato generosissimo, i fratelli Russo ci avevano proposto di stare al Piccolo Bellini per sei mesi facendo ciò che volevamo. Abbiamo creato una programmazione trasferita interamente lì e una settimana prima che tutto partisse è arrivata di nuovo la chiusura stroncandoci. Anche economicamente, perché non abbiamo ricevuto nessun tipo di sostentamento, di sovvenzionamento, siamo un teatro sotto i cento posti, quindi i soldi che erano rimasti abbiamo iniziato a dividerceli tra noi per sopravvivere e siamo tanti, siamo venticinque, è stato abbastanza pesante. Dopo l’estate abbiamo pensato di fermarci e non programmare più, poi invece abbiamo iniziato con delle residenze di compagnie che non facessero lo spettacolo, se non in prova generale, abbiamo lanciato una call offrendo un posto dove provare e cinquecento euro, ma non siamo riusciti a fare nemmeno questo. Ora la nostra capienza sarebbe di 22, 5 persone, con sanificazione dopo ogni spettacolo, tampone ogni 72 ore: è impossibile. Più che far fare le prove, pensare, scrivere… Incontro i miei giovani drammaturghi, continuiamo a progettare cose che speriamo di fare un giorno, non io, lo dico francamente, mi rifiuto di progettare un futuro incerto, personalmente cerco di costruire e rafforzare il presente, di fare in modo che abbia un senso. Lascio ai ragazzi di progettare il futuro. Che non vuol dire arrendersi, ma quando vedo teatri che prendono per mancati incassi ottocentomila euro e non li mettono a frutto in alcun modo, è difficile non arrabbiarsi. Con il contocorrente del teatro solo in uscita e senza la generosità di alcune persone – il Madre, il Mercadante, il Napoli Teatro Festival, Altamane – ad aprire il portafogli, noi forse saremmo già chiusi, chiusi veramente. Non avrei aperto il 27 marzo, oltre che per la zona rossa, per non chiudere per sempre.
Avete preso parte a comitati, riunioni, campagne? Se sì, in che modo?
Noi no. Che ognuno faccia quello che vuole, ma io non ho la pretesa di indicare strade e non mi interessa farlo. L’unica cosa che ho cercato di fare è stata di unire i drammaturghi, senza riuscirci perché nei vari ristori i drammaturghi non sono contemplati, non compare proprio un codice ATECO, volendo parlare come i nostri governi. La SIAE mi ha dato trecento euro di ristoro e ci ha anche pensato molto. Nemmeno li chiedo i ristori, vorrei la possibilità di lavorare. Tuttavia non penso nemmeno che il teatro debba essere “speciale”, se si sta chiusi tutti si sta chiusi, se alcuni sono aperti vorrei però aprire il dibattito sul perchè alcuni sì e altri no. I miei amici spagnoli fanno teatro, hanno le sale al 75% di capienza e stanno lavorando tutti. Non so se questo virus si comporti in modi differenti a seconda del paese in cui arriva. Sicuramente la situazione critica è servita a porsi il problema che la nostra è una professione. Mi interesserebbe unire i piccoli teatri, ma la vedo complicata, quello che il legislatore non capisce è che siamo diversi, abbiamo strutture diverse l’una dall’altra, siamo spazi non convenzionali. Gli spazi non convenzionali hanno bisogno di un trattamento e di un approccio completamente differenti, al legislatore tuttavia sembra interessare poco.
A cosa state lavorando ora? Come racconteresti il progetto R-Evolution?
Il progetto nasce dal piacere e dalla voglia di lavorare con Sardegna Teatro e con Castrovillari, a cui si è associato il Teatro della Città di Catania e Scena Nuda, una realtà calabrese, poi alcune istituzioni culturali greche. C’è l’intento di dare la possibilità a dei giovani artisti di crearsi una carriera internazionale, di andare all’estero e di far venire dall’estero in Italia artisti internazionali, di rafforzare dei percorsi. Come successo già in altre esperienze precedenti insieme, questa volta stiamo lavorando esattamente per dare solidità ai progetti che abbiamo individuato e per portarli avanti. Vorremmo fare in modo di costruire entro il 2022 una grande compagnia di circa venticinque persone, o più che una compagnia un gruppo, una comunità teatrale formata da giovani artisti (anche musicisti, coreografi, danzatori,…) che siano in grado di proporre lavori ai propri paesi con noi come piccole istituzioni a dargli una mano, a farli crescere, a creare i presupposti affinché vadano davvero in scena e si realizzino concretamente le loro aspirazioni. Ci auguriamo di diventare di più, siamo comunque un gruppo molto disomogeneo, c’è un TRIC come lo Stabile di Sardegna, c’è un festival come Castrovillari e un ente di formazione come il nostro, siamo molto diversi e ognuno mette il proprio, a seconda delle mansioni e delle specificità che ha. Credo molto in questo progetto perché è importante che lo sguardo di chi fa teatro sia più aperto possibile, non solo su quello che succede immediatamente intorno, ma su quello che succede in giro per il mondo. Ogni volta che vado fuori ne torno accresciuto e con tante domande sul teatro che si fa nella mia nazione. Quindi mandiamoli fuori questi giovani artisti, magari tornano con qualcosa o con delle domande.
Marianna Masselli
Belle parole,, noni in grado di spiegarsi i punti d forza do in teatro in condizioni di emergenza – Parole, parole, parole, poichè l’unica cosa della quale discutere oggi è la responsabilità,della ricostruzione del Teatro – IL TEATRO CROLLATO E IL TEATRO CHE VERRA’ DOPO -Il teatro non ha bisogno di essere spiegato ha solo biisogno di rinascere dal punto di vista sociale, artistico, economico – Ma per farlo c’è bisogno di meno chiacchiere e tentare di salvare il nostro teatro – Per questo ci vuole un impegno diverso vale a dire uscire dai computer e provare a tornare fra l gente indipendentemente dalle condizioni in cui ci troviamo -E’ importante partire da letture fra il pubblico in spazi aperti,, piazze,stazioni, scuole – Altrimenti scrivere senzanessuna propostatele diventa personalismo,oputinismo, e cinismo –