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#sottocento. Valorizzare l’indipendenza più che le rendite di posizione

#sottocento. Inchiesta sui piccoli spazi teatrali indipendenti a un anno dalla pandemia. Nel 7° appuntamento intervistiamo Atelier Sì, Bologna.

#sottocento vuole indagare insieme alle direzioni artistiche degli spazi più esposti (piccoli teatri, indipendenti, ecc.), quali siano state le problematiche affrontate e da affrontare, quali le strategie di sopravvivenza messe in atto – economiche  artistiche e umane. Leggi l’introduzione completa

Abbiamo posto le 6 domande di #sottocento a Andrea Mochi Sismondi e Fiorenza Menni, alias la direzione artistica di Atelier Sì a Bologna.

Che attività avete messo in campo per reagire a quest’anno di pandemia?

L’impatto delle chiusure è stato violento e la loro persistenza nel tempo ci ha portato a reagire su diversi livelli. Il primo è quello della produzione creativa. Siamo persone che si dedicano all’elaborazione dei contenuti e allo studio delle forme – è il nostro lavoro, il nostro senso – e non potendo portare in scena il frutto dei nostri percorsi, abbiamo sentito la necessità di costruire nuove dimensioni all’interno delle quali mettere a frutto le nostre qualità e rispondere alle urgenze che abbiamo sentito. Per questo, quando la tournée de La mappa del cuore di Lea Melandriil nostro ultimo spettacolo – è stata interrotta, abbiamo iniziato a studiare altri linguaggi attraverso cui quel lavoro potesse arrivare al pubblico. Abbiamo approfondito le potenzialità della realtà virtuale e durante l’inverno abbiamo trasformato l’Atelier Sì in un set per girare la versione a 360° dello spettacolo, elaborando in fase di montaggio una fruizione dedicata ai visori di nuova generazione. A fine aprile, quando per i teatri sarà ancora dura riaprire, il lavoro raggiungerà i suoi spettatori attraverso un’installazione nei musei, nelle biblioteche e nei giardini contando su una graduale riapertura almeno di quei luoghi. Quando tutto questo finirà continueremo a lavorare sulla realtà virtuale accostando la ricerca in quest’ambito a quella sulla realtà fisica della scena. Parallelamente abbiamo trascorso l’ultimo anno in conversazione con altri artisti e curatori che come noi hanno lavorato sull’immaginario legato alla strage di Ustica. È stato un tempo fecondo, che ci ha nutrito nella mancanza dei contatti fisici, portandoci a un livello di confronto per noi molto prezioso. Ne è nato un libro che uscirà a giugno e che poniamo come elemento da cui partire per ulteriori condivisioni. La scelta di sperimentare nuove forme per mantenere viva la progettualità è nata anche dalla volontà di mantenere attive il più possibile le collaborazioni con gli attori, i musicisti e i tecnici coinvolti nei nostri lavori e garantire la conseguente continuità salariale. A questo scopo abbiamo attivato tutti gli ammortizzatori sociali possibili, coprendo l’ammanco dello stipendio, per i lavoratori assunti tutto l’anno, con risorse dell’Associazione.

Un altro livello per noi fondamentale è quello della vita all’interno del nostro teatro. All’AtelierSì, compatibilmente con le risorse disponibili, oltre che a produrre i nostri lavori costruiamo progetti di ospitalità per artisti che hanno necessità di un luogo dove portare avanti la propria ricerca, e in questo anno blindato, nel quale per la maggior parte del tempo non è stato possibile per il pubblico varcarne la soglia, al suo interno abbiamo creato le condizioni perché artiste e artisti di cui amiamo il lavoro potessero continuare a studiare e comporre. Incontrarsi in teatro, confrontarsi sulle forme e sui progetti ci ha tenuti vicini al senso del nostro fare. Ci sembra che le residenze – da noi come in tutta Italia – abbiano mantenuto viva la possibilità di continuare a sperimentare, concepire e proporre anche in questo tempo atroce. Nei mesi del primo lockdown, quando non era possibile neanche aprire alle residenze, abbiamo invece ospitato al Sì – in maniera clandestina – persone che avevano necessità di tutelare le proprie e le altrui fragilità.

Oltre che a un rinnovamento della gradinata e del palco del Sì – una concentrazione sullo spazio interno a cui, nell’addensarsi della realtà intorno a noi, ci siamo dedicati con amore e furia – questo tempo ci ha portato a un desiderio di interlocuzione, non solo artistica ma anche progettuale. Per questo abbiamo reagito al distanziamento fisico fondando nuove reti, raggiungendone altre a cui da tempo guardavamo e in generale dedicando al dialogo assembleare con altri artisti e colleghi molto più tempo di quanto riuscivamo a fare prima.

Quali contributi statali, regionali o comunali siete riusciti a intercettare?

Il dialogo con il Comune di Bologna e la Regione Emilia-Romagna è stato continuo, le istituzioni locali non hanno fatto mancare il loro supporto, mantenendo il loro sostegno economico anche in questa fase emergenziale che ha fatto saltare tutti gli indicatori. Come è noto, anche il MiC ha aperto agli extra-FUS e mantenuto costanti gli stanziamenti per chi – come noi – viene finanziato come impresa di produzione, ma con la struttura ministeriale manca ancora una reale interlocuzione che permetta di sviluppare una progettualità condivisa con artisti e operatori. In particolare, ci sembra fondamentale che in questa fase venga riconosciuto l’agire teatrale meno convenzionale, ma abbiamo la sensazione che in questo momento al Ministero la volontà di garantire la sopravvivenza delle grandi strutture così com’erano prima rischi di prevalere sull’intenzione di investire per lo sviluppo delle progettualità più innovative e capillari, come le residenze e il contemporaneo.

Per come è adesso la situazione dal punto di vista economico e organizzativo, quanto potete sopravvivere ancora?

Sopravvivere: finché rimangono gli ammortizzatori sociali, se non vengono meno i finanziamenti. Vivere: qualche altro mese senza andare in scena, poi diventa difficile.

Con le condizioni sanitarie attuali riaprireste il vostro teatro?

Sì, ma con modalità in parte diverse. Lavorando per trasformare la concezione dell’andare a vedere uno spettacolo in quella di andare a incontrare degli artisti. È importante riaprire anche per permettere alle migliaia di lavoratori che sono fermi di riprendere senso e stipendi, ma dobbiamo farlo consapevoli che è cambiato il profilo dei costi e soprattutto che saremo di fronte a problematiche nuove e a un nuovo bisogno di incontrarsi di fronte ai fondamentali umani e alle contingenze mutate.

Cosa chiedete adesso alla politica nazionale, agli enti locali e alle grandi istituzioni culturali (teatri pubblici, musei, università, fondazioni….)?

Alle istituzioni teatrali (MiC, Teatri Nazionali e TRIC in primis) di non far finta che esista un mondo che non esiste e di riconoscere la vitalità dell’esistente. L’equivoco che la grandiosità e la maestosità – dei toni come delle scenografie – siano garanzia di qualità è indifendibile. Bisogna valorizzare l’indipendenza e la ricerca più che le rendite di posizione, smettendola con la trasformazione degli ego in carriere e con i loro assurdi budget che rastrellano risorse. Ai musei e alle università chiediamo di far entrare nuovi formati, così come stiamo cercando di fare con i nostri interlocutori diretti. Agli enti locali di venire a vedere cosa si fa in teatro, di interessarsi, conoscere, interagire e scommettere sugli artisti. Sappiamo di essere in una situazione particolare, perché a Bologna i funzionari li trovi sempre nelle platee dei teatri della città, ma anche negli spazi pubblici e nei luoghi extra-teatrali dove il teatro si va a infilare, ma non è così dappertutto. Mantenere un’interlocuzione costante con amministratori preparati è fondamentale sia per gli artisti che per le comunità che vivono i territori.

Ci raccontereste di un’attività di un’altra realtà teatrale che ha messo in campo in questo periodo e che vi ha interessato / vorreste replicare?

Due iniziative di due grandi strutture, proprio per sottolineare che certi ruoli si possono vivere in modo diverso e più vitale. La prima è la decisione di Ravenna Teatro di destinare l’intero importo dei fondi ricevuti per l’emergenza ad alcune realtà teatrali indipendenti che non ne hanno potuto beneficiare e la seconda è il progetto di formazione retribuita Fondamenta del Teatro di Roma. Due iniziative coraggiose e divergenti che ci sembrano indicare la possibilità di creare insieme un sistema teatrale migliore di quello pre-pandemico.

in foto di copertina: “seduti” sulla gradinata ci sono alcuni libri di Manušipé, la piccola biblioteca rom del Sì.

Atelier Sì (Bologna) per #sottocento

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