Teatrosofia #114. A partire dal V libro della Repubblica di Platone una riflessione su alcune questioni riguardanti le differenze di genere e la sua distanza dalla commedia
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Questo articolo è scritto con il sostegno della Fondazione Bogliasco (Genova)
Alcuni testi filosofici antichi presentano delle tesi che, oggi, risultano discutibili o persino false. Sul piano sia etico che conoscitivo, però, sarebbe una grave perdita rifiutarli in blocco per i loro limiti. Lo storico delle idee che vuole raggiungere l’Itaca dell’avanzamento intellettuale dovrebbe evitare tanto la Scilla dell’analisi acritica, che fa passare come “normali” questi discorsi scabrosi sotto la mascherata della neutralità storica, quanto la Cariddi della cancel culture, che è un’espressione eufemistica che indica l’atto di censurare ciò che non si è cercato di apprendere in modo avvertito e intelligente. Una produttiva via alternativa può consistere nell’esporre minuziosamente la dottrina controversa di un autore antico e nel distinguere in maniera dialettica al suo interno il buono dal cattivo, ciò che è interessante dal pensiero tossico e dannoso.
Uno di quei testi da leggere con cautela è la Repubblica di Platone. Avevamo visto in un appuntamento precedente che il Socrate platonico sostenesse nei libri II-III del dialogo che una città perfetta e ben governata può nascere solo educando i suoi guardiani alla virtù, all’ordine e alla bellezza, che si ottiene dando sin da bambini la rappresentazione a teatro di buoni miti che sensibilizzano a tali valori. La Repubblica pone, però, anche una molto discutibile divisione della cittadinanza in tre classi, ciascuna delle quali corrisponde a tre diversi tipi di anime, che a loro volta hanno maggiore inclinazioni a tre differenti piaceri: A) il filosofo, in cui è più forte la parte razionale e la relativa volontà di conoscere; B) il guardiano, in cui domina l’elemento irascibile o ambizioso dell’anima e la tendenza a primeggiare; C) il “crematista” o produttore di ricchezza, che è animato dalla parte concupiscibile della psiche, ossia dal desiderio di possesso delle cose materiali e dalla ricerca dei piaceri che si possono ottenere mediante il loro uso. Il Socrate platonico sintetizza bene tale gerarchia verso la fine del libro III della Repubblica con la «nobile menzogna» del mito dei nati dalla terra. Tutti gli esseri sono uguali per la loro origine terrigna, ma al tempo stesso differiscono perché dal terreno hanno tratto un’anima di pregio diverso. Una classe è dorata e governa, una è di argento e difende, una è di bronzo o ferro e produce quanto serve al sostentamento materiale della propria città.
Posta questa divisione, sorge una domanda decisiva: l’educazione musicale e teatrale che i libri II-IV della Repubblica applicano ai bambini che diventeranno guardiani si estende anche alle altre due classi? Se nel caso del secondo gruppo il dubbio non ha ragione di porsi, perché Socrate afferma che i filosofi andranno selezionati tra i migliori dei guardiani, esso è ragionevole per i crematisti. Dal momento che sono obbligati a vita a produrre i beni materiali per lo Stato, essi non hanno bisogno di sviluppare l’eccellenza morale e intellettuale che è indispensabile, invece, a chi deve governare o difendere la città. Con estrema cautela, però, possiamo supporre che alla terza classe dei crematisti va almeno dato un minimo accesso alle favole teatrali buone e alle melodie che educano ad amare la virtù. L’assenza di questa educazione basilare impedirebbe infatti la nascita della disposizione dei crematisti ad usare obbedienza verso chi governa. Due possibili prove testuali consistono, da un lato, nel punto del mito dei nati dalla terra che riporterebbe che l’educazione è estesa al «resto dei cittadini», dall’altro nella tesi di Socrate che l’elemento razionale e quello animoso educati alla musica tengono sotto controllo il terzo. Sebbene ciò non provi che la parte concupiscibile dell’anima è direttamente influenzata dal teatro e dalle melodie dello Stato, il passo dimostra quanto meno che questa azione estetica si riverbera indirettamente su di essa.
Come si accennava, questa divisione in classi riposa su premesse non necessariamente condivisibili. Platone parte ad esempio dall’assunto che la natura di partenza non possa mutare. Al massimo, può capitare che i figli dei membri delle varie classi risultino peggiori o migliori dei genitori, dunque che sarà loro consentita una parziale mobilità sociale: un nato dai crematisti potrà persino diventare filosofo. Inoltre, Platone vede musica e spettacolo come uno strumento di dominio dei subalterni, proponendo così una medicina più nefasta della malattia. La reazione al teatro come corruzione delle passioni e come spazio di presentazione di modelli diseducativi lo porta all’esito peggiore della manipolazione delle masse. Una nobile intenzione porta a effetti altrettanto devastanti.
Ma la Repubblica risulta un testo controverso anche per le tesi del libro V sulla differenza di genere. In positivo, il testo argomenta che le donne sono destinatarie delle favole e della musica, dunque che sia loro aperta la possibilità di diventare guardiane e filosofe. Per rispondere all’obiezione che la parità è impossibile, perché i due sessi sono per natura opposti, o assolvono compiti tra loro opposti, Socrate ricorre a un’ingegnosa analogia. Noi non diremmo che la differenza tra calvi e chiomati sia una sostanziale o naturale in senso forte. Chi è senza capelli può essere un geometra, medico o fattorino bravo quanto il rivale che ha folta chioma. Ora, la donna sta all’uomo come la chiomata al calvo: l’una e l’altro possono sia assolvere gli stessi compiti che arrivare agli stessi risultati. Il fatto che – dice sempre Platone – a letto la donna «è coperta» e il maschio «copre» non è affatto decisiva per azzardare una difformità cognitiva o attitudinale.
In negativo, però, la visione platonica non sfugge del tutto al pregiudizio allora in voga (e purtroppo ancora adesso duro a morire) della superiorità dell’uomo sulla donna. Platone sostiene, infatti, che i due sessi non siano differenti per natura, ma per il grado di eccellenza che possono raggiungere nelle rispettive attività. Nonostante tutto, la donna resta più debole e in difetto, se comparata all’uomo della stessa classe. Una filosofa sarà ad esempio superiore a un guardiano, ma lievemente inferiore al filosofo per le debolezze intrinseche del sesso femminile.
Anche il libro V della Repubblica di Platone richiede così di essere sottoposto al metodo dialettico che è stato sommariamente descritto a inizio articolo. Non è più possibile accettare la distinzione tra due generi (la donna che è coperta, l’uomo che copre), né continuare a ripetere che il sesso maschile eccelle su quello femminile. In tal senso, risulta forse più attuale non tanto il Platonismo, quanto l’Epicureismo, che riconosce senza difficoltà l’esistenza del piacere sessuale femminile, come si legge nei versi del libro IV del De rerum natura di Lucrezio, o ammette la piena parità cognitiva alla donna – l’etera Leonzio fu ad esempio riconosciuta un pari dei maschi e si sentì allora autorizzata ad attaccare direttamente Teofrasto, successore di Aristotele. D’altro canto, se eliminiamo dal libro V della Repubblica tale discutibile retaggio della supremazia maschile, ci troviamo in mano un documento di importanza eccezionale. Avremo un ottimo testo che argomenta nel dettaglio che la donna può avere una carriera intellettuale, governare lo Stato e accedere a una cultura superiore.
C’è poi un altro punto positivo che può essere recuperato. Il libro V della Repubblica è interessante anche perché nasconde un’altra discreta polemica con il teatro, per la precisione con la commedia. Il Socrate platonico dichiara a più riprese che, nell’introdurre questa e altre innovazioni politiche, tra cui la comunione dei beni, dei figli e delle donne, occorre non temere di correre il rischio di coprirsi di «ridicolo». La motivazione è che il riso di tali commediografi è motivato da superficialità, ossia dalla loro incapacità di percepire che queste innovazioni sono benefiche e razionali. Accadde anche in passato, del resto, che alcune proposte politiche, sociali o educative fossero derise per ignoranza, ad esempio far ginnastica nudi. Quando la razionalità e la bontà di questa pratica divennero evidenti, si smise di colpo di ridere e l’opinione pubblica iniziò ad approvarla. Il filosofo politico non ha insomma da temere il ridicolo di proporre il coinvolgimento pieno della donna nello Stato, perché presto l’utilità di tale proposta risulterà lampante e serio.
Il ridicolo risulta dunque lecito solo contro cose o persone che sono di per sé malvagie e stolte. Tra queste, si annovera proprio l’argomento della differenziazione cognitiva e attitudine dei sessi, che merita derisione per la sua irrazionalità di fondo. Ne segue, implicitamente, che Platone considera la commedia legittima soltanto quando rivela e deride sia l’ignoranza che la malvagità, che in effetti corrisponde nella sostanza a quanto si legge nella teoria del comico nel Filebo.
In realtà, il testo del libro V della Repubblica non è esplicito nel dire che Socrate attacca il ridicolo che cercano i commediografi. L’ipotesi che Platone vada consapevolmente contro la commedia è però giustificata da un passo di Diogene Laerzio. Il biografo ci informa che il filosofo fu deriso in vita da alcuni commediografi antichi. Non si può pertanto escludere che Platone intendesse difendere la sua Repubblica dalle derisioni dei comici che altri suoi dialoghi avevano invece subito.
Pare, anzitutto, che Teopompo derise nel Gaudente la tesi del Fedone secondo cui è difficile sapere la causa per cui la formula 1+1 fa 2, in quanto non è per nulla chiaro se il risultato si dia perché: (A) il primo “1” genera “2” accostandosi al secondo “1”; (B) il secondo “1” diventa “2” in quanto gli è accostato il primo “1”; (C) i due “1” diventano “2” per accostamento. La proposizione matematica in apparenza semplice nasconde un mistero. I due “1” non accostati restano “1”, mentre accostati diventano “2”. Da ciò Teopompo avrebbe tratto la conclusione comica che «Uno è nulla; due a mala pena uno: così afferma Platone».
Altri tre commediografi contemporanei e ostili al filosofo sono Anassila, Anfide, Cratino il giovane. Sul primo, sappiamo solo che attaccò Platone nelle Botrilione, Circe e Donne vecchie. Su Anfide, Diogene Laerzio ci dice che dileggiò la concezione platonica del bene come incomprensibile e il filosofo come un individuo sia ignorante, sia burbero. Cratino il giovane irrise la teoria dell’anima di Platone, asserendo che questa mette in dubbio l’esistenza dell’anima stessa.
Infine, tra i contemporanei del filosofo – sempre citati nell’estratto di Diogene Laerzio – troviamo Anassandride. Tale commediografo deride, nel Teseo, la passione che Platone aveva per le olive, mentre nel Tesoro forse critica l’esegesi platonica di un antico scolio poetico, che sostiene che il bene massimo è la salute, seguito da bellezza e ricchezza. Il Socrate del Gorgia lo cita per criticare la tesi del sofista omonimo che la retorica è l’arte benefica per eccellenza e ne dà una lettura relativistica. Come un lettore dello scolio rovescia la gerarchia a seconda del bene che preferisce (il medico confermerà che è meglio la salute, il maestro di ginnastica dirà che preferibile è la bellezza, il finanziere che vale in assoluto la ricchezza), così Gorgia ritiene benefica la sua disciplina perché ama praticarla. Ora, Anassandride pare criticare Platone e difendere l’interpretazione gerarchica del testo poetico, salvo cambiarne un nesso. Lo scolio sbaglia a mettere la ricchezza dopo la bellezza, perché un uomo in salute è di certo migliore di un malato ricco o bello, mentre un uomo sano bello e povero risulta peggiore di uno bello/ricco.
Gli autori citati nella rassegna erudita di Diogene Laerzio non sono in ogni caso i soli poeti comici che attaccarono Platone ancora in vita. Vale qui la pena ricordare almeno anche Cratino il vecchio, Efippo ed Epicrate. Il primo deride, forse, le scene dei suoi dialoghi in cui Socrate giura sul cane e sul platano, non sugli dèi: uso attestato ad esempio dall’Apologia di Socrate. Efippo mette invece alla berlina Platone e discepoli quali uomini dissoluti, che ostentavano la loro vanità e furono dunque filosofi solo in apparenza. Un gustoso e lungo estratto citato da Ateneo di Naucrati attesta, infine, che Epicrate volle deridere una peculiare modalità conoscitiva del Platonismo: l’arte della divisione dialettica. Platone è qui rappresentato come un filosofo austero che guida dei giovani discepoli nella nobile attività di… capire la natura della zucca e le sue differenze specifiche rispetto ad altri ortaggi.
Nemmeno da morto Platone fu però meno oggetto di scherno. Ancora una volta, Diogene Laerzio riporta che, in seguito, anche Timone di Fliunte e Alessi ne presero in giro le dottrine. Potremmo in tal senso dire che Platone non aveva solo visto che le sue dottrine sarebbero state derise al presente. Aveva anche pre-visto che sarebbero state schernite in futuro.
La debolezza di questa proposta biografica è che nessuno dei poeti comici citati deride la proposta politica di Platone della parità dei sessi e del pieno coinvolgimento della donna nello Stato. Questa lacuna può però essere supplita con un’ultima ipotesi storica. Forse Platone intendeva mettersi al riparo da un commediografo pericoloso e infido, già responsabile della morte del maestro Socrate: il poeta Aristofane. Tra le commedie scritte da quest’ultimo, infatti, troviamo le Ecclesiazuse, dove la protagonista Prassagora chiede che le donne vadano al potere e che tutto sia messa in comune con gli uomini. Come Platone, ella poi chiede che il progetto governativo non venga respinto con derisione perché nuovo, ma solo dopo averne valutato l’utilità e bontà pratica. L’esagerazione attuata dalla commedia mostrerebbe, però, che tale proposito – benché sembri attirare in parte le simpatie di Aristofane, stando alla scena finale con il grande banchetto del popolo in pace – è una fantasticheria irrealizzabile. Il progetto comunitario può forse essere realizzato soltanto sulla scena, e proprio per questo va preso in giro per la sua mancanza di concretezza.
Se è plausibile ipotizzare che il libro V della Repubblica risponda alle Ecclesiazuse di Aristofane e alla sua derisione del ritratto della donna al potere, resta comunque difficile capire la relazione tra i due testi. Non è facile decidere, in particolare, se Platone rispondesse al commediografo per aver criticato le sue idee sullo Stato, che forse circolavano intanto oralmente o in una versione ancora provvisoria del dialogo, o se intendesse difendere simili esperimenti precedenti di altri filosofi-politici a favore della parità dei sessi. Ciò che è probabile è, in ogni caso, che Aristofane poteva rappresentare agli occhi platonici un commediografo che cerca il ridicolo in senso deteriore – quello che deride proposte razionali che sono belle e buone, considerandole brutte e cattive.
Questa conclusione valga sul piano storico. A livello teorico, il metodo dialettico ci ha consentito di ricostruire un’interessante prospettiva filosofica, che anticipa alcune istanza della parità di genere e, soprattutto, propone un intrigante chiarimento sulla funzione conoscitiva del ridicolo. La commedia è deteriore se critica ciò che ignora, nobile se deride il vizio e il male nelle sue forme appariscenti.
Enrico Piergiacomi
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Cercherò di persuadere prima gli stessi governanti e i soldati, poi anche il resto dei cittadini, che tutta quell’educazione fisica e spirituale che noi davamo loro, essi credevano di sentirla e riceverla, ma non erano che sogni; e veramente allora essi si trovavano entro la terra, già plasmati e allevati, essi stessi, le loro armi e, bell’e fabbricato, tutto il resto del loro equipaggiamento. E quando in ogni dettaglio fu ultimata la loro preparazione, la terra loro madre li mise alla luce: ora essi sono tenuti a provvedere e a difendere la terra che abitano come fosse la loro madre e nutrice, se qualcuno l’assale, e a considerare gli altri cittadini come fratelli e «nati dalla terra». (…) Continuando il racconto, diremo loro così: voi, quanti siete cittadini dello stato, siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, a quelli tra voi che hanno attitudine al governo mescolò, nella loro generazione, dell’oro, e perciò altissimo è il loro pregio; agli ausiliari, argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani (Platone, Repubblica, libro VI, passo 414d2-414a7)
Ora però osiamo pure dichiarare che i più scrupolosi guardiani devono essere dei filosofi (Platone, Repubblica, libro VI, passo 503b4-5)
– E, come dicevamo, a farli concordi non sarà la mescolanza di musica e ginnastica, quella mescolanza che tende e alimenta l’uno con bei discorsi e cognizioni, mentre pacifica, rilassa e calma l’altro con l’armonia e il ritmo? – Indubbiamente, ammise. – E questi due elementi così alimentati, veramente istruiti ed educati sui compiti loro, dirigeranno l’appetitivo, che in ciascun individuo costituisce la parte maggiore dell’anima ed è per natura estremamente insaziabile di beni materiali; lo veglieranno perché, fattosi grande e vigoroso accumulando in sé i cosiddetti piaceri corporali, non si sottragga ai propri compiti e non cerchi di rendere schiavi e di governare chi non gli spetta, data la sua specifica natura; e così non sconvolga totalmente la vita di tutti (Platone, Repubblica, libro IV, passo 441e8-442b)
(…) Tra persone intelligenti e amiche è sicuro e senza pericolo parlare, quando ci conosce il vero, delle cose più importanti e care, mentre quando non si è sicuri e si ricerca la verità, esporre le proprie teorie, come faccio io, è tremendo e scivoloso, non perché io tema di diventare oggetto di riso (sarebbe davvero puerile), ma di trascinare nell’errore, allontanando dalla verità non solo me stesso, ma anche gli amici, in quelle cose in cui più grave è l’errore (Platone, Repubblica, libro V, passo 450e10-45a1)
– Non crediamo che le femmine dei cani da guardia debbono cooperare a custodire ciò che custodiscono i maschi, cacciare insieme con loro e fare ogni altra cosa in comune? O crediamo che le femmine debbano starsene dentro a casa perché impedite dalla figliazione e dall’allevamento dei cuccioli, e i maschi faticare per tutte le cure degli armenti? – Ogni attività dev’essere comune, rispose; con l’eccezione che il impieghiamo tenendo presente che le une sono più deboli, gli altri più vigorosi. – È dunque possibile, ripresi, impiegare un dato animale per identici scopi, se non lo sottoponi all’identico allevamento e all’identica educazione? – Non è possibile. – Se dunque impiegheremo le donne per gli identici scopi per i quali impieghiamo gli uomini, identica dev’essere l’istruzione che diamo loro. – Sì. – Ora, agli uomini si sono date musica e ginnastica. – Sì. – E allora anche alle donne si devono assegnare queste due arti e i compiti bellici, e le dobbiamo impiegare con gli stessi criteri. – È una conclusione ovvia, da quel che dici, ammise. – Però, ripresi, molti punti di questo nostro discorso, se verranno messi in pratica nel modo che diciamo, forse potranno apparire contro la tradizione e ridicoli. – Certo, disse. – Di questo discorso, feci io, che cos’è che tu vedi come molto ridicolo? Non è, evidentemente, scorgere le donne far ginnastica nude nelle palestre insieme con gli uomini, non soltanto le giovani, ma perfino le anziane? Sono come quei vecchi che trovi nei ginnasi, quando, tutti grinzosi e poco piacevoli alla vista, tuttavia amano fare ginnastica. – Sì, per Zeus!, rispose; sarebbe uno spettacolo ridicolo, almeno per i nostri tempi. – Ora, dissi, poiché s’è cominciato a parlare, non si devono temere i motteggi degli spiritosi: lasciamo pure che ne dicano quanti e quali vogliono per una simile trasformazione verificatasi nei ginnasi, nella musica e specialmente nel maneggio delle armi e nell’equitazione. – Hai ragione, disse. – Ma ora che abbiamo avviato il discorso, dobbiamo procedere verso il punto più scabroso della legge; e preghiamo questi motteggiatori di rinunciare al loro mestiere e di comportarsi seriamente, ricordando che non è passato molto tempo da quando agli Elleni sembravano brutte e ridicole certe cose che ora sembrano tali alla maggior parte dei barbari, cioè che si vedessero uomini nudi; e che quando i Cretesi per primi e poi i Lacedemoni iniziarono gli esercizi ginnici, gli spiritosi di allora potevano beffarsi di tutto questo. Non credi? – Io sì. – Ma quando, come penso, durante gli esercizi sembrò più opportuno svestirsi che coprire il corpo, anche quello che agli occhi era ridicolo sparì di fronte all’ottima soluzione che la ragione indicava. Anzi questo fatto dimostrò che è un superficiale chi ritiene ridicola tutt’altra cosa che il male; e che chi si mette a suscitare il riso guardando, come a visione di cosa ridicola, a una visione che non sia quella della stoltezza e del male, persegue inoltre seriamente anche una visione del bello con uno scopo diverso da quello del bene (Platone, Repubblica, libro V, passo 451d3-452e2)
– Perciò, continuai, possiamo chiedere a noi stessi, come sembra, se le persone calve e chiomate hanno l’identica natura e non nature opposte; e quando riconosciamo che sono nature opposte, nel caso che dei calvi facciano i calzolai, possiamo vietarlo a individui chiomati; nel caso che lo facciano persone chiomate, vietarlo ai calvi. – Sarebbe proprio ridicolo, disse. – Ma la ragione di questo ridicolo, ripresi, non è che allora non abbiamo stabilito in una maniera assoluta l’identità e la differenza della nature, ma abbiamo considerato solamente quella specie di diversificazione e di similitudine che concerne le identiche occupazioni? (…) Quindi, dissi, anche per il sesso maschile e femminile, se risultano differenti per una data arte o altra occupazione, diremo che questa arte od occupazione va assegnata o all’uno o all’altro sesso. Ma se risulta che la loro differenza è data soltanto dal fatto che la femmina partorisce e il maschio copre, diremo che non c’è alcuna ragione di concludere che, relativamente al nostro argomento, la donna differisca dall’uomo; ma continueremo a credere che i nostri guardiani e le loro donne debbono attendere alle stesse occupazioni (Platone, Repubblica, libro V, passo 454c1-e4)
Allora, mio caro, nell’amministrazione statale non c’è occupazione che sia propria di una donna in quanto donna né di un uomo in quanto uomo; ma le attitudini naturali sono similmente disseminate nei due sessi, e natura vuole che tutte le occupazioni siano accessibili alla donna e tutte all’uomo, ma che in tutte la donna sia più debole dell’uomo (Platone, Repubblica, libro V, passo 455d6-e2)
– Perciò le donne dei guardiani devono spogliarsi, dato che si vestiranno di virtù anziché di abiti; e cooperare nella guerra e negli altri compiti di guardia dello stato, senza occuparsi d’altro. E di queste incombenze stesse le più leggere vanno assegnate alle donne piuttosto che agli uomini, per la debolezza propria del sesso femminile. E l’uomo che si mette a ridere di donne ignude che fanno ginnastica per lo scopo più nobile, «cogliendo immaturo il frutto» del ridicolo, non sa nulla, come sembra, di ciò che deride e non sa quello che fa: ché benissimo si dice e si continuerà a dire che l’utile è bello e il nocivo brutto. – Perfettamente. (…) – A questa legge e alle altre precedenti, ripresi, segue, a mio avviso, quest’altra. – Quale? – Queste donne di questi nostri uomini siano tutte comuni a tutti e nessuna abiti privatamente con alcuno; e comuni siano poi i figli, e il genitore non conosca la propria prole, né il figlio il genitore. – Questa norma, disse, assai più dell’altra susciterà diffidenza, per la sua possibilità come per la sua utilità. – Non credo, risposi, che, almeno per quanto concerne l’utile, si contesterà che non sia massimo bene avere comuni le donne e i figli, sempre che la cosa sia possibile; ma credo che ci sarà una grandissima contestazione se sia o no possibile (Platone, Repubblica, libro V, passo 457a6-d9)
Ma non sempre sospira di finto amore la donna che abbracciata a un uomo unisce il corpo al suo corpo e lo stringe e sugge le sue labbra imprimendo umidi baci. Spesso lo fa di cuore e cercando il piacere concorde lo sprona a percorrere fino in fondo il cammino d’amore (Lucrezio, Sulla natura delle cose, libro IV, vv. 1192-1196)
E fondandosi su codeste chimere non solo Epicuro, Metrodoro ed Ermarco parlarono contro Pitagora, Platone ed Empedocle, ma anche Leonzio, una volgare sgualdrina, osò scrivere contro Teofrasto? sappi però che scrisse in puro attico, purtuttavia… Tanta libertà si prese la scuola di Epicuro (Cicerone, Sulla natura degli dèi, libro I, cap. 23, § 93)
(…) Anche Platone fu tuttavia schernito dai comici. Teopompo almeno nel Gaudente dice così: «Uno è nulla; due a mala pena uno: lo afferma Platone». E pure Anassandride nel Teseo: «Quando divorava le sacre olive, come appunto Platone». E pure Timone faceva questo bisticcio di parole: «Con molta bravura Platone riplasmava le plasmate assurdità». Alessi nella Meropide: «Giusto in tempo sei venuto, ché incerta m’aggiro su e giù, come Platone: nessun saggio consiglio rinvenni, ma mi dolgono le gambe». E nell’Ancilione: «Parli di cose che non sai, e corri simile a Platone, e alla fin saprai la soda e la cipolla». Anfide nell’Anficrate: «A. Quel bene, qualunque sia, che tu vuoi ottenere per questa, meno io conosco, o signore, del bene di Platone. / B. Ascolta dunque». E nel Dessidemide: «Platone, a nulla eri buono se non a mostrarti burbero, se non ad aggrottare solennemente i sovraccigli, come la chiocciola». Cratino nel Creduto falsamente supposto: «A. È chiaro che tu uomo sei ed un’anima possiedi. / B. Secondo il monito di Platone, non so, ma sospetto di averla». E Alessi nell’Olimpiodoro: «A. In una, il corpo mortale arido divenne, e l’anima immortale nell’etere balzò. / B. E non è questa la teoria platonica?». E nel Parassita: «O con Platone parlare da solo a solo». Lo schernisce anche Anassila nel Botrilione, nella Circe e nelle Donne ricche (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro III, capp. 26-28 = Teopompo comico, fr. 16 Kassel-Austin; Anassandride, fr. 20 Kassel-Austin; Timone di Fliunte, fr. 19 Di Marco; Alessi comico, frr. 1 Strama; Anfide, frr. 6 e 13 Kassel-Austin; Cratino il giovane, fr. 10 Kassel-Austin; Anassila, frr. 5, 14 e 26 Kassel-Austin)
«Esamina ancora questo. Io credevo esatto ritenere che, quando un uomo alto sta accanto ad uno piccolo, egli è maggiore dell’altro precisamente per la testa; così un cavallo di un altro; e, ciò che è ancor più evidente, mi pareva che il dieci fosse più dell’otto per l’addizione del due e che due cubiti’ fosse più di un cubito perché lo eccede di metà». «Ed ora [Socrate]», disse Cebete, «qual è il tuo parere su queste cose?». «Per Zeus», disse, «sono così lontano dal credere di conoscere la causa di qualcuna di queste cose, da non poter ammettere che, quando si addiziona uno ad uno, diventi due l’uno a cui si addiziona o l’uno addizionato o diventino due entrambi, l’uno addizionato e quello a cui è stato addizionato, a causa dell’addizione dell’uno all’altro. Mi stupisce che ciascuno di essi, quando era separato dall’altro, era uno e non erano due; ma, dopo che si sono avvicinati, l’incontro dovuto all’essere posti uno accanto all’altro, è diventato la causa della generazione del due. E non posso ancora persuadermi che, quando l’uno si dimezza, tale dimezzamento sia la causa della generazione del due, perché in questo caso la causa della generazione del due diventa opposta alla precedente. Prima, la causa era l’avvicinamento e l’addizione dell’uno all’altro, ora invece l’allontanamento e la separazione dell’uno dall’altro. Quanto poi a sapere la causa della generazione dell’uno, non riesco neppure a farmi una convinzione e, in una parola, neppure perché nasce o perisce o esiste, seguendo questa procedura di metodo, anzi metto insieme a caso qualche altra procedura, perché questa non l’affronto più» (Platone, Fedone, passo 96d8-97b7)
E, per il cane, cittadini Ateniesi – vi devo dire la verità –, mi successe questo (Platone, Apologia di Socrate, passo 22a1-3)
Si tratta di giuramento che risale a Radamanto basato sul cane, sull’oca e sul platano, o su cose simili: «il cui giuramento più grande era soprattutto rivolto alla parola cane, o anche all’oca, mentre faceva silenzio sugli dèi». Così Cratino nei Seguaci di Chirone. Era infatti costume giurare su queste cose affinché si pronunciassero giuramenti sugli dèi. Questi erano anche i giuramenti di Socrate (Anonimo, Scolio all’«Apologia» di Platone, passo 22a = Cratino, fr. 249 Kassel-Austin; trad. mia)
SOCRATE: – Dimmi: riguardo a che cosa? Qual è tra gli enti quello sul quale vertono i discorsi che la retorica utilizza?
GORGIA – Le massime e le migliori delle cose umane, Socrate.
SOCRATE: – Ma, Gorgia, ciò che tu dici è discutibile e non è ancora chiaro. Io credo che tu abbia sentito cantare nei banchetti questo scolio, nel quale si enumera cantando che «aver salute è la cosa migliore, la seconda essere bello, la terza, come dice il poeta dello scolio, essere ricco senza frodi».
GORGIA – L’ho sentito; ma in rapporto a che cosa dici questo?
SOCRATE – Se ti si presentassero in questo istante gli artefici di quei beni lodati dal poeta dello scolio, il medico, il maestro di ginnastica e il finanziere, e il medico per primo dicesse: «Socrate, Gorgia ti inganna: non è la sua la tecnica che concerne il massimo bene per gli uomini, ma la mia» – e se allora gli domandassi: «Ma tu chi sei per dire queste cose?», egli risponderebbe, credo, di essere medico. «Che dici? Il prodotto della tua tecnica è il massimo bene?» – «Socrate, risponderebbe forse, come può non esserlo la salute? Quale bene maggiore per gli uomini della salute?». Se dopo di lui il maestro di ginnastica dicesse: «Anch’io, Socrate, sarei stupito se Gorgia riuscisse a dimostrare di ottenere con la sua tecnica un bene maggiore che io con la mia»; chiederei anche a lui: «Ma chi sei tu e qual è il tuo lavoro?» «Sono maestro di ginnastica», risponderebbe, «e il mio lavoro consiste nel rendere gli uomini belli e forti nei corpi ». Dopo il maestro di ginnastica, parlerebbe il finanziere, con gran disprezzo per tutti, credo: «Vedi un po’ Socrate, se a tuo avviso c’è un bene superiore alla ricchezza, che sia in possesso di Gorgia o di altri». «Perché?», gli diremmo. «Tu sei artefice di ricchezza?». Risponderebbe di sì. «Ma chi sei?». «Finanziere». «Ma, diremo, giudichi tu che il massimo bene per gli uomini sia la ricchezza?». «Come no?», risponderà. «Eppure Gorgia qui presente obietta che la sua tecnica è causa di un bene maggiore della tua», noi diremmo. Evidentemente dopo ciò, egli domanderebbe: «E qual è questo bene? Gorgia risponda» (Platone, Gorgia, passo 451d5-452d1)
«La cosa migliore per i mortali è godere di buona salute, la seconda avere bell’aspetto; arricchirsi onestamente è il terzo bene; il quarto godere con gli amici la giovinezza». Quest’ultimo scolio era stato appena cantato e tutti ne provavano piacere, anche al pensiero che esso è ricordato dal nobile Platone come composto in modo eccellente, allorché Mirtilo intervenne dicendo che esso è invece oggetto di scherno per il poeta comico Anassandride, che nel Tesoro dice: «Quel tipo che compose lo scolio, chiunque egli sia, giustamente cantò la salute per prima, come il bene più grande; ma in ciò, vedi, egli fu pazzo, a porre la bellezza seconda e terzo l’esser ricchi: dopo la salute la ricchezza supera gli altri beni e un bell’uomo affamato è bestia obbrobriosa» (Anassandride, fr. 18 Kassel-Austin = Ateneo di Naucrati, I sofisti a banchetto, libro XV, cap. 49)
Perciò anche il poeta comico Efippo, nel Naufrago, ha rappresentato Platone in persona e alcuni suoi scolari addirittura come calunniatori a fini di lucro, mostrando che si adornavano riccamente e che dedicavano al proprio aspetto una cura maggiore dei debosciati dei nostri giorni; egli dice: «Poi s’alzò in piedi un giovanotto sveglio, uno di quelli dell’Accademia, fintoplatonici acchiappamonetinebrisonotrasimacheschi, per le percosse del bisogno sposato all’arte di guadagnarsi una paga con le chiacchiere, capace di parole ponderate; ben rasati i capelli col rasoio, ben fluente la barba in intonsa lunghezza, ben calzato il piede nel sandalo con lacci attorti sopra la caviglia in giri tutti uguali, dalla rotondità della clamide ben corazzato il petto, appoggiò sul bastone la figura solenne e un discorso accattato, mica suo, mi pare, iniziò: “O cittadini della terra attica…”» (Efippo, fr. 14 Kassel-Austin = Ateneo di Naucrati, I sofisti a banchetto, libro XI, cap. 120)
A: Che fanno Platone, Speusippo e Menedemo? Su quali problemi sprecano ora il loro tempo? Quali pensieri, quali ragionamenti sono oggetto di ricerca nella loro scuola? Di questo con saggezza parlami, se vieni sapendone qualcosa, per la Terra […].
B: Io sì ne so parlare con cognizione di causa. Alle Panatenee appunto vidi un gruppo di giovanetti […] nei ginnasi dell’Accademia udii discorsi irrepetibili, strani. Dando definizioni sulla natura, distinguevano vita di animali, natura di alberi e specie di ortaggi. Poi tra queste definizioni cercavano a quale specie appartenesse la zucca.
A: E cosa mai stabilirono che fosse la pianta e di che specie? Spiegalo, se ne sai qualcosa.
B: Tutti allora stettero muti e a testa bassa lungamente rimasero a riflettere. Poi d’improvviso, mentre ancora i giovani, a capo chino, indagavano, uno disse che era un vegetale tondo, un altro erba, un altro ancora albero. A sentir questo, un medico, venuto dalla terra di Sicilia, li trattò a peti, come fossero pazzi.
A: Terribilmente s’adirarono allora e protestarono di essere beffati? Comportarsi cosi è sconveniente in simili riunioni […].
B: I giovani non se ne curarono affatto. Platone, che era li presente, assai affabile, e per niente sconvolto, ordinò loro dì definire ancora dall’inizio la zucca di quale specie fosse. Ed essi continuavano con le loro definizioni (Epicrate, fr. 10 Kassel-Austin = Ateneo di Naucrati, I sofisti a banchetto, libro II, cap. 54)
Amici, affidiamo a loro la Città, senza troppe chiacchiere: è inutile chiedere che combineranno. Lasciamole governare e basta! Una sola riflessione, se mai: sono le madri dei soldati, chi più di loro desidera salvarli? Per i viveri, chi meglio di una madre è capace di spedirglieli? A scovare danari, chi più bravo di una donna? Una volta al potere, chi le imbroglia? Abituate a imbrogliare, sono loro! Lascio il resto: statemi a sentire, farete una vita da pascià (Aristofane, Ecclesiazuse, vv. 236-240)
PRASSAGORA: Sono sicura di insegnarvi cose utili. Ma gli spettatori, vorranno buttarsi in acque nuove, non continuare a sguazzare in quelle vecchie e conosciute? Questa, la mia paura più grossa. CREMETE: Quanto alle acque nuove, nessuna paura. Se una virtù noi abbiamo, è questo: fregarcene del passato!
PRASSAGORA: Nessuno di voi, però, si metta a contraddire o a interrompere, prima di essere al corrente del mio piano, e sentire le spiegazioni. Propongo dunque che noi si faccia una società in comune, di cui tutti si servano per vivere. E non che uno sia ricco, l’altro miserabile, che uno abbia terra a non finire, l’altro neanche per la tomba, che uno abbia un branco di servi, l’altro nemmeno un aiuto. I mezzi per vivere dovranno essere comuni e uguali per tutti! (Aristofane, Ecclesiazuse, vv. 583-594)
[Le traduzioni dei dialoghi sono nella maggior parte dei casi riprese da Giuseppe Cambiano (a cura di), Platone: Dialoghi filosofici. Volume primo, Torino, UTET, 1970. Fa eccezione la Repubblica, citata da Franco Sartori (a cura di), Platone: La Repubblica, introduzione di Mario Vegetti, note di Bruno Centrone, Roma-Bari, Laterza, 2006. Le altre fonti sono tratte da qui:
- Armando Fellin (a cura di), Tito Lucrezio Caro: La natura, Torino, UTET, 2004;
- Benedetto Marzullo (a cura di), Aristofane: Le commedie, Roma, Newton Compton, 1991;
- Luciano Canfora (a cura di), Ateneo di Naucrati: I deipnosofisti, Roma, Salerno Editrice, 2001;
- Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio: Vite dei filosofi, Roma-Bari, Laterza, 1962;
- Nino Marinone (a cura di), Cicerone: Opere politiche e filosofiche. Volume primo, Torino, UTET, 1955
- Rudolf Kassel, Colin Austin (a cura di), Poetae Comici Graeci, Berlin-New York 1991-2001]