Intervista a Ricci/Forte, nuovi direttori artistici della Biennale Teatro
Inizialmente avevamo proposto un’intervista telefonica, modalità che Teatro e Critica tende sempre a prediligere per tutelare la mobilità e sincerità estemporanea del dialogo. Stefano Ricci e Gianni Forte, alla direzione artistica per il quadriennio 2021-2024 della Biennale Teatro (da oltre quindici anni creano spettacoli, performance e allestimenti lirici), hanno invece preferito la forma scritta, attraverso la quale rispondere, con i loro tempi, alle nostre domande. Abbiamo accettato, nonostante l’impossibilità di avere una conversazione dal vivo (e dunque l’opportunità di dialogare e rispondere), perché pensiamo che per i lettori sia comunque importante capire il pensiero e la poetica della nuova direzione artistica della Biennale Teatro (comunicato e cenni biografici). Per questa ragione la scrittura dei direttori artistici arriva in pagina senza essere stata editata.
In un’intervista all’indomani della nomina, avete denunciato «l’anacronismo e l’assenza di ossigeno» della dimensione teatrale italiana. Dirigere Biennale sarà un’occasione per intervenire attivamente in questo scenario?
“Se vai avanti muori; se ti tiri indietro, muori lo stesso. Allora perché fare dietro front?”, è il motto di antichi guerrieri Samurai. Ecco perché in questo particolare momento la nostra missione sarà di tentare di riuscire ad affrancarci dall’odierna visione tetra calvinista e liberare gli sguardi di tutti noi dal terrore ossessivo del vuoto e di questa interminabile notte – buia e volgare – che ci stritola ormai da quasi un anno. Avvertiamo la necessità impellente di dibattere sullo smarrimento e baratro in cui siamo sprofondati e sugli eventuali antidoti per fronteggiarli difendendone gli avamposti etici e culturali ma, allo stesso tempo, è d’estrema urgenza poter riascoltare il canto del nostro cuore che si sta pietrificando, riallacciare i rapporti con i nostri simili, reinventarci per non soccombere, testimoniare questo momento sospeso e accettare l’esistenza in tutta la sua sincerità. Contro la potenza delle tenebre, ci batteremo per una risalita verso la luce, verso quelle straordinarie nuances di BLU (che simbolicamente sarà il colore, il pigmento specifico, il principio attivo che ci contagerà emotivamente in questa nostra prima edizione di Biennale Teatro) delle vetrate della Cattedrale di Chartres per dipingere il senso del nostro viaggio centrato sull’esplorazione dell’Uomo e delle sue complesse e ambivalenti sfaccettature, alla maniera di una contemporanea Comédie Humaine di Balzac.
Sono in uscita i nuovi bandi College, un «ponte ben attrezzato» per i giovani registi. Quale è la vostra idea di formazione? La pensate in termini “adattivi”, in un tempo di così profonde trasformazioni?
Per noi lo scopo del College non è l’hic et nunc ma quello di riconoscere le grammatiche di domani e arrivare a dar voce, visibilità e promuovere giovani registi, autori e performers (sono tre i Bandi College di quest’anno: sezione regia, sezione drammaturgia e sezione site-specific), durante il tragitto in salita nella realizzazione delle loro nuove creazioni. Affiancandoli con un’equipe di reputati tutors/pedagoghi internazionali, approntando cantieri di progettazione, gettando ponti e archittettando piattaforme di confronto e scambio, ci auguriamo di poter offrire ai candidati selezionati la possibilità di esprimersi senza condizionamenti, filtri o scorciatoie mediate dalle leggi di mercato, di identificare e temprare la propria rotta, d’apprendere a guardare la realtà oltre il recinto di casa, di sperimentare nuovi linguaggi, tecniche e codici in dialogo con le urgenti trasformazioni del Presente, di mettersi alla prova dando così accesso ad una visione personale e originale del loro mondo poetico.
La vostra linea curatoriale si porrà in continuità con quella di Antonio Latella, attenta allo scouting e alla programmazione di artisti meno visibili?
La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Non ci piace restare immobili, “uomini vegetali” che mettono radici. Come per il marinaio di Pessoa, anche per noi è bello il mare degli altri paesi, quello sconosciuto che non abbiamo ancora attraversato. Noi siamo pronti a mutare continuamente prospettiva, a farci travolgere dalla spirale ipnotica di imprevedibili mete, salpando alla volta di nuove deflagranti avventure. Fortunatamente i nostri punti di vista sono declinati al plurale: meglio non fidarsi troppo delle certezze monolitiche.
Il “teatro del futuro” sarà un teatro sostenibile, dal punto di vista economico ed ecologico?
Domanda aperta che galleggia in questo vacillamento nebuloso insieme al tempo e alla coscienza degli uomini instillando in noi dubbi e riflessioni germinanti… cosa fondamentale, manca ora un’idea del futuro!
Siamo in balia di una pericolosa situazione di stallo. Un’emergenza economica in atto. Nessuna presa di posizione concreta da parte del nostro Ministero, del Governo e delle grandi istituzioni per tutelare seriamente la dignità dei lavoratori dello spettacolo. Il Teatro dal vivo è nutrimento fondante nella vita quotidiana di tutti i cittadini e per la crescita del nostro Paese. È fonte di conoscenza di noi stessi e del mondo intorno a noi. Il Teatro è stato e sarà il cavallo di Troia per prendere la città e – per permetterci di riavvicinarci alla sua arena come luogo di vita condivisa e di discussione pubblica – inventerà sicuramente nuove forme economiche, ecologiche, trasversali per far tornare a dialogare la comunità contro l’incalzante “suburbanizzazione dell’anima”. Ed essendo un organismo vivente, che pulsa, fino a quando l’immaginazione non esalerà il suo ultimo respiro, NOI artisti saremo ancora lì, pronti a combattere, ciascuno con le proprie armi della creatività.
Nella stessa intervista, avete parlato del fatto che l’utilizzo, in scena, di una «grammatica espressiva altra» non debba essere inteso come una provocazione o una trasgressione ma come un atto connaturato ai tempi. Si tratta un pensiero interessante, che mi sembra vada in direzione della dismissione della categoria di “avanguardia”. Quindi vi chiedo: ha senso, oggi, parlare di avanguardia? E, se invece decade questa funzione e si “normalizza” l’idea della rottura, cosa rimane dell’atto esplorativo?
Esiste ancora oggi, e più che mai, un diffuso timore dell’atto necessario di mutazione: è il termine rottura a diventare inappropriato per identificare una manifestazione, quella teatrale, che racchiude in nuce il suo senso di evoluzione. Teatro è agorà, dunque nubi, dunque dubbio e precipitazione di interrogativi. Le avanguardie si distanziavano da un classicismo formale che stentava a respirare con i polmoni di Crono; erano, dunque, istanze contrapposte e preposte a rintracciare un cambiamento. Ma che cos’è oggi il Teatro se non ammaraggio continuo sul tempo presente e, soprattutto, futuro nel senso di indicazione per sviluppare architetture espressive capaci di tradurre il domani che sta arrivando? Forse il processo di normalizzazione rivela un punto di vista inatteso: è la speculazione a connaturarsi col rito teatrale mentre perde quasi di senso un apparato di mera rappresentazione, svuotato di significati, la cui attitudine conservativa si frantuma contro una dimensione come quella attuale segnata da sbigottimento, timore, crisi culturale e incapacità di distinguere le valenze tra un gesto rituale Con e In assenza di officianti.
Siete ideatori e conduttori di Hic sunt leones, un “doc on the road” in onda su Rai 3, nel quale «si raccontano le gesta di piccoli eroi quotidiani». L’espressione latina indica proprio, nella cartografia antica, l’area inesplorata ma, nell’accezione contemporanea, si usa per definire una condizione in cui è necessario prestare una particolare attenzione. Esiste conflitto o corrispondenza tra queste due dimensioni (quella dell’ignoto e quella della cautela) e dove si colloca il teatro?
Lo sconosciuto, l’inconsueto, dovrebbe attestarsi sempre come un appuntamento agognato per raggiungere livelli successivi di consapevolezza. Inesplorato, appunto, è un vocabolo che indica un moto, il bisogno di affrontare l’itinerario. Per scoprirsi sotto un’altra prospettiva, per mettere in luce rilievi altrimenti sepolti. L’attinenza con il fantasma del Teatro è nitida nella sua limpidezza etica. L’attenzione non è declinata come prudenza ma si rivela nel suo significante di cura, di vigilanza e premura nel maneggiare le fragilità umane e il valore che da quel riconoscimento ne scaturisce: i Leoni, gli Eroi, sono intorno a noi, ci scrutano dal buio della platea; il minimo che possiamo fare è restituire quel coraggio con azioni intellettive ed espressive fedeli rispetto al nostro migrare.
Vi occupate da anni di opera lirica: credete si tratti di un linguaggio che raggiunge il pubblico attraverso degli “accessi” differenti? Cosa portate di questa ulteriore esplorazione dentro l’esperienza del teatro di prosa?
La partitura è una lingua e come tale evocatrice di visioni, metafore, possibilità. È l’estrema speranza di redenzione, come solo la musica può consegnare. Iniziazione ad una nuova morale attraverso voce e orchestra potrebbe sembrare irragionevole ma non è così: il perturbamento, la vertigine di una composizione strumental vocale diventa territorio di indagine, ai limiti del fallimento continuo, dove poter indagare teorie di comunicazione con l’Altro. Se il Corpo in scena si fa carico dei segni che l’esistenza gli trascrive, lo stesso involucro raccoglie le stimmate sensoriali che la Musica gli imprime costringendolo ad una resa con le istanze terrene per una mappatura costante dei proprio confini. Una decostruzione, quella attuata dalla Lirica, da quel mondo della ragione proprio del Teatro per una immersione nell’oscurità spirituale che si allaccia al nostro operato di uomini: luce e ombra sono dualismi in cui l’individuo non riesce più a credere; nella luminosità non sempre c’è conforto, così come la notte può mostrare perimetri inattesi e rivelatori. Il mistero dell’esistenza, attraverso la creazione musicale, lacera i sipari che ci trattengono dalla cognizione.
La mappatura condotta da Amleta ha messo in luce un forte deficit di rappresentazione delle donne nel settore teatrale e in particolare nei quadri direttivi. Non si può dire lo stesso del mondo lgbt. Come leggete, in logica intersezionale, l’assenza femminile?
Non crediamo che dominazioni o discriminazioni di genere facciano parte del sistema teatrale: registe giovani premiate, artiste ospiti in Biennale e direzioni artistiche come quella precedente nel settore Danza, e la fresca nomina a quello della Musica di una compositrice affermata come Lucia Ronchetti, raccontano una assoluta congruità. Attribuire un’ideologia gender al rito teatrale è anacronistico e fuorviante: più che parlare dei gameti e delle fonti di fecondazione forse dovremmo comprendere i percorsi di educazione che il giovane embrione avrebbe bisogno di attuare per diventare adulto; in un territorio in cui i talenti vengono vivisezionati al microscopio, gettati sotto le luci della ribalta e poi abbandonati nel loro percorso di formazione per rivolgersi ad altri aspiranti ai cinque minuti di popolarità di warholiana memoria, pone il dibattito su un fronte più ampio di messa a fuoco culturale di pubblico ed operatori.
Se esistono assi di oppressione non vanno identificati in un gioco di sessi ma in uno sguardo più ampio, altrimenti impantanarci nel binarismo di genere mortificherebbe gli sforzi generando un violento svilimento del talento della moltitudine di artisti di sesso femminile: non è il “patriarcato” l’annosa questione ma il “familiato” che stabilisce le prevaricazioni impedendo lo sviluppo di ciascun talento, a qualunque sesso procreante appartenga. In questo momento intra-pandemico, poi, la sfida di ricostruzione si fa più complessa: il sistema necessita cambiamenti profondi che vanno oltre puntalizzazioni identitarie – in termini di solidarietà etica prima che artistica – per non invisibilizzarci con le nostre stesse mani. L’autodeterminazione, oggi in questo Paese, riguarda i diritti dell’Arte e della Cultura, loro sì oppresse e sottodimensionate.
I Leoni d’oro e d’argento 2021, assegnati rispettivamente a Krzysztof Warlikowski e a Kae Tempest, mi sembra evidenzino entrambi il ruolo fondamentale della “frattura” – lo «strappo del fondale» – come strumento di osservazione rinnovata della storia, nel caso di Warlikowski, o del presente per Tempest. Si tratta di una scelta che, in qualche modo, trae qualità di tempi?
È per puro caso e senza alcuna predeterminazione che gli artisti a cui verranno tributati a Luglio il Leone d’oro alla carriera quarantennale – il polacco Krzystof Warlikowski – e quello d’argento – l’inglese Kae Tempest – sono a loro modo due franco-tiratori, anticonformisti, refrattari a qualunque regime. Due spiriti in itinere, liberi da norme e ingiunzioni morali granitiche, da ogni ideologia politica, dal momento che ogni “militanza” rincorre troppo spesso il potere per esimersi dal non essere falsa e menzognera: senza alcuna rete di sicurezza, alla ricerca di un senso, i due futuri Leoni dell’edizione Biennale Teatro 2021 percorrono sentieri ardui per raggiungere l’altro versante di una frontiera possibile, resistendo ed opponendosi a delle coercizioni liberal totalitarie opprimenti per affermarsi degnamente con la propria identità nell’attualizzazione del loro desiderio di poter essere se stessi. Un desiderio anche sotto forma di buco nero, di furore interiore, per affrontare l’incognita di decollare verso orizzonti differenti, affrontando di petto gli innumerevoli ostacoli dell’attuale società contemporanea, un’orchessa tentacolare, un mostro idrocefalo famelico, costantemente alla ricerca della prossima vittima per cercare di tenersi a galla e sopravvivere.
Ilaria Rossini
Recensioni e articoli su Ricci/Forte