Mentre in Emilia Romagna si attende di conoscere il nome del direttore o della direttrice di Ert intervistiamo Elena Di Gioia, curatrice bolognese, esperta di progettazione teatrale e culturale.
Pochi giorni fa è scaduto il termine ultimo per partecipare al bando (non vincolante) per la direzione artistica di ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione. Abbiamo raggiunto in videocall Elena Di Gioia, per dare la parola a chi da anni cura e dirige Liberty – Stagione Agorà, una realtà complementare a quella del Teatro Nazionale emiliano-romagnolo, muovendosi fra sale teatrali e spazi disseminati, eccentrici, di cintura rispetto al grandi polo bolognese. Di Gioia dal 2005 al 2009 è stata co-curatrice di Bè bolognaestate, nelle stagioni 2014 e 2015 ha curato Festival Focus Jelinek; è docente di progettazione culturale presso il Corso di Perfezionamento Dramaturg Internazionale alla Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro. Per le cronache giornalistiche il suo era uno dei nomi attorno ai quali poteva ruotare una possibile candidatura proprio alla direzione di Ert prima che la fondazione scegliesse lo strumento del bando.
Cosa dovrebbe occupare il centro del dibattito sul teatro oggi, a quasi un anno dall’inizio dell’emergenza e della chiusura degli spazi?
L’assenza. Dobbiamo calarci al centro di questo presente che ci ha mostrato l’assenza di un discorso pubblico sui luoghi della cultura. In questo senso, le chiusure hanno gettato luce su una zona in ombra già da tempo. Possiamo cogliere l’occasione per posare lo sguardo in quell’assenza di luce, nel divaricarsi del solco fra luoghi, linguaggi della cultura, pubblico e comunità. Qual è il senso e la misura dell’assenza dei teatri in questi mesi?
La progettualità di Agorà è da sempre legata alla presenza tentacolare nel territorio, all’incontro nei luoghi fisici di cittadinanza. Come hai provato a declinare questa visione nell’assenza di cui parli?
Il pensiero guida è stato mantenere la promessa di un incontro. Come sostanziare questa promessa? Dove ricollocarla? Alla data simbolica del 15 giugno scorso, la prima riapertura per lo spettacolo dal vivo, abbiamo riportato il pubblico letteralmente in piazza con Lapsus Urbano. Il primo giorno possibile di Kepler-452. Uno spettacolo che era stato pensato nei mesi precedenti intorno a un progetto sulla Memoria e che non ha voluto cedere al blocco e alla chiusura e ha ripensato la Memoria proprio alla luce di ciò che stava accadendo. Viverla nel momento stesso in cui accade. A distanza di qualche mese, sempre con i Kepler abbiamo invertito quel moto di riappropriazione: in Coprifuoco è l’attore rider, Nicola Borghesi, ad attraversare le città vuote in una spedizione notturna, una solitudine condivisa a casa dagli spettatori, attraverso l’uso sapiente di uno strumento di comunicazione virale come la piattaforma Zoom. L’arco simbolico fra questi due lavori contiene il progetto necessario di continuare a nutrire la relazione fra artisti e pubblico. Per noi, come stagione Agorà, ha significato dare un segnale concreto di sostegno agli artisti che non deve interrompersi mai, ma anzi rilanciarsi sempre, anche nei momenti di crisi: produrre due spettacoli (e altre azioni che abbiamo messo in campo) proprio nel momento in cui i teatri sono chiusi. Siamo chiusi sì, ma non fermi, e con noi non deve fermarsi quella filiera di sapienza e lavoro che compone uno spettacolo.
Per la parte di programmazione, un’altra strategia di dislocazione è stato soffermarsi su un luogo meraviglioso: la voce. A partire dalla scorsa estate abbiamo chiesto a otto attori e attrici straordinari (Francesca Mazza, Marco Cavicchioli, Francesca Ballico, Oscar De Summa, Angela Malfitano, Maurizio Cardillo, Anna Amadori, Pietro Babina) di pensare una parola come segno di questi tempi, e di comporre un racconto intorno a queste parole. Sono così nati Presente, Solitudine, Voracità, Eredità, Magia, Furore, Controtempo, Stoicismo. Parole che inanellano questi tempi come una collana comune. Anche questi appuntamenti, che abbiamo chiamato La parola soffiata sono avvenuti in diretta, in versione solo sonora, su Zoom (qui ne parla Enrico Piergiacomi). La diretta è un atto importante, sia per l’artista che per il pubblico: è appunto quella promessa di incontro e può preservare la forza della dimensione dell’incontro nel virtuale. Quella presenza virtuale poi è accaduta volutamente in un luogo simbolico e concreto: le sale dei consigli comunali di otto comuni dove si svolge Agorà: dal luogo centrale delle comunità si diffonde la voce di attori e attrici.
Quella diffusione ha intrecciato, intorno al pubblico consolidato della nostra stagione, anche una platea moltiplicata, espansa, nazionale. Di questa nuova geografia dell’incontro non potremo non tener conto e credo qui si collochi una soglia straordinaria di invenzione.
Dalle tue parole emerge una concezione doppia della scena digitale: strumento utile, o necessario in via emergenziale, ma anche luogo nuovo con i propri codici etici ed estetici.
Le pratiche performative online per me sono un’incognita che viene affidata ad artisti e artiste. Come un mistero che può diventare terreno fertile di sperimentazione artistica solo se plasmata da mani sapienti. Mi interessa il digitale come una possibilità di linguaggio artistico da plasmare; non mi interessa di per sé, a scatola chiusa. Non mi interessa se è solamente una ripresa video di uno spettacolo dal vivo (pur importante in questo tempo se è servita a mantenere una attenzione e/o a far lavorare artisti e tecnici) o se non rimette in discussione la relazione. Per me la necessità resta rilanciare la forza generativa dei luoghi fisici. La responsabilità più grande, oggi, è pianificare subito come tornarci: più che mai in questo periodo sento il desiderio e la necessità di lavorare sulla fisicità dei luoghi per la cultura. Il luogo fisico è la forza dell’incontro, e dobbiamo trovare le modalità per accompagnare questa platea moltiplicata oltre i nostri monitor. Anche qui abbiamo parecchie invenzioni davanti su cui potremmo rilanciare con la forza le possibilità dell’incontro teatrale e artistico. Essere manichei su questo tema non serve, d’altro canto anche i nuovi media non eliminano quelli precedenti, si aggiungono, si moltiplicano, si ibridano, si aggiornano. Poi penso agli incontri che la comunità teatrale ha celebrato online al di là delle pratiche performative: alle masterclass, alle conferenze, ai laboratori. Momenti che hanno innaffiato con vigore la cultura teatrale, forse più ancora che gli spettacoli.
Immaginiamo di passare domani in zona bianca. Di cosa avresti bisogno, come direttrice artistica, per ripartire subito?
Avrei bisogno di un rito corale, che unisca il piano materiale degli eventi a quello simbolico. Avrei bisogno di lavorare sulle zone d’ombra che stanno dietro alle molte parole belle che usiamo: dietro la parola collettività, ad esempio, c’è il cono d’ombra della solitudine e delle fragilità – penso alle molte solitudini scoppiate in questi mesi. Dietro a unità c’è frammentarietà e via di seguito. Stare nelle zone cupe che questo periodo ci ha aperto, stare anche nelle zone d’ombra e da lì porre domande urgenti e urticanti sul teatro, sulla presenza degli artisti nel nostro paese (e non solo), sull’intero settore. Per non essere soli abbiamo bisogno di estendere la nostra comunità. Si tratta di una battaglia culturale su ogni fronte: teatri, biblioteche, musei, spazi sociali e culturali… dobbiamo accompagnarci fuori dalla crisi tutti insieme. Da parte delle istituzioni, avverto il bisogno che venga promosso il dialogo fra le grandi strutture nazionali e i piccoli centri. Un maggior dialogo fra Ministero e regioni potrebbe garantire una minuziosa mappatura delle realtà, rilevando chi ha tentato di reagire, di lanciare segnali, simbolici e concreti, in questo periodo.
I teatri stabili avrebbero potuto fare di più?
Le scelte strategiche dei luoghi della cultura e anche dei teatri stabili convocano in sé un’idea di teatro e di città. Wisława Szymborska diceva “Ciò di cui parli ha una risonanza, ciò di cui taci ha una valenza in un modo o nell’altro politica”. Vale anche per gli stabili: ciascuno nella specificità delle proprie risorse deve farsi carico della responsabilità di ogni azione culturale, cercando di esercitare un nuovo progetto di solidarietà artistica. Fare quadrato con le proprie comunità, ponendo al centro di questo perimetro aperto il sostegno agli artisti e alle comunità. Credo, invece, che molti si siano concentrati sul limitare le perdite, senza rilanciare al di là del pericolo. Ma mettere un cerotto sul teatro può essere un gesto soffocante. Quando penso alla solidarietà artistica penso ad esempio al gesto del Teatro delle Albe: una divisione di risorse che è stata moltiplicazione. Se gesti simili fossero stati più frequenti, anche da parte di chi si è trovato a ricevere finanziamenti ingenti, questo avrebbe potuto essere un periodo di grande cambiamento per il teatro. Un tempo avremmo detto: di rivoluzione. Non parlo di una solidarietà assistenzialistica: la solidarietà artistica può essere uno strumento formidabile per l’innovazione progettuale.
Secondo te alla riapertura ci sarà più o meno pubblico di un anno fa?
Alla riapertura mi aspetto un segno di affezione festosa. Come aveva detto nei mesi scorsi Gerardo Guccini, dobbiamo preparaci alla festa che verrà. Mi aspetto una partecipazione anche emotiva molto intensa, ma poi bisognerà lavorare sulle sconnessioni di un tessuto che è stato indubbiamente e fortemente lacerato. La partecipazione del pubblico dopo la riapertura sarà anche un metro per valutare la qualità del lavoro dei teatri nei loro territori. Tenuto conto delle grandi disomogeneità locali, capiremo quanto i teatri, ciascuno secondo la propria vocazione, abbiano saputo costruire, o almeno non disperdere, la loro comunità. La tua domanda può estendersi anche al cambio di composizione del pubblico: ci sono nuove frange di pubblico che si sono avvicinate alla scena, magari attraverso la rete? Come ha reagito il pubblico più giovane all’assenza del teatro? È soprattutto a questo nuovo pubblico che dobbiamo rivolgere la promessa di rincontrarsi, è soprattutto per questo pubblico che dobbiamo riempire quella promessa di fascino e di necessità.
Oggi in Italia non abbiamo nemmeno una donna direttrice di un Teatro Nazionale. Ha colpito, negli ultimi giorni, che nemmeno venga grammaticalmente declinata, nei bandi, questa possibilità (è il caso proprio di Ert). In tale contesto, come declini la tua responsabilità di donna e direttrice artistica?
È vero: le donne abitano generosamente i teatri, ma non ancora le direzioni (esistono però direttrici nei Tric ndr.). D’altro canto è un problema che investe ogni ambito dirigenziale nel nostro Paese. E il linguaggio, come sempre, ne è specchio. Ti rispondo con Elfriede Jelinek, premio nobel per la letteratura nel 2004. Alla domanda “lei è femminista?” rispose “Cos’altro potrei essere?”. Ci metto tutto il mio impegno etico, giorno per giorno, a sostenere una cultura dei diritti, in un arco che comprenda gesti e azioni, passando per il sostegno convinto a progetti di coraggio e solitudine diffusa che spesso connotano il percorso di riconoscimento di artiste e operatrici.
Andrea Zangari
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