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Alessandra Cristiani. Oltre la nudità del corpo

Intervista con l’artista e performer Alessandra Cristiani. La danzatrice recentemente ha anche partecipato al festival Teatri di Vetro, nella versione online, con una trilogia di lavori su Schiele, Bacon e Rodin.

«Essere in dinamica» è il primo appunto che prendo salutando Alessandra Cristiani che mi risponde dall’altro capo del telefono in una mattina di fine anno. Un anno, il 2020, al quale penso spesso – e forse me ne sono convinta a torto – come fosse un primo e ultimo, totalmente scardinato da una linearità: un anno a sé. E allora questa dinamica alla quale accenna Alessandra è un pensiero che accolgo e riscopro e penso sia proprio a un’artista che al vederla in scena si è sempre colti da epifanica emozione, per cui la danza è carne che si fa corpo e poi materia in movimento. La sua nudità è sensazione, e non esposizione, capace di tradurre e incarnare la poesia vivida e turbolenta dei gesti pittorici di Schiele, Bacon e il silenzio contemplativo della scultura di Rodin. Con lei abbiamo riflettuto sul suo metodo, su queste giornate di tensione festosa, sulla scorsa partecipazione alla quattordicesima edizione di Teatri di Vetro, su ricordi e incontri; su cosa custodire di questo anno appena concluso per entrare in quello nuovo…

Foto di Chiara Ernandes

In questo 2020 abbiamo imparato a muoverci in un orizzonte dell’esperienza sintetico, sterilizzato: volti schermati da mascherine, guanti alle mani, disinfettanti alcolici e divisori di plexiglass…Dove è finita la carne, il fiato, gli odori dei nostri corpi e qual è ora la loro danza?

Mi sono sempre mossa in ambiti che ho avuto la forza di sperimentare in maniera istintiva, seguendo le mie intuizioni e procedendo per percorsi paralleli a quelli convenzionali; mai come in questo anno mi sono ritrovata a provare profonde contraddizioni: il bisogno di intercettare il mio corpo e di agganciarlo a quello altrui, è un’attivazione ora disinnescata, sospesa. Adesso uno sguardo vero e esterno è purtroppo assente nella sua natura rituale, per questo, sia come artista che come persona, l’assenza della carne mi tocca materialmente. Ho continuato a lavorare vincendo delle resistenze, ho escogitato un modo rigoroso volto a ritrovare quell’attivazione corporea in assenza dello spettatore. So che il mio lavoro mi rende migliore e in questo tempo ho avuto la possibilità di guardarmi, ascoltarmi, senza alcuna frenesia produttiva. Tuttavia mi domando spesso quale siano le conseguenze di tutto ciò, il linguaggio tra i corpi è totalmente disorientato e ci interroga: la natura umana non è una natura meccanica, non si accende e spegne a comando, non può essere dominata completamente. Spero davvero che saremo in grado di metabolizzare.

Il tuo metodo affonda le radici nella materialità del corpo secondo la danza butoh. Ai fini della tua pratica quanto di questo insegnamento ti serve conservare quotidianamente e quanto invece scegli di abbandonare?

La domanda è intrigante e mi pone delle questioni per le quali non credo si tratti esattamente di conservazione o di abbandono. Quando ho incontrato la danza butoh è stato per me un evento molto grande, in quanto sono stata presa totalmente dalla pratica e dal pensiero. Ora, da adulta, nonostante io pensi sia necessario anche l’allontanamento e il tradimento, mi rendo conto che nel mio percorso ho sempre cercato di non far morire nessun dettaglio della figura di Masaki Iwana o di altri danzatori butoh. Sono costantemente ricorsa a un’ortodossia di questa pratica e quando qualcosa mi sfuggiva ho ritrovato il centro, mettendomi nella pratica di quello che mi avevano insegnato. Negli anni ho percepito l’importanza di stare dentro l’evoluzione organica di una necessità, annusare i cambiamenti del mio corpo, le diverse percezioni e sensazioni. Più che di abbandono parlerei di resistenza allora, della capacità di poter restare dentro nonostante le difficoltà. Anche quando lo stesso Masaki Iwana ci ha chiesto provocatoriamente di non seguirlo più perché dovevamo trovare la nostra strada, proprio quando ci stavamo più avvicinando, ho sentito di non poter abbandonare nulla, perché nel butoh ho trovato il modo di svegliarmi a me stessa e raggiungere un’attenzione che non avevo rispetto al mio quotidiano. Il corpo cambia e lo devi seguire, è una questione crudele, certo, ma bisogna ritrovare questa crudeltà costantemente perché ciò che sentiamo con il corpo sono delle leve per noi stessi. “Il corpo e lo spirito vanno di pari passo”, diceva Masaki Iwana, ed è un pensiero al quale torno sempre.

Schiele, Bacon e Rodin sono gli artisti scelti nella tua Trilogia, presentata di recente a Teatri di Vetro, rispetto ai quali vorresti creare una “terza lingua viva” così come l’hai definita tu stessa nella presentazione. Cos’è questo nuovo alfabeto che li accomuna e come la tua ricerca ha incontrato ognuno di loro?

Attivarmi verso di loro è stata una necessità, volevo disorientarmi volutamente verso queste mie passioni di riferimento e con questa terza lingua viva ho voluto osare e trovare nuovi interruttori. Ho un linguaggio piuttosto definito ma volevo spostarmi dalle modalità riconoscibili del mio corpo, e in maniera molto concreta mi sono detta che lavorando attraverso di loro potevo riguardarmi, trovare altre spinte e crearmi un nuovo linguaggio. Guardando le loro opere ho segnato riflessioni e impressioni, sollecitazioni che avevo davanti i loro quadri. Bacon ha mostrato la turbolenza “fermata” del corpo, lo percepiamo dal modo in cui usava il pennello per farci sentire il ribollire dei muscoli. Cè una figurazione del nudo diversa nei tre pittori; in Egon Schiele diventa quasi una questione a sè. Per il disegno luci di Corpus Delicti, il lavoro ispirato all’opera di Schiele, ho riflettuto con Gianni Staropoli sulla possibilità carnale del nudo, rispetto alla via performativa più astratta avuta fino ad ora nel mio percorso, e che mi ha molto stimolato. Schiele ha rivoluzionato la rappresentazione della nudità maschile e femminile, questo desiderio di essere nella vita del corpo e la traduzione pittorica di questa tensione è qualcosa di straordinario. Vorrei che chi guardasse il mio corpo non guardasse solo il mio corpo, ma i suoi contorni intimi, andando oltre la nudità stessa. Purtroppo, ai meri fini della distribuzione a volte devo semplicisticamente rispondere a una domanda pratica: se aggancio il corpo nudo in questo mio modo (se lavoro con il mio corpo ndr), me lo faranno fare il lavoro?

Foto Ufficio stampa

Sempre nella spiegazione del progetto Trilogia, fai riferimento a una “danza dello spettatore”, in che modo l’atto creativo si fa trasmissione e quindi si comunica a colui o colei che guarda?

Sono arrivata a questa riflessione guidando dei laboratori. Dopo aver performato, il singolo partecipante torna al suo posto e mentre sono gli altri a essere in scena, lui o lei si distrae sempre. Perché accade? Perché non sono interessati? A me sembra una disattenzione impossibile per il mio passato da terzoteatrista che ti imponeva un rigoroso rispetto per la creazione altrui. Per questo ho pensato che dovrebbe esserci una “danza dello spettatore”, in questo modo si rilancia la responsabilità di chi fa cosa al fine di innescare quella fame da entrambe le parti. Avrei l’utopia che chi si trova di fronte a me non possa staccare lo sguardo, non per guardare me ma perché quell’esperienza è importante per entrambi, è importante essere pungolati dalla creazione. Questa crisi del teatro è passata attraverso la rieducazione dello spettatore, io credo che non dobbiamo educarlo, piuttosto dovremmo avere il coraggio di implicarlo in tematiche altre, anche scomode. Credo sia necessario ritrovare un’epicità nelle arti tutte, parlare di Schiele e Bacon ha significato questo: portare l’alone di una crisi, che non sia dimostrazione fine a se stessa.

Foto di Margherita Masé

Com’è il tuo rapporto con la resa videografica?

Quando Roberta (Nicolai, direttrice artistica di Teatri di Vetro, ndr) mi ha chiamato per propormi la modalità video dei lavori che sarebbero stati presentati durante il festival, ho reagito all’inizio con un fermo, confesso che ci ho dovuto pensare bene. Poi ho voluto incontrare di nuovo i miei materiali, starci dentro e con la residenza a Tuscania ho avuto il privilegio di lavorarci. Mi dispiaceva un po’ far debuttare Nucleo (lavoro ispirato a Francis Bacon ndr) in questa modalità ma alla fine ho accettato la sfida alla sospensione. L’esperienza di Teatri di Vetro si è rivelata fondamentale rispetto alla relazione: la regia di Michele Cinque, la curatela di Roberta Nicolai e la consulenza e pazienza di Andrea Grassi hanno sostenuto tutti i miei dubbi.

Foto di Margherita Masé

I tuoi lavori si contraddistinguono per una scrittura coreografica che aderisce al sé in maniera estremamente personalizzata e mai personalistica, tanto nei soli che nei progetti collettivi. Qual è il tuo rapporto con gli altri artisti e con curatori e ricercatori?

Innanzitutto penso di essere una persona che per il poco che fa rispetto alle proprie passioni, si reputa molto fortunata per gli incontri avuti. Tra i compagni di viaggio, la ricercatrice e docente Samantha Marenzi è tra le più tenaci, con lei ci contaminiamo, trasformiamo, è un’amicizia di lunga data proficua sia dal punto di vista personale che professionale. Penso anche a Fortebraccio Teatro, all’amicizia e all’affinità che mi lega a Roberto Latini, Gianluca Misiti, Max Mugnai, e poi Daria Deflorian, Massimiliano Civica, Fabrizio Crisafulli, Silvia Rampelli e Habillé d’Eau, Marcello Sambati… Con loro, che considero dei compagni d’infanzia del lavoro, ho potuto affinare nel corso degli anni le mie temperature artistiche. Con Clemente, David e Veronica (Teatro Akropolis ndr), conosciuti grazie all’intermediazione con Giulio Sonno, si è rinnovato il miracolo di mantenere viva l’attenzione per la disciplina del butoh e quest’anno, con l’edizione del festival in streaming, hanno riattivato questa attenzione a livello nazionale e internazionale. Il professore Raimondo Guarino è una persona silenziosamente attiva, di enorme cultura e di generosa fattività che, insieme a Samantha Marenzi e ad altri docenti universitari, ha permesso al mio lavoro di germinare organizzando lezioni e incontri all’Università, dedicandosi alla mia pratica e allo studio del butoh. Non avrei mai pensato di assistere a una conversazione con il coreografo Akira Kasai e Guarino, è stata per me una lezione. Tutti loro mi ricordano la bellezza del mio lavoro che sta proprio in questa facoltà di ascolto e monitoraggio culturale.

Foto di Margherita Masé

Cosa porterai con te di questo 2020, sia come donna che come artista?

Da donna, spero che tutti possano avere un po’ di donna dentro di loro perché la terra ha davvero bisogno di un elemento femminile. Poi mi ripeto spesso come monito, di non avere paura di vivere. Come artista, mi auguro di farmi attraversare da nuove esperienze, anche quelle rispetto alle quali potrei essere più respingente. Abbiamo bisogno di nuovi slanci e nuove utopie per il 2021.

Lucia Medri

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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