Ricomincio da RaiTre (in onda con la seconda puntata sabato 19 dicembre su Rai 3) ha catalizzato l’attenzione sulla questione del teatro in tv. Questa non è una recensione sul programma televisivo con Stefano Massini e Andrea Delogu: Graziano Graziani (giornalista, critico teatrale, scrittore e voce di Radio Tre) all’indomani della prima puntata di Ricomincio da RaiTre ha sviluppato una riflessione in quattro punti in un post Facebook: gli abbiamo chiesto di farla diventare un articolo per cominciare a ragionare sul tema.
Ricomincio da RaiTre, lo show in quattro puntate evento che ha debuttato lo scorso 12 dicembre e proseguirà fino a gennaio, è stato immaginato dal terzo canale Rai “per dare risposta ad una situazione drammatica in cui si muove lo spettacolo dal vivo in Italia a causa della pandemia” (riporto testualmente dal comunicato). E, come era prevedibile, ha fatto molto discutere. Il mondo del teatro, dopo un secondo lockdown che è stato particolarmente severo nei sui confronti, è esacerbato, fragile e molto diviso. Così l’iniziativa dell’emittente pubblica è stata giudicata ben oltre le qualità e gli obiettivi del programma. Pezzi di dibattito come la proposta del ministro Franceschini di investire su una “Netflix della cultura” (poi individuato nella piattaforma Chili), la richiesta di sostegno al settore e la possibilità che questo avvenga attraverso i media digitali e generalisti, stravolgendo la dinamica in presenza del teatro, hanno creato un cortocircuito con la trasmissione, che è forse il primo esperimento in tal senso. Sia come sia, Ricomincio da RaiTre ha certamente messo in evidenza due o tre cose sull’annosa questione del “teatro in tv” e del “sostegno al settore attraverso i media”, che probabilmente faremo bene a tenere a mente per il dibattito futuro.
1. Per fare una “Netflix della cultura” non è necessario rivolgersi ai privati, perché una “Netflix della cultura” c’è già e si chiama Rai. Se l’obiettivo è quello di creare una piattaforma tv che dia spazio al teatro, basterebbe cambiare i palinsesti delle reti pubbliche oppure – se non c’è spazio in una tv generalista per il teatro raccontato in modo continuativo – utilizzare la piattaforma Raiplay in modo indipendente, ovvero autonomo: le potenzialità del digitale, dal punto di vista dello spazio, sono praticamente infinite (ma andrebbero adeguatamente supportate da strategie comunicative, per non essere fagocitate da contenuti più visibili).
2. La carrellata di artisti molto diversi tra loro, ben pensata per restituire un panorama plurale (si andava dal duo Lopez-Solenghi a Virgilio Sieni, da Glauco Mauri a Marco Paolini), ha un problema di fondo se la si osserva dal punto di vista del “sostegno al settore”. Si tratta quasi interamente di artisti affermati e con buoni riscontri economici, in grado cioè di sostenere lo shock della pandemia (parlo generalizzando, ma in buona parte è così). So di esprimere una visione di parte, ma credo che il teatro come forma d’arte sia composto soprattutto dal variegato mondo degli artisti che sperimentano in piccolo, che operano nei territori, che animano i festival e inventano linguaggi fuori da (e a volte contro) la visibilità mediatica. Questo non vuol dire che questo teatro meno visibile sia necessariamente migliore dell’altro; vuol dire semplicemente che le eccellenze emergono solo se c’è un contesto fertile in cui nascere, crescere e sperimentare i propri linguaggi (la parabola di Emma Dante – apparsa in collegamento da Palermo – è esemplare). Vuol dire avere una visione “ecologica” del teatro. Il panorama plurale offerto dal programma può essere più o meno condivisibile dal punto di vista delle scelte estetiche – nella fattispecie ha deluso alcuni, è piaciuto ad altri – ma se parliamo di sostegno al settore va rilevato che elude quasi completamente la parte più fragile del mondo teatrale, quella che andrebbe sostenuta con convinzione in un momento come questo e che la televisione – a causa delle sue logiche di “notiziabilità” – non è quasi mai in grado di vedere. Nella trasmissione del 12 dicembre quel pezzo di mondo teatrale era rappresentato esclusivamente dalla bravissima Marta Cuscunà; un’ottima scelta artistica, ma numericamente davvero poco consistente se parliamo di un intervento sistemico.
3. La televisione ha bisogno di facce note, di personaggi famosi. È un problema intrinseco al suo linguaggio e funzionamento (o almeno a come sono concepiti oggi), una caratteristica ineludibile che finisce per contraddire quanto espresso nel punto numero 2. Ho lavorato per due anni in una rete non generalista come Rai5, dove ho avuto la libertà di fare cose straordinarie, come parlare di Danio Manfredini o realizzare un documentario su Lucia Calamaro. La trasmissione a cui collaboravo aveva il compito esplicito di raccontare la scena, inclusa quella più nascosta e sperimentale, ma anche in quel caso il peso dell’assioma del “volto noto” tornava periodicamente a farsi sentire (tanto è vero che quell’esperienza non si è rinnovata). Il motivo per cui anche in un canale tematico si ricorra a una logica simile non è qualcosa di gratuito, o di automatico: la televisione ha i propri criteri di “notiziabilità”. Cambiarli significa inventare formule e spazi; non sempre è semplice e certamente non è immediato. D’altronde bisogna anche sgomberare il campo da un equivoco: non si tratta di essere “gruppettari” a sostegno del teatro più nascosto e diffidenti contro chi è riuscito a conquistare l’attenzione del pubblico (in teatro spesso la fama è conquistata sul campo, replica per replica, è quindi un fatto difficilmente discutibile); si tratta di mettere in chiaro che la classica logica televisiva sarà difficilmente rappresentativa dell’ecosistema teatrale e non risolutiva come sostegno al settore, perché tende a concentrarsi su soggetti che sono già in grado di sostenersi da soli.
4. Se questi esperimenti non saranno estemporanei, prima o poi occorrerà farsi alcune domande sul linguaggio che si utilizza in tv. Che il teatro in televisione sia qualcos’altro – e che questo qualcos’altro sia una diminutio – è evidente a tutti. È altrettanto evidente che, durante una pandemia, occorre fare ciò che si può fare senza storcere il naso di fronte ai risultati. Quindi ben vengano gli spazi. Ma se un varco nei media audiovisivi diventasse uno standard del sostegno pubblico al settore teatrale, il tema del linguaggio utilizzato diventerà ineludibile. Riprendere lo spettacolo così com’è è un automatismo dovuto all’istinto di replicare il fatto teatrale per quello che è. Va anche bene, può servire a documentare, ma c’è molto di più. Nella storia sono esistiti esempi di sguardo teatrale applicato all’audiovisivo, basti pensare a Beckett – o, per giocare in casa, agli esperimenti di ZimmerFrei; ma anche il cinema di Ascanio Celestini e quello di Marco Martinelli sono linguaggi filmici fortemente “teatrali”. Sperimentare in quel senso potrebbe essere costoso, forse, ma anche aprire nuove strade. Meno costoso, e più pratico, è invece il documentario – un linguaggio che ha due pregi enormi: la possibilità di fare archivio e memoria, con una grammatica pensata appositamente per l’audiovisivo; la capacità di connettere il mondo del cinema e quello del teatro, fuori dalle “operazioni” legate alla riconoscibilità. Il mondo del documentario in Italia e all’estero è vitale e pieno di idee; trovare un punto di connessione tra la scena e il cinema della realtà sarebbe salutare per entrambi i mondi e produrrebbe certamente un sacco di cose buone da vedere. Potrebbe, per di più, essere un primo passo verso un dialogo ancora più stretto con il cinema, anche quello di finzione. Cinema e teatro, nonostante dialoghino poco, hanno molti punti di connessione, a partire dagli artisti che lavorano in entrambi i settori. Da un’osmosi maggiore tra i due mondi avrebbero entrambi molto da guadagnare. E se fosse la televisione pubblica a propiziare tutto questo, forse sarebbe semplice che questo percorso diventi un discorso generalista e nazionale, in grado di orientare nel tempo, felicemente e in modo plurale, i gusti del pubblico.
Graziano Graziani
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