Intervista alla curatrice artistica Piersandra Di Matteo di We The People, parte del progetto Atlas of Transitions (realizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con partner territoriali). Affrontiamo qui questioni e riflessioni che legano insieme l’arte e l’attivismo, l’ascolto estetico e l’azione politica.
“Sentire” non è sinonimo di “ascoltare”. Tutti noi sentiamo ogni giorno una miriade di voci e di suoni, senza però prestarvi l’attenzione critica e riflessiva che merita. Soprattutto, non ci apriamo davvero a ciò che rilascia queste sonorità. Le azioni performative con il loro portato fisico e inclusivo forse ci permettono finalmente di passare dal piano della percezione bruta a quello dell’ascolto consapevole.
Questo tema è affrontato da We The People, afferente al progetto biennale Atlas of Transitions (2018-2020), co-finanziato dal programma Creative Europe, di cui ERT (Emilia-Romagna Teatro Fondazione) è capofila. Le attività di performance, incursioni radiofoniche, talk, film e workshop si sarebbero dovute tenere a Bologna dal 2 al 7 dicembre, ma a causa dell’emergenza pandemica si svolgeranno solo in parte da remoto. Abbiamo dialogato con Piersandra Di Matteo alla vigilia di questa edizione d’eccezione.
Il progetto internazionale Atlas of Transitions Biennale ha attraversato tre edizioni: Right to the City (2018), Home (2019) e Performing Resistance (giugno 2020). Con il festival We The People, si giunge alla quarta e ultima. Come si rapporta la presente edizione con le precedenti e cosa aggiunge di specifico?
Il suo obiettivo è sempre stato l’investigazione del fenomeno migratorio contemporaneo, attraverso l’attivazione di contro-narrative e di reciprocazioni tra cittadini europei, migranti, richiedenti asilo, minori non accompagnati, che consente di allargare il nostro spazio immaginifico in collaborazione con sei partner europei. Sin dalla prima edizione, Right to the City, l’urgenza è stata mettere in relazione la migrazione con la città, o meglio con la “vita urbana”, per citare Saskia Sassen. Nell’edizione Home, abbiamo poi lavorato sul concetto di radicamento/sradicamento, tentando di mettere in crisi la relazione casa/famiglia/patria (su questa edizione qui un’intervista a cura di Sergio Lo Gatto). Con Performing Resistance di giugno 2020, terzo atto della Biennale, abbiamo organizzato invece una summer school che facesse da sponda tra la riflessione teorica e la prassi. Questo annodamento ha portato a un programma online che ha coinvolto studiosi e artisti internazionali, che si interrogavano su temi come il nesso tra arte e attivismo, o la rappresentazione dei corpi e delle politiche di inclusione. Ciò che caratterizza We The People rispetto alle precedenti edizioni è che essa è influenzata da quell’evidente cambio di paradigma che stiamo vivendo, di cui ha di recente parlato il filosofo Paul Preciado. Viviamo delle trasformazioni radicali che inevitabilmente riguardano noi e le arti performative, perché l’elemento intaccato è proprio la dimensione della prossimità e della vicinanza corporea. È evidente che le strategie di contenimento dell’emergenza e la necessità del distanziamento sociale mettono a dura prova la possibilità di esercitare questa Poetica della relazione studiata da Édouard Glissant (Quodlibet 2007), che è una politica del contatto, della prossimità, dell’inclusione.
Il tema centrale di quest’anno è l’ascolto, o meglio la ricerca di uno «spazio acustico» e la relativa creazione di «micropolitiche dell’ascolto». Tale esigenza nasce in opposizione al distanziamento dovuto all’emergenza? O una riflessione sulla natura dell’ascolto sarebbe stata fatta anche in condizioni “normali”?
L’ascolto e la vocalità sono ambiti della ricerca che conduco da tanti anni, soprattutto in ambito accademico. Un tema che mi sta molto a cuore e che ha due tensioni: la prima è lo sforzo di salvaguardare uno spazio immaginifico, lo spazio acustico tutela, infatti, la dimensione dell’immaginazione; la seconda tensione riguarda la dimensione più politica dell’ascolto. Occorre rivendicare il diritto non solo di prendere parola, ma di essere ascoltati, pretendere il diritto a una giustizia acustica, creare spazi in cui pensieri e pratiche delle realtà marginalizzate arrivino all’orecchio di tutti. Il campo o spazio acustico va occupato con prese di parola, assemblaggi sonori, narrazioni che sono tendenzialmente silenziate nel dibattito pubblico. Mi sembrava insomma che l’edizione We The People di Atlas of Transition potesse mettere al lavoro questa peculiare e duplice accezione dell’ascolto.
Detto ciò, il festival è certo condizionato dalle limitazioni che stiamo vivendo. Tutto il lavoro messo in campo, tutte le attività di condivisione collocate nella trama della vita urbana e quindi i progetti partecipativi sono stati rallentati, in alcuni casi addirittura interrotti. Nel programma di giugno avevamo attivato processi che a settembre-ottobre ci sembravano ancora possibili. Se c’è una cosa che il cambio di paradigma attuale rende evidente, è che c’è un’accelerazione del lavoro materiale degli operatori culturali che costringe a una costante riprogettazione. Ci siamo dunque domandati che cosa potesse unire prossimità e distanza. Ci è sembrato chiaro che proprio l’ascolto o l’attivazione di «micropolitiche dell’ascolto» tramite il canale digitale potessero fungere da collante. E questo anche nella consapevolezza che stiamo assistendo a un fortissimo livello di saturazione visiva, di occupazione del campo ottico in particolare, il che rende l’insistenza sulla dimensione acustica ancora più incisiva.
Programmaticamente, We The People lascia spazio ai suoni provenienti da persone, culture, tradizioni diverse da quelle europee. In particolare, si creano «spazio acustici» in cui sono le voci e sonorità di donne migranti, o dei paesi ai margini, a farsi luogo – penso in particolare alla performance acustica Sharing Spoken Poem della poetessa ugandese Carolyne Afroetry. Si può dire che la selezione di questo materiale sonoro favorisca un decentramento delle nostre abitudini percettive? In particolare, delle abitudini tipiche di un ascoltatore maschile, eurocentrico, imbevuto di valori occidentali?
Ti ringrazio per questa domanda perché cogli al cuore l’operazione che abbiamo tentato di fare. Abbiamo provato nelle scorse edizioni di allargare lo sguardo – in questo caso di allargare l’orecchio – a sonorità, assemblaggi, vocalizzazioni, narrazioni marginalizzate e soprattutto non eurocentrate. È vero, c’è una forte componente di vocalità femminile, tanto che l’edizione Home ospitava solo artiste donne. La sintonizzazione con l’universo femminile e femminista è stata una costante che ancora oggi ci sembra importante valorizzare. Potremmo addirittura definirla come l’asse portante di questa edizione di Atlas of Transition, forse la sua colonna spinale. La possibilità di dare ascolto a universi sonori non eurocentrati e non etero-normati consente soprattutto di inserire nel dibattito pubblico italiano dei temi che sono rimossi.
Il caso di Carolyne Afroetry è in tal senso emblematico. È una poetessa performativa che sta facendo un grandissimo lavoro in Uganda per la diffusione della poesia femminile ugandese, che lavora molto sul gap di genere. È un’attivista femminista che indaga proprio i temi della rappresentazione del corpo femminile, della feticizzazione e sessualizzazione della donna africana. Abbiamo attivato questo dialogo con Carolyne grazie alla realtà AfroWomenPoetry, che si propone di far conoscere la poesia femminile africana fuori dall’Africa.
L’esempio di Carolyne ci consente di spiegare anche come il nostro lavoro è stato mutato a causa della pandemia. Il progetto iniziale era di creare a Bologna un coro urbano composto da più di 300 persone tra abitanti, cittadini, migranti e membri delle comunità straniere. Attivammo una call da cui ricevemmo risposte entusiaste da una larghissima fetta della città e avevamo chiesto a Carolyne di concepire una poesia che potesse essere invocata, o messa in voce, da una moltitudine di cittadini. Avevamo anche previsto un laboratorio di canto sensibile (Sharing Practices | A Forgotten Tune), condotto da Meike Clarelli e Davide Fasulo. Il primo lockdown ha purtroppo bloccato il processo. La poesia di Carolyne è però rimasta ed è diventata una canzone, una partitura vocale, grazie sempre all’intervento di Meike Clarelli e Davide Fasulo. Sharing Spoken Poem sarà diffusa tramite tre emittenti: Radio India di Roma (con cui sabato 5 creeremo un palinsesto condiviso), Radio Panic di Bruxelles, Radio Grenuille di Marsiglia. In un certo senso, le narrazioni radiofoniche attraversano, punteggiano l’Europa nei suoi diversi contesti.
Ciò suggerisce un po’ la cifra con cui abbiamo lavorato in questi anni, attivando varie alleanze. C’è quella locale con le realtà di Bologna che si occupano di accoglienza. Ad esempio, lo sforzo di attivare il laboratorio di canto sensibile ha richiesto un tavolo di lavoro con associazioni che si occupano soprattutto di accoglienza femminile o con associazioni straniere, dalla peruviana alla marocchina, in collaborazione con il Centro Interculturale “Massimo Zonarelli”. C’è poi l’alleanza tra due teatri nazionali (l’Arena del Sole di Bologna e il Teatro di Roma), che si sono scambiati sonorità vocali e ascolti, più che produzioni. Infine c’è l’alleanza internazionale, attestata dal rapporto creatosi con AfroWomenPoetry e con le emittenti radiofoniche straniere.
E a proposito degli individui marginalizzati?
Credo sia importante mettere in evidenza il lavoro della regista argentina Lola Arias, che cura una ricerca che va in scena a Bologna da più di un anno e mezzo. Nel festival We The People, avrebbe dovuto aver luogo la performance Lingua madre, che sarà sostituita da Voci da Lingua madre. Nove abitanti di Bologna raccontano, attraverso percorsi di auto-narrazione, il loro rapporto con la dimensione della maternità. Se ne ha una visione molto larga, complessa, che mette in campo argomenti rimossi della modernità. Mi riferisco in particolare alla legittimazione della maternità non biologica, alla surrogazione, ma anche alle relazioni tra maternità e migrazioni. Come vivono le madri migranti? A cosa vanno incontro? Ma Lola Arias dà anche voce a donne che desiderano non avere figli, che optano per la scelta child free. Voci da Lingua Madre è un’altra occasione per consentire narrazioni su temi marginalizzati nel dibattito pubblico.
Vorrei anche ricordare la collaborazione che abbiamo con Rokia Bamba. Lavora col collettivo Troubled Archives di Bruxelles, che si occupa delle rappresentazioni coloniali e dei danni che queste portano con sé. Rokia fa una ricerca sul tema anche dal punto di vista sonoro, tanto da condurre masterclasses per artisti radiofonici. Da noi, al posto del dj set Our Silences Will Not Protect Us, ne terrà una dal titolo Say it Loud: A New Orgasmic Paradigm, che crea un’alleanza con il MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna) e verrà in parte trasmessa in streaming sulle frequenze di NEU Radio.
Un’ultima questione, che formulo riprendendo uno spunto da John Cage. Questo filosofo-musicista sosteneva che il silenzio non esiste. Esistono solo suoni che percepiamo e suoni che ci sfuggono, o perché si trovano di per sé sotto la soglia della sensazione, o perché non prestiamo loro attenzione. Nei momenti di raccoglimento silenzioso, sempre secondo Cage, noi riusciamo a sentire alcuni di questi suoni di norma inudibili. Se ciò è vero, la creazione dello «spazio acustico» di cui parli potrebbe coincidere con l’evocazione di una zona di silenzio? Mi pare che il lavoro NEKROPOLIS di Arkadi Zaides vada proprio in tale direzione.
Sono molto d’accordo con quello che dice John Cage. Il silenzio è percepibile solo attraverso il rumore, una rarefazione acustica che consente di percepire e di allertare lo stato di attenzione. L’attenzione ha a che fare con la politica dell’ascolto.
Anche la collaborazione con NEKROPOLIS mi sembra assolutamente pertinente per più di una ragione. In termini sociologici, si tratta di una ricerca-azione sul campo, che annoda ancora teoria e pratica, attraverso strumenti diversi: l’investigazione della pratica forense, gli strumenti della medicina legale, l’analisi scientifica, l’indagine nel senso classico del termine, il lavoro negli archivi, ma anche tutta una serie di processi di embodiement che sono più vicini alle pratiche coreografiche. Arkadi vuole compiere un rito laico di compianto per i migranti morti nel tentativo di attraversare l’Europa, spentisi mentre varcavano il confine tra Italia e Francia, deceduti nei centri di accoglienza, insomma per alcune voci silenziate in maniera radicale e assoluta. E i loro corpi sono nella maggior parte dei casi sprovvisti di nome. Il lavoro di Arkadi tenta così di rimediare alla mancata identificazione delle vittime e muove un atto di protesta contro le politiche europee che hanno smesso di occuparsi del problema, di informare i familiari per permettere loro di piangere i propri cari. Il titolo NEKROPOLIS rinvia non a caso all’inizio delle civiltà e alle sue prime pratiche, cioè al culto dei morti. Un culto che non è più consentito oggi ai migranti.
La dimensione del silenzio è quindi connaturata a questa ricerca di dare nome e voce a questi corpi. Ne segue che, dal punto di vista acustico, il lavoro è estremamente rarefatto. Tenta di produrre uno stato di allerta che è inteso come uno stato affettivo, non nel senso generico di emotivo-sentimentale, ma proprio uno stato affettivo che possa convocare lo spettatore. Noi vediamo come il rito si articoli attraverso la relazione tra una tecnologia fredda (come quella cartografica o degli strumenti di Google Earth per geolocalizzare i corpi) e il percorrimento fisico in soggettiva. NEKROPOLIS attua infatti un processo di incorporazione delle persone che fisicamente si recano davanti ai luoghi di sepoltura o per disegnarne il nome o per un atto di devozione laica. Questo passaggio, questa dimensione del camminare con i passi sul selciato, tra i cimiteri, nelle zone improbabili dove questi corpi sono sepolti o abbandonati, predispone la possibilità, mediante l’esposizione a una sotto-eccitazione acustica, di riconsiderare quanto sia importante il gesto dell’ultimo saluto, che diventa poi nella performance un atto collettivo.
Enrico Piergiacomi