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Dal Salento alla Basilicata: il carcere e il teatro, un salto nel vuoto

Intervista ad Antonella Iallorenzi della Compagnia Petra sulle pratiche del teatro in carcere e sulle difficoltà di lavoro in questo momento di stallo, tra Basilicata e Puglia.

Prima dell’ulteriore stop allo spettacolo la compagnia teatrale Petra ha organizzato una proiezione live dell’esito del loro ultimo laboratorio in carcere, terzo capitolo ormai di TOIL, “un progetto culturale che mette insieme teatro carcere e società civile”. Abbiamo intervistato Antonella Iallorenzi per capire come sia nata e cresciuta e come stia affrontando questo momento specifico la loro realtà di lavoro per-formativo.

Foto Lia Zanda

Poco prima della chiusura dei teatri avete realizzato la proiezione live sulle mura esterne del carcere di Potenza di Bermudas Out/In a seguito di un progetto laboratoriale con Philippe Barbut (gruppo mk). Lo si potrebbe guardare come un doppio scavallamento del concetto di limite e dei confini della fruizione, sia legati al contesto carcerario sia determinati dalla situazione generale attuale…

Il nostro progetto è ripartito ad ottobre. Ne avevamo uno che sarebbe dovuto terminare a marzo con un evento “corposo” e  ben sedici repliche. L’emergenza sanitaria ci ha bloccati al debutto, appena finito il montaggio tecnico ci hanno comunicato l’impossibilità di entrare. Questo ha creato un vuoto, un blocco e un’emotività da parte di tutti noi, ma anche degli agenti che avevano visto la genesi e lo sviluppo di tutto il percorso. Era rimasta una tensione che abbiamo ritrovato ad ottobre. Non è stato possibile ripartire da dove eravamo rimasti, questo il carcere ce lo dice sempre, perché non c’erano più gli stessi attori, ne erano rimasti solo tre e ci hanno subito spiegato che non sarebbe stato possibile fare alcuna prova aperta. A quel punto bisogna contrattare per raggiugere l’obiettivo e ci si trova a riformulare il percorso in pochissimi secondi. Il primo pensiero è stato portare i detenuti nel teatro della città, per poter avere il pubblico mantenendo il distanziamento e garantendo tutte le norme, la risposta è stata un “no”, anche dato il momento particolare. Ho proposto allora la diretta streaming e così siamo riusciti a trovare una soluzione. All’inizio doveva essere una proiezione in un luogo della città (una sala, un teatro, …), invece poi facendo un giro intorno al carcere abbiamo trovato lateralmente uno spazio perfetto per le nostre esigenze. Quindi, sottolineato l’altissimo valore simbolico che avrebbe avuto l’utilizzo di quello spazio, siamo riusciti ad ottenere l’approvazione, ma non è stato affatto facile, anche dal punto di vista tecnico, garantire una proiezione ottimale. Lo scopo era mostrare il lavoro virtuosissimo di Philippe con i nostri detenuti e non potevo arrendermi all’idea che restasse chiuso lì e non avesse spazio, aria, visibilità perché era assolutamente patrimonio comune. Siamo riusciti a fare in qualche modo innamorare di questa follia tutti, dagli agenti ai detenuti che hanno lavorato per valorizzare uno spazio da utilizzare anche in futuro. Abbiamo fatto un lavoro di coinvolgimento di persone a noi vicine, attraverso una campagna di comunicazione, e poi abbiamo trovato anche un interesse di persone del quartiere assolutamente inedito.

Foto Lia Zanda

La vostra è una realtà di teatro in carcere forse storicamente meno conosciuta al pubblico nazionale rispetto ad altre esperienze similari. Come nasce e vive quindi nella specificità del territorio e con quali caratteristiche?

La primissima esperienza di Teatro Petra in carcere nasce da una mia formazione. Negli anni in cui lavoravo e vivevo a Koreja ho fatto un master di Teatro nel sociale al DASS, alla Sapienza di Roma, all’interno della stessa facoltà in cui mi sono laureata. Volevo una specializzazione di teatro e scuola e invece ho fatto una tesi su teatro e carcere, mi sono trovata a scoprire un mondo. Inizialmente il tipo di lavoro che facevamo era vicino a quello impostato da Armando (Punzo n.d.r.) nella sua compagnia, cioè centrato sull’aspetto poetico più che su quello terapeutico. A me nello specifico ha sempre interessato la capacità maieutica del teatro e dell’artista di generare un pensiero, piuttosto che il contrario. Abbiamo iniziato qui in Basilicata anche perché avevo banalmente vinto un premio della Regione e mi sono presentata all’allora direttore del carcere. All’inizio abbiamo dovuto conoscere e fare patti con l’area trattamentale, con l’area pedagogica, con gli agenti, ad uno ad uno, stabilendo un reciproco rapporto di rispetto. Siamo quindi entrati in relazione con le associazioni di settore che lavoravano già a Potenza e ci siamo accorti che il pubblico degli eventi delle altre associazioni del sociale era molto chiuso, molto ristretto. Abbiamo iniziato ad allargare il target e generare una nuova visione per fare in modo che chi pensasse al carcere non lo facesse solo per gli arresti, gli scioperi del personale o altre cose simili, ma che a Potenza e nel circondario in cui riusciamo ad impattare ricordasse anche alcuni elementi legati alla nostra esperienza con una campagna di comunicazione. Utilizzando proprio gli stereotipi legati alla vita carceraria e affermando il pregiudizio, ci abbiamo giocato su con una grafica e dei colori pop, per “svecchiare” quel luogo e dargli un’altra immagine, abbiamo puntato sulle scuole superiori, le andavamo a visitare classe per classe e invitavamo i ragazzi. Siamo stati fortunati a vedere unirsi a noi altre persone, come ora una coreografa, appena tornata dall’Olanda, Mariagrazia Nacci, che sta investendo su Potenza. Il fine è sempre la creazione di un’opera d’arte, non chiediamo mai ai detenuti di parlarci del loro reato, rilanciamo sempre.

Foto Lia Zanda

Siccome il carcere, così incline a scoprire alcune aree di fragilità dell’essere umano, è diventato per noi un luogo di sperimentazione, ho sentito il bisogno di aprirlo non solo ad altri che ne beneficiassero, ma sentivo il bisogno personale di essere “alimentata” da qualcun altro. Così mi è venuto in mente di far entrare degli artisti che avessero già affermato una poetica e di far loro condurre dei laboratori all’interno del carcere, un luogo chiuso, disturbante, con caratteristiche imprescindibili, ma anche un luogo, potente, di grandi contraddizioni, di grandi cortocircuiti. La prima è stata Simona Bertozzi, una figura così eterea, a lavorare conducendo un laboratorio intensivo integrato tra venti adolescenti del liceo coreutico e cinque detenuti per quattro giorni. In principio ero timorosa e molto tesa perché non sai mai cosa può accadere quando lavori con certi livelli di emotività, ma l’idea progettuale era molto forte. Ricordo che i ragazzi, una volta entrati in carcere, guardandosi intorno, rimasero stupiti di trovarsi in una vera sala e della “prontezza” dei nostri detenuti, al termine del primo giorno avevano fatto una classe di danza con loro, quindi quelle barriere o i pregiudizi si erano annullati in un secondo, nel qui e ora. Da lì abbiamo capito che questa era la strada perfetta per come volevamo sviluppare il nostro pensiero sul carcere e la parte artistica. Poi è arrivata Silvia Gribaudi che ha condotto solo con il gruppo dei detenuti, un lavoro prorompente, divertente. Insomma credo che il nostro sia un approccio poetico rispetto al linguaggio performativo e della danza, e che la specificità che abbiamo sviluppato nel tempo sia la commistione, ovvero dare la possibilità agli artisti di vivere un’esperienza abbastanza forte e plasmante, mentre per noi è vitale un’apertura anche per quella rottura degli stereotipi che negli ultimi anni ci siamo accorti si sta modificando. La differenza la fa sempre la qualità dell’approccio, anche rispetto al risultato finale, io e noi abbiamo bisogno attraverso queste esperienze di alimentare in primis il nostro sguardo.

Foto Lia Zanda

Qual è il contesto in cui lavorate?

Nonostante siano passati otto anni dal nostro primo progetto, cerchiamo sempre dei finanziamenti che ci permettano di avere una continuità, per noi è fondamentale. Questa continuità è stata indispensabile all’interno della casa circondariale di Potenza, nel tempo abbiamo sperimentato a piccoli gradini alcune azioni. Quello di Potenza è un carcere non di massima sicurezza, dove ci sono detenuti per reati minori e una media detentiva tra i cinque e i dieci anni al massimo. Questo ha una bontà da un lato perché permette più “concessioni”, dall’altro lato però c’è un continuo in e out per cui dobbiamo sempre ricalibrare il gruppo, anche se ci sono presenze “fisse” magari tra persone con pene più lunghe. La fiducia guadagnata presso la casa circondariale di Potenza è stata fondamentale in un contesto in cui siamo “anomali”: nonostante ci siano ormai trent’anni di esperienza di teatro in carcere in Italia, se tali realtà non vengono vissute in concreto negli istituti,  non si verifica un’assimilazione per osmosi delle buone pratiche, resta comunque la necessità di un percorso di avvicinamento. Perciò la prima volta non abbiamo avuto nessun pubblico, la seconda volta solo il comandante, la direttrice e gli operatori, poi abbiamo aperto a pochissimi invitati eccezionalmente… Loro stessi non sapevano come fare. Ci siamo iscritti al Coordinamento Nazionale Teatro Carcere anche per avere uno scambio con i colleghi rispetto alle procedure, all’ingresso di familiari o giornalisti.

Come fare teatro, in un modo distintivo come il vostro, interagisce con il concetto di “periferia” teatrale e culturale?

Il lavoro in carcere si unisce al nostro lavoro come compagnia, che ha focus anche nelle produzioni, ma soprattutto nelle residenze artistiche in una regione dove non c’è l’articolo 43 e dove ci impegniamo  a prescindere dai finanziamenti ministeriali. Io e Angelo, direttore tecnico e mio marito, vivevamo e lavoravamo a Lecce a Koreja, un posto con un respiro e una caratura europei e in cui si ha modo di imparare tutto e da cui si parte per luoghi diversi. Lì ho assorbito l’idea di approccio imprenditoriale a una compagnia e l’organigramma, ho imparato che una realtà periferica può, attraverso rapporti da costruire negli anni, creare la propria identità. Poi un momento di stanchezza e il bisogno di diventare autori ci ha portato a puntare su questa periferia, non senza una dose di follia: pensa che io ho scoperto di essere incinta della nostra prima bambina a ottobre e a gennaio eravamo già in Basilicata. Abbiamo fatto un salto nel vuoto. Siamo arrivati qui nell’anno in cui abbiamo saputo che Matera sarebbe stata Capitale Europea della Cultura nel 2019, nel 2015 è arrivata la legge per lo spettacolo regionale che finanzia varie realtà della cultura, a Satriano (di Lucania n. d. r.) c’è un teatro di duecento posti, ho iniziato a lavorare in carcere, abbiamo creato Rete Teatro 41 e iniziato a lavorare sulle policy, Matera ci ha dato le opportunità per sognare in grande e realizzare i nostri progetti usando tutte le nostre competenze. Rete Teatro 41 ad esempio è importantissima, ci permette quanto da soli non possiamo fare, negli anni alcuni progetti ci hanno portato a viaggiare in giro per l’Europa, un lavoro in cui non ci confrontiamo tanto sulle poetiche di compagnia, ma su come possiamo promuovere e farci sentire a livello ministeriale, regionale, internazionale.

Foto Lia Zanda

Fuori da qualunque retorica, rifaresti la scelta del “ritorno”? Cosa pensi di aver guadagnato e cosa pensi di aver perso?

Non ho mai sentito la scelta di questo luogo come un limite, lo rifarei, sempre, non me ne sono mai pentita. Abbiamo lavorato, senza fermarci mai e questo ci ha restituito la conferma di come puntare su questo territorio sia stata la scelta giusta. Ognuno ha un posto al sole, un luogo in cui il proprio stare si trova bene: per me è stato il Salento per molto tempo, quando poi ho capito che avevo bisogno di mettere radici pur continuando a fare teatro e proseguendo il mio lavoro, l’unica possibilità era casa mia, un contesto in cui le cose mi parevano ancora possibili, in cui se devo provare il sindaco mi mette a disposizione il teatro, in cui chiamo il carcere e porto a casa un progetto, in cui riesco a gestire rapporti umani, altrove sarebbe impossibile. Per il nostro progetto di residenza qui, che ci dà enormi soddisfazioni, abbiamo allargato il nostro lavoro su Satriano e il circondario, facciamo ogni anno un bando nazionale e selezioniamo due compagnie che vengono in paese col loro spettacolo. Abbiamo un’apertura costante, attiriamo dal “centro” le persone con cui abbiamo voglia di condividere un percorso, sperimentare o intessere un rapporto. Le difficoltà non le nego: in Basilicata le scelte politiche a tratti ci portano a momenti di grande sconforto o depressione. Il territorio è spesso sguarnito di politiche di sostegno adeguate al settore teatrale in forte crescita negli ultimi anni. Più volte la nostra Regione negli anni è stata oggetto di fallimenti dovuti alla programmazione teatrale e molte compagnie hanno perso imponenti cifre, compresa la nostra. La gravità di questa situazione non è solo economica ma culturale, se pensi che, ad esempio, i miei figli non vedono uno spettacolo di teatro ragazzi da tre anni. La mancanza di politiche adeguate è per noi ora una nota di grande difficoltà: abbiamo dato prova di essere in grado di gestire progetti medio-alti e avremmo solo bisogno di economie, di una politica che ci sostenga per continuare a fare il nostro lavoro, con le scuole, in carcere, sul pubblico. Le difficoltà impattano però con la convinzione della scelta del luogo. L’unico motivo per cui abbiamo una sede operativa anche in Salento da qualche mese è questo, per provare a tenere aperta qualche altra possibilità.

Foto Lia Zanda

L’hai già nominata più volte: come avete vissuto la dimensione di Matera 2019, cosa ha generato? E com’è stato poi il contraccolpo dell’anno successivo in cui il decremento della gittata evenemenziale è stato accresciuto in modo esponenziale dai blocchi e dalle chiusure dovute all’emergenza sanitaria?

Abbiamo iniziato nel 2018 e siamo stati selezionati tra i ventisette project leade (pl) che hanno fatto parte del progetto di Matera 2019. Tra queste ventisette organizzazioni lucane di diversa natura c’era chi si occupava di musica, chi di arte contemporanea, chi di teatro, chi di cinema. Il percorso di avvicinamento è stato accompagnato da Arianne Bieou, la nostra manager culturale, attraverso un processo di cocreazione, un percorso con formazioni e step di affinamento delle nostre azioni tematiche: i workshop erano legati a temi come la direzione artistica, il partenariato europeo, la creazione dal basso… Per la prima volta c’è stato un confronto tra i creativi lucani, per la prima volta eravamo insieme a fare un percorso di crescita di competenze, per cui se oggi parliamo di policy, di public engagement o di cocreazione tutti capiamo cosa siano e questo è stato importantissimo per dare una spinta e un motore in tutta la regione. Le organizzazioni non erano solo di Matera, bensì di tanti luoghi piccoli o grandi dove ci sono dei “folli” che sviluppano pensieri e progetti e che adesso sono, siamo, ancora in contatto. Abbiamo fondato un comitato per cercare di non disperdere quanto accaduto e lavorare sulla legacy, che era il compito della Fondazione, disatteso. Stiamo continuando a lavorare sulla forza di una rete multidisciplinare nelle competenze.

Foto Lia Zanda

La situazione attuale come incide oggi sul vostro lavoro?

In questo momento per bontà della fiducia di cui sopra continuiamo a condurre il laboratorio in carcere. Il comandante, quando c’è stato il blocco del settore spettacolo, mi ha fatto presente come, a differenza di marzo, non gli fosse giunto alcun divieto all’ingresso di operatori esterni, chiaramente rispettando tutte le regole. Mi ha sottolineato come il nostro fosse un lavoro, quindi, grazie a tutti i soggetti coinvolti nella Casa Circondariale, continuiamo i laboratori ed è pazzesco perché conduciamo un gruppo libero: entro, mi metto vicino al mixer audio e resto a distanza, con la mascherina, mentre loro no, sono covid free, tra loro possono baciarsi, abbracciarsi, toccarsi. Così conduco un laboratorio con persone a cui è possibile tutto quanto a noi è vietato, e questo accade in carcere. Continuiamo con i nostri “esercizi in libertà”, li abbiamo chiamati così. Tra poco iniziamo una campagna di comunicazione in cui raccontiamo com’era prima condurre un laboratorio e come abbiamo ancora la fortuna di fare e poi ci dedichiamo alla progettazione delle cose per il futuro, alla stesura di progetti candidati con la rete ad alcuni bandi. Soprattutto però è un periodo in cui stiamo prendendoci il tempo per dare la giusta importanza alle relazioni. C’è una grande difficoltà di intercettare e capire quali siano le vicinanze, perché adesso la vita viaggia attraverso gli schermi e siamo bombardati, non riesco a leggere tutte le mail di cose che accadono, lo capisco, ma c’è tanta confusione. Se pensi solo alla formazione di tutti i tipi che ci viene offerta, ti rendi conto che non c’è nemmeno il tempo di dedicarsi con la giusta attenzione alle cose.

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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