La XI edizione del Festival Testimonianze Ricerca azioni di Teatro Akropolis è stata rimodulata online; gli organizzatori parlano di un risultato che ha visto oltre 6.900 visualizzazioni, collegamenti da Spagna, Francia Germania e altre “platee straniere”, incursioni cinematografiche, incontri con artisti, seminari, convegni. Intervista ai due curatori e direttori artistici Clemente Tafuri e David Beronio
Inizierei con la contingenza attuale: cosa sta accadendo e come si sta configurando per voi il lavoro teatrale? La confusione odierna forse non permette, almeno adesso, di ipotizzare un futuro ma com’è questo presente e come ci siamo arrivati? Forse anche a prescindere dall’emergenza che stiamo vivendo.
David: Prima dell’emergenza, il nostro settore viveva in una sorta di panico dettato dalla bulimia produttiva: le realtà di produzione erano diventate quasi delle fabbriche dove gli attori lavorano per realizzare spettacoli. Un sistema così accelerato ha determinato dei problemi significativi che si sono riverberati direttamente sulla qualità del lavoro e sulla difficoltà di circuitazione degli spettacoli stessi. Questo stop ci dovrebbe mettere nelle condizioni di pensare non in termini di emergenza, ma di affrontare i problemi che si sono manifestati già da prima. È importante non improvvisare e ricercare delle soluzioni sistemiche per il dopo.
Clemente: Sì, tenderei a parlare anch’io prescindendo dalla crisi, nonostante proprio la crisi ci stia mettendo di fronte a questioni complesse. D’altra parte, si tratta di problematiche che ci sono sempre state, che forse venivano affrontate con meno urgenza proprio perché indaffarati in altro. Ma la situazione era già compromessa. È bello pensare che questa emergenza possa essere colta come un’opportunità, è una cosa che si sente ripetere spesso. Per crederci sul serio bisogna avere una fiducia smisurata nel sistema, nelle persone. E di questi tempi, ma tutto sommato anche prima, mi risulta piuttosto difficile.
Durante la conferenza stampa di presentazione dell’undicesima edizione del Festival Testimonianze ricerca azioni avete detto “se la catastrofe si stabilizzasse non sarebbe più una catastrofe”, e anche “avremmo voluto evitare tutto questo”. Adesso, e alla fine di questa diversa esperienza di programmazione e di dialogo con operatori e artisti, quali sono i vostri pensieri?
David: Questa edizione ha rappresentato per noi un capitolo importante, contraddistinto da un’adesione estremamente generosa da parte di operatori, artisti e studiosi che hanno partecipato. In poco tempo, grazie agli sforzi di tutto lo staff di Teatro Akropolis e alla disponibilità degli invitati, ha preso forma un’edizione diversa ma consapevole, che ha funzionato nella sua eccezionalità e che ha anche rinnovato e confermato la vicinanza del nostro pubblico.
Clemente: Abbiamo riformulato il festival in tempi brevissimi. E questa modalità ha rappresentato un modo inedito di dare comunque voce agli artisti, di fare un passo verso di loro, verso la loro ricerca, le riflessioni sull’arte e sul momento che tutti stiamo vivendo. La catastrofe a cui ci riferivamo è priva di sistematizzazione, è un evento improvviso che non prevede nessuna possibilità di convivere con il suo manifestarsi. Possiamo convivere con le macerie che restano, non con quello che le ha prodotte. In questo senso stiamo vivendo un momento transitorio. E non credo ci sia il rischio di vivere in un futuro dominato dalla pandemia. Il fatto è che invece sembra sempre di ritrovarci al centro di un evento inarrestabile, e questo produce confusione, isteria, reazioni grottesche. Ma d’altra parte anche prima, come dicevo, si faceva fatica a mettere a fuoco i problemi del teatro inteso come forma d’arte e come sistema politico, comunitario, economico e così via.
La retorica dell’occasione – leitmotiv piuttosto abusato in questi mesi – rischia di alterare la realtà di un adattamento forzato…Per il teatro si tratta di una fase storica di rinuncia e di stallo o della possibilità di riaffermare, utilizzando altri canali di comunicazione, il suo intrinseco valore culturale e politico?
Clemente: È molto semplice. Dipende dalla tua capacità di riconoscere la natura delle cose. E non è così difficile quando si parla di quello che è sotto gli occhi di tutti. Il teatro nasce come evento vissuto, e fino ad ora questa sua natura non è mai stata contraddetta. Farlo significa semplicemente parlare di altro. È una questione di linguaggi, banalissima, ovvia, di cui si discute da sempre. Il teatro in streaming non è teatro. E non è nemmeno la documentazione di un evento teatrale. È un’altra cosa. Negare questo principio fondamentale significa mettere in difficoltà artisti, operatori, pubblico, se per pubblico non consideriamo gente che va semplicemente intrattenuta raccontandogli quello che già conosce, magari in un modo tanto idiota da farlo sentire particolarmente intelligente. Tutto cambia se invece si usano altri linguaggi e supporti per veicolare contenuti che riguardano il teatro. Convegni, seminari, incontri con gli artisti, materiali di documentazione, coinvolgimento diretto di chi si ritroverà, appena possibile, in sala ad assistere a un’opera. Qui ovviamente le cose sono diverse. Hanno appunto una natura diversa. Questo è stato il principio che abbiamo seguito nella riconversione on-line del festival. Il numero di persone che hanno seguito questa edizione rispetto agli anni precedenti, è pressoché raddoppiato. Il convegno internazionale sulla danza butoh ha registrato quasi settecento accessi da tutto il mondo. Sono numeri impensabili per un evento fatto in presenza. E sono numeri destinati a crescere, magari immaginando una pianificazione e un’organizzazione di tutto quanto fatto con un po’ più di calma.
David: Non possiamo pensare che la risposta sia nella trasposizione della scena su internet, è una scelta che non può funzionare in quanto è riduttiva nel senso stretto del termine: la scena non può ridursi a qualcosa che non salvaguardi tutta la complessità delle relazioni che la performance implica. Al contrario invece, ci sono numerosi percorsi paralleli al lavoro strettamente teatrale che spesso rimangono in ombra e che in questa situazione potrebbero essere portati alla luce. C’è un patrimonio di materiali, che non compaiono nella versione definitiva dei lavori. In una stagione o in un festival questi materiali normalmente non trovano spazi dove possano essere tematizzati, così abbiamo provato a costruire tali spazi negli incontri con gli artisti durante le serate di questa edizione on line.
Con La parte maledetta Viaggio ai confini del teatro avete scritto attraverso il linguaggio cinematografico due ritratti teatrali rispettivamente di Paola Bianchi e Massimiliano Civica. Come vi siete avvicinati a questa altra modalità di scrittura e che tipo di relazione è intercorsa coi due artisti coinvolti?
David: Il nostro obiettivo è stato quello di individuare una serie di figure che con il loro lavoro hanno messo a nudo le criticità rappresentate da alcuni punti limite del lavoro sulla scena. Le visioni di questi artisti sono complementari a un’idea del teatro che ispira, fin dalle prime edizioni del festival, il nostro lavoro di programmatori: quella che ci sia un piano sul quale, al di là delle poetiche e degli stili, sia possibile un confronto radicale tra artisti. Lo sguardo della macchina da presa costituisce un ambiente che, con elementi strutturali propri, rende possibile raccontare quel punto in cui la profondità del percorso di un artista si manifesta, e dove diventa interessante incontrarlo, anche per il pubblico. Abbiamo voluto portare alla luce certi meccanismi di visione poetica e di significato estetico tramite il montaggio: nel caso di Paola Bianchi il rapporto tra la sfera intima e quella politica. La dissolvenza creata dal testo di Massimiliano Civica recitato dalla voce fuori campo, è legata invece alla vita apparente e alla morte effettiva che sono intimamente connesse all’idea di teatro di Massimiliano. I due film sono nati da percorsi definiti specificamente per i singoli artisti, nel rispetto delle loro poetiche ma con lo scopo preciso di far emergere il tema della crisi della rappresentazione, il conflitto fra l’arte e il suo oggetto.
Clemente: In passato già ci eravamo avvicinati al linguaggio cinematografico. Ludi, prodotto nel 2018, è un film di montaggio ispirato a Pragma. Studio sul mito di Demetra, la nostra ultima produzione per la scena. In quel caso tutto nacque dalla partecipazione al progetto Oscillazioni di Roberta Nicolai. A marzo invece siamo stati obbligati a chiudere la sala, a fermare le prove e le attività di studio e ricerca in presenza con gli attori e il gruppo di ricerca. È da qui che abbiamo pensato di avventurarci in questa nuova modalità di studio e creazione. Un progetto cinematografico che riguardasse il teatro e alcuni artisti, le loro ossessioni, il loro lavoro, il loro modo di ripensare e rivoluzionare quest’arte. Paola e Massimiliano sono molto diversi tra loro per visione e rapporto con la scena. Nel caso di Paola abbiamo raccontato i suoi luoghi, la sua casa, la parte più intima del suo cammino d’artista e il modo in cui tutto questo si inscrive in una riflessione politica sul corpo. Per il film su Massimiliano siamo partiti dal testo che ha scritto per l’undicesimo volume di Testimonianze ricerca azioni. In questo articolo parla dell’impossibilità del teatro di cristallizzarsi in una forma, del suo essere vivo proprio perché è un continuo tentativo, evidentemente destinato al fallimento, di sconfiggere la morte. Il teatro, dice Massimiliano, vive veramente solo nell’incontro, nella relazione. Magari anche fuori dalla scena, nei momenti più insospettabili, durante una prova, senza il pubblico in sala. La dimensione poetica relativa a questa idea è, nel film, la tassidermia.
Qual è l’immagine del teatro e che rapporto vige tra essa e lo spettatore?
Clemente: Senza questo rapporto il teatro non c’è. Quindi non può esserci neppure una sua immagine. Bisogna chiarire piuttosto chi è lo spettatore. Ma qui è chiaro che ognuno ne ha un’immagine propria, che evidentemente prende forma dall’idea che si ha di teatro, dalla sua funzione politica e culturale. Non esiste lo spettatore assoluto, lo spettatore è l’emanazione del progetto di chi fa teatro. Per fortuna, d’altronde. Se non fosse così staremmo parlando di una massa informe senza identità, di un gregge da condurre chissà dove. Da questo gregge invece si separano delle comunità che accettano delle sfide. Ma è la complessità delle sfide che definisce l’impegno e la responsabilità di ogni singolo spettatore. In ogni caso, qualsiasi sia il teatro che si fa, credo sia significativo fare in modo di tenere sempre nella giusta considerazione chi dedica il suo tempo all’arte e alla cultura. E per farlo non basta mettere in scena spettacoli. Non in quel teatro che vuole affrancarsi dal teatro d’arte, dal teatro/spettacolo. Occorre saper distinguere tra un’azione artistica e un’azione culturale. Dove per cultura si intendono le pratiche che ruotano attorno all’opera, alla sua creazione e alla sua realizzazione. Sono momenti distinti, ma dipendenti, che danno vita a una modalità precisa di fruizione del teatro e dell’arte in generale. Lo spettatore deve avere più opportunità per avvicinarsi consapevolmente alla creazione, ai suoi lati oscuri, alla sua malia. Attraverso libri, articoli, incontri, seminari. E, perché no, anche attraverso il cinema, lo streaming e ogni altra diavoleria che però non neghi la natura per cui le cose vengono concepite e messe in atto.
David: Mettere il pubblico nelle condizioni di essere responsabile di fronte a quello che succede in scena è un modo per contribuire a creare una comunità. Essa deve essere continuamente ridefinita e arricchita, soprattutto nei momenti di crisi, che sono passeggeri ma devono insegnarci a lavorare in prospettiva. L’idea di costituire e di curare una comunità diventa un impegno prioritario e dà vita ad una progettualità rivolta a mantenere un costante rapporto con il pubblico, a investire su quelle potenzialità dell’arte che consentono di stimolarlo non solo su un piano pedagogico, ma anche su quello di un coinvolgimento esperienziale di fruizione. Cerchiamo di andare sempre oltre un teatro che si focalizza solo sull’approdo spettacolare.
Qual è la situazione attuale della politica culturale in Liguria, cosa farete nei prossimi mesi e seguendo quale approccio questa edizione confluirà nel vostro archivio?
Clemente e David: Per certi aspetti la nostra sarebbe stata una chiusura a prescindere dall’emergenza sanitaria, visto che la sala di Teatro Akropolis è in via di ristrutturazione. Quindi al momento stiamo portando avanti tutte le attività compatibili con i vari decreti. I laboratori, la produzione de La parte maledetta lavorando con altri artisti e sempre in quell’ottica progettuale. La Liguria resta una terra ai margini degli interessi nazionali, e quindi stiamo capendo come le amministrazioni locali possano intervenire a sostegno delle realtà più piccole che hanno bisogno di farsi sentire. Altro obiettivo è quello di creare dei presupposti affinché la ricerca, declinata come festival, realtà editoriale e archivio, possa trovare una collocazione in termini di riconoscimento e finanziamento: le categorie ministeriali purtroppo ancora non comprendono diverse attività che portiamo avanti.
Lucia Medri