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«Essere artisti vuol dire essere spietati col proprio tempo»

Intervista a Nicola Borghesi. Una conversazione per riflettere sull’attuale situazione di stallo data dalla pandemia e sulle possibilità del teatro.

Qualche giorno fa Nicola Borghesi, regista, drammaturgo e attore bolognese, condivideva questi pensieri con un post su Facebook: «Il problema non è aver chiuso i teatri. Il problema è averli chiusi senza chiudere le altre cose intorno, uno schiaffo che ha dato, giustamente, la stura a una serie di legittimi ragionamenti comparativi che da una parte scatenano frustrazione e odio (giusti) e dall’altra rischiano di essere spazzati via dagli eventi nel giro di pochi giorni. Un dibattito che rischia di farci perdere d’occhio altri punti dai quali dipende, in sostanza, il futuro (prossimo e venturo) anche del nostro settore». Di seguito uno scambio che germina da questi semi.

È un busto di Lenin quello che vedo alle tue spalle?

Sì! Questo sotto invece è Tito… Di fianco a Lenin c’è un altro Lenin e di fianco a Tito c’è Bulgakov. Poi, non so perché, c’è anche Kemal Ataturk, che a me non piace tanto, ma è un souvenir dalla Turchia.

Secondo te, oggi, di cosa dovremmo parlare io e te?

(ride) Del perché a tutti va bene condurre un’esistenza così miserabile quando ci sarebbero i mezzi, materiali e non, per condurne una splendida. Non so se si debba parlare del virus, che ormai è un basso continuo della nostra quotidianità. Forse varebbe la pena analizzare come si assesta quel basso fra gli altri suoni della nostra vita. In questo momento ciò che mi colpisce di più è la voglia incessante della gente di consumare, tanto da dover chiudere i centri commerciali nei weekend. Cosa ci spinge al supermercato il sabato e la domenica nel mezzo di una pandemia mondiale? Questa è una domanda interessante…

Si potrebbe portare il teatro nei centri commerciali, fra gli stand delle auto e delle compagnie telefoniche…

Che angoscia!

Tu che teatro hai visto fra la riapertura del 15 giugno e questo secondo tragico lockdown?

Durante l’estate abbiamo lavorato tanto con la compagnia, fra Lapsus Urbano e la ripresa di altri spettacoli come Capitalismo magico o Il Giardino dei ciliegi, quindi c’è stato poco tempo per vedere il lavoro degli altri. Tuttavia, per quel che ho visto, mi soprende il generale livello di rimozione che anche la nostra categoria, me compreso, ha mostrato. Il teatro è qualcosa che avviene in una “stanza” che ha delle sue regole, che non sono solo quelle della scena, ma anche quelle che regolano la relazione fra la scena e il pubblico. Fra il 15 giugno e oggi le regole della stanza sono cambiate, come le regole del nostro stare insieme. Il fatto che il cambiamento delle regole della stanza non porti ad un cambiamento sistematico delle regole della scena mi lascia esterrefatto: non riesco a credere più in ciò che avviene in scena. Non dubito che dove lo spettacolo funzioni bene, io possa dimenticare, magari per un po’, quella discrepanza, quella estrema finzione nella finzione. Ma anche in tal caso, mi interrogo sul senso e sulla qualità della dimenticanza e della discrepanza. A quel punto mi viene da dire che il teatro diventerebbe una forma di evasione. Ovviamente non dico di dover parlare solo della pandemia, come abbiamo fatto in Lapsus: dico di non ignorare l’elefante nella stanza.

foto Paolo Cortesi

Però, come dici, anche tu con i Kepler hai ripreso spettacoli pre-pandemici. Anche tu hai preso parte alla rimozione. Come te ne sei reso conto?

Sì, noi fra settembre e ottobre stavamo preparando uno spettacolo che avrebbe dovuto debuttare il 19 dicembre, sul fenomeno degli haters. Abbiamo passato una settimana in residenza a L’arboreto – Teatro Dimora a Mondaino, giorni molto intensi in cui eravamo tornati alle modalità di lavoro consuete, per la prima volta dopo mesi. Non ti nego che sono stati giorni molto belli. Poi, proprio quando si ricominciava a parlare di chiusure, mi trovavo di nuovo in residenza, questa volta solo con Riccardo Tabilio. Lì, isolati sull’Appenino bolognese, abbiamo capito che la prospettiva di quella settimana di lavoro era inattuale e inattuabile. E non possiamo dire che non lo sapessimo prima. Io, come forse sai da alcuni miei post su Facebook, amo la statistica, e la statistica ci dice che il coronavirus è altamente puntuale, perfettamente spietato, in maniera quasi struggente. Quando la curva dei contagi ha cominciato a salire con un certo ritmo dopo l’estate, sapevamo già che oggi avremmo contato cinquecento morti al giorno. Oggi sappiamo che fra due settimane sarà peggio. Dunque possiamo evitare di parlare dell’elefante, ma lui resta lì. Come dice Philip K. Dick, la realtà è quella cosa che rimane anche quando hai smesso di crederci. Mi chiedo: che qualità può avere qualunque conversazione che rimuova la realtà, la stessa consapevolezza che fra qualche settimana potrebbe esserci impedito, giustamente, di fare quella stessa conversazione dal vivo?

Già… che qualità può avere una conversazione basata sulla rimozione, a teatro?

Il teatro, a mio avviso, è un dialogo fra un artista e il pubblico. Io sono io, tu sei e tu e noi siamo ora in questa stanza. Il teatro dei Kepler è fondato sulla costante demistificazione della finzione che esso stesso crea, quindi non possiamo non parlare di ciò che al centro della nostra esperienza quotidiana, e nella nostra esperienza non è ancora normalizzata l’idea che fra qualche giorno potremmo essere di nuovo tutti chiusi a casa, o che qualche persona cara possa venire a mancare. È terribile il gioco delle parti che abbiamo messo su tutti insieme, noi compresi, scandito da adagi tipo “fra due settimane devo fare questa cosa… speriamo che ce la facciano fare!”. Naturalmente è sacrosanto il desiderio di lavorare, di portare a termine le prove di uno spettacolo già in cantiere. Tuttavia la consapevolezza del quadro più ampio getta una luce spettrale sul nostro desiderio di fare. Forse quindi l’elefante nella stanza non è il coronavirus, ma il nostro modo di stare insieme. Soltanto nel contesto feroce del libero mercato delle merci e dei desideri possiamo affermare il nostro diritto a fare ciò che vogliamo come prima, secondo un istinto conservatore e individualista, a discapito dell’esistenza di qualche persona anziana o immunodepressa. Dunque la riflessione non dovrebbe essere sul virus, ma sul perché siamo fatti così male. Perché siamo così addolorati, così incapaci, in primis io stesso, a pensare al di là della nostra ambizione, pur legittima? Come se la nostra vita fosse il solo percorso del mondo.

foto Davide Spina

Però misure più radicali ci priverebbero ulteriormente degli spazi pubblici, come i teatri, dove si sostanzia quella cura per l’altro a cui alludi. Tu usi molto i social per mantenere un rapporto col pubblico, ma non ti sembra che i tuoi messaggi, che spesso attivano piccoli dibattiti fra i commenti, arrivino sempre e solo alle stesse persone?

Certo, e sai perché secondo me? Perché non abbiamo un partito. E senza partito non si va da nessuna parte! Il partito sarebbe il luogo dove dire quelle cose nella speranza che abbiano un effetto sulla realtà. Ho realizzato che questa è la più grande dannazione della nostra generazione, la ragione della nostra solitudine. L’assenza di un partito. Quanto agli spazi pubblici, dobbiamo ricordarci che il teatro non è la sala teatrale. E qui ritorno alla residenza in Appennino con Riccardo Tabilio, quando abbiamo capito di dover cambiare direzione al nostro sguardo. Ci siamo chiesti cosa possiamo e dobbiamo fare ora? Ora che la situazione è diversa rispetto alla primavera, quando c’è stato il lockdown duro, con la sua epica, la sua magia della novità assoluta, di un orgoglio nazionale che la nostra generazione non aveva sperimentato prima (e che persino io, che non sono certo sciovinista, ho avvertito). Ora il senso della novità e dell’enormità è finito, le misure adottate sono meno radicali, le restrizioni sono diverse da regione a regione: la forza di un racconto comune è venuta meno. Eppoi questa volta, almeno per ora, non abbiamo solo la piazza virtuale da occupare. Come artista amo questa situazione creativa per le possibilità che ci riserva. Il principio giusto, secondo me, è rendere una fonte di espressività i limiti imposti per legge. Non, però, per eludere la legge e la realtà, perché la realtà ci dice che ovunque noi andiamo, rischiamo di contagiarci, anche a teatro: è un fatto.

Più del cosa fare, forse, per molti artisti in questo momento diventa problematico il come. Raccontami su cosa e come state lavorando voi Kepler, ora.

Insieme a Riccardo Tabilio ed Enrico Baraldi stiamo preparando uno spettacolo per uno spettatore solo, o al più un nucleo di congiunti, che si ordina su internet, e che arriva direttamente sotto casa tua… perché io sarò un rider. Il lavoro parte da una domanda, e la pone direttamente allo spettatore: se io sono un corriere (un attore, ma anche un corriere), tu, che mi hai appena fatto un’ordinazione, cosa avresti bisogno davvero di ricevere? Cosa vorresti che annunciasse il suono del campanello? Un filosofo marxista brasiliano, Paulo Arantes, ha proposto una bella metafora sui nostri desideri, parlando dell’aspettativa suscitata dal suono del campanello. Secondo Arantes, nel nostro sistema di mercato, vorremmo che il campanello annunciasse il portapizze. Anzi, aggiunge, ora vorremmo che annunciasse qualcuno che ci porti il vaccino, ma solo per tornare al sistema nel quale ci porta la pizza. È davvero tutta qua la vita, la speranza che nutriamo?

Ti rigiro la domanda che vuoi porre allo spettatore: tu di cosa hai bisogno, come artista, adesso?

Avrei bisogno di qualcuno che faccia qualcosa di disinteressato per me… e poi di un partito!

Materialmente?

Soldi. La prima rivendicazione è questa. Ma su questo vorrei dire di nuovo qualcosa di impopolare: tutti ci siamo lamentati perché ora si lavora di meno, ma pochi hanno proposto spettacoli che rappresentassero, per riprendere il discorso, il senso e la misura del cambiamento delle “regole della stanza”. Prendiamo il dibattito sulla liveness e sul teatro in streaming. Tutti a dire che il teatro in streaming fa schifo, e potremmo anche essere d’accordo, ma prima di darlo per assodato qualcuno avrebbe dovuto provare a farlo seriamente. Bisogna dire che all’estero qualche tentativo è stato fatto, noi abbiamo visto anche degli esiti molto interessanti. Nessun dubbio che la relazione dal vivo sia qualitativamente diversa, ma possiamo negare, mentre comunichiamo quotidianamente in chat con chiunque, che uno scambio avvenga realmente anche su Zoom? Si pone una scelta: o decidiamo, legittimamente, che il nostro mestiere si fa solo in una sala teatrale, col pubblico magari contingentato e senza potersi toccare in scena, oppure accettiamo che il teatro è uno strumento per ragionare sulle relazioni, e su come le relazioni siano cambiate in questi mesi. È una prospettiva da cui il tempo che abbiamo di fronte si rivela pieno di possibilità, ma anche di fallimenti: potremmo fare cose sbagliate, o comunque poco remunerative. Per questo c’è bisogno di soldi da parte dello Stato, in termini di ristori.

Di fronte a questa rivendicazione, quale è la responsabilità di un artista, secondo te?

La nostra responsabilità è fare un teatro interstiziale, come siamo arrivati a definirlo noi Kepler, cioè che si insinui nei vuoti fra la legge, il buon senso e la natura del tempo che viviamo. Che tragga energia dai suoi margini ristretti. Siamo tutti spaesati per l’impossibilità a lavorare nelle modalità che conoscevamo, ma essere artisti vuol dire essere spietati col proprio tempo, e, prima ancora, spietatamente ricevere questo tempo quale esso è. Se non stiamo a ridosso dei grandi movimenti della storia, non ci possiamo stupire che i teatri siano fra le prime attività a essere sacrificate.

Quale può essere in questo quadro il ruolo delle istituzioni teatrali?

In Italia mi pare che pochi teatri abbiano lanciato bandi per spettacoli che si ponessero nella prospettiva di cui ho parlato. Eppure distribuire risorse per progetti di questo tipo sarebbe un investimento a lungo termine, perché anche se il vaccino arrivasse a breve, come ha spiegato David Quammen in Spillover, le epidemie saranno una variabile sempre più frequente in futuro. Rimproveriamo giustamente il governo nazionale o le amministrazioni regionali di non aver adeguato, fra le altre cose, il sistema sanitario in vista della seconda ondata, ma allo stesso modo dovremmo rimproverare noi stessi di non esserci preparati come artisti.

Andrea Zangari

 

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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