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Dove sono, se nessuno mi guarda?

Una riflessione di Lea Barletti, sul ruolo e la vocazione dell’artista teatrale,  scritta dopo la sospensione degli spettacoli avvenuta il 24 novembre 2020

Lea Barletti è attrice, autrice e regista. Fondatrice insieme a Werner Waas della compagnia Barletti/Waas attiva tra l’Italia e la Germania.

Nell’immagine Lea Barletti in “Monologo della buona madre”. Foto Luciano Onza

Sono un’attrice. Né una teorica o una filosofa o una critica. E però oggi, io, attrice, non teorica, né critica, né filosofa, ho qualcosa da dire. Per mestiere, salgo sul palcoscenico, da molti anni. Da molti anni, per mestiere e vocazione, mi lascio guardare, guardo a mia volta, e mi guardo mentre guardo e mentre mi guardano. Per mestiere e vocazione, da diversi decenni ho a che fare (naturalmente non solo) con: corpo, sguardo, presenza. Per mestiere e vocazione, non faccio che interrogarmi e interrogare gli altri, non faccio che cercare: dialogo. Per mestiere e vocazione, non faccio che cercare: la crepa attraverso cui guardare ed essere guardata, attraverso cui guardare il mondo, attraverso cui esistere. Ecco, attraverso la crepa, oggi, io, attrice, non teorica, non critica, non filosofa, ho intravisto, ho intuito:
la disincarnazione dello sguardo, attraverso un progressivo rosicchiamento, smangiucchiamento, del corpo e dei suoi spazi di movimento, spazi dove esercitare la sua funzione (presente!) di medium di ciò che si vede e dell’esperienza in genere, è un processo in atto (perché lo è, in atto), e però in atto già da diverso tempo. Questo processo, in atto, lo subiamo, lo avvalliamo, lo cerchiamo, lo creiamo e ne siamo complici, più o meno (più o meno) consapevolmente e più o meno (più o meno) senza battere ciglio, da diversi anni. Oggi, appare semplicemente in tutta la sua evidenza. Appare, appunto: qualcosa che già c’era. Quello che appare, o almeno mi è apparso, attraverso la mia personalissima crepa, stamattina, mentre impastavo il pane, è che è da molto tempo che ci stiamo, e piuttosto docilmente, trasformando in sguardi senza corpo e in corpi senza sguardo.

Fuori casa: in metropolitana, sui mezzi e negli spazi pubblici, per strada (ma non solo): corpi senza sguardo, ripiegato, questo, quasi costantemente su un qualche dispositivo digitale, smartphone, tablet, pc. Non guardiamo, o guardiamo poco, distrattamente, di sfuggita… (presente?).
A casa: “in privato”, e in uno spazio privato. Sguardi senza corpo, a fruire di arte, cultura, intrattenimento, istruzione, sempre attraverso un qualche dispositivo (presente?). A parlarci, a volte anche, e persino, ad amarci, senza più il corpo e spesso senza più nemmeno la voce, ultima messaggera del corpo. Restano, certo, le dita, che furiosamente digitano: si è forse ritirato lì, il resto del corpo, nell’esilio di queste dieci febbrili appendici (dieci? e chi le usa più? per digitare un testo al telefonino, io personalmente ne uso al massimo due) e, appunto lo sguardo (presente?) Lo sguardo, fisso lì, a cercare… cosa? Un altro sguardo? Altri sguardi? Il nostro sguardo, come in uno specchio? Corpi? Altri corpi? Il nostro corpo? Non lo so.

Ma temo che abbiamo cominciato a rinunciare al corpo, a perdere il corpo e a fare a meno dello sguardo, del nostro e degli altri già da molto prima che chiudessero i teatri. E che questa chiusura (che si spera temporanea, ma il segno che manda, quello non cambia) era, in questo senso, quasi inevitabile. E, mi rattrista, e molto, sì, ma non mi stupisce. Chi avverte ancora come veramente necessario questo luogo dello sguardo e dei corpi che chiamiamo teatro? A parte, certamente, noi (noi?) attori, danzatori, performer, noi che “normalmente” (normalmente?) “calchiamo la scena”, e ci facciamo, lasciamo, guardare.

Chiudono i teatri e improvvisamente, noi (noi?) attori, danzatori, performer, ci chiediamo: chi sono se nessuno mi guarda? che senso ho, se nessuno mi guarda? Dove sono, se nessuno mi guarda?

A teatro, in quella specie di riserva indiana che è (che era?), in scena o anche dall’altra parte, in platea, potevo ancora avere quella bellissima illusione di vita, di presente condiviso, che è il guardare ed essere guardati, con il corpo (presente!) insieme ad altri corpi (presenti!).
E in una triangolazione, geometricamente magica come tutte le triangolazioni, attraverso lo sguardo degli altri, finalmente: vedermi.
Dove siamo, adesso? Dove siete?
Dove sei? È la domanda che spesso ci si pone in chat, quasi altrettanto, e a volte addirittura prima di: come stai?

Già: dove sono?

Lea Barletti

 

già pubblicato su www.ilprimoamore.com

 

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