HomeMedia partnershipStalker Teatro. Ognuno riesce a vedere ciò che riesce a immaginare

Stalker Teatro. Ognuno riesce a vedere ciò che riesce a immaginare

Intervista a Stefano Bosco di Stalker Teatro, compagnia fondata nel 1975 da Gabriele Boccaccini e Adriana Rinaldi, che a Pergine Festival presenterà, il 28 ottobre 2020, La nebbia della lupa. Materiali creati in Media Partnership.

 

La vostra compagnia affonda le sue radici nella seconda metà del Novecento, caratterizzata, come spesso accadeva in quell’epoca, da una forte relazione tra aspetti artistici e impegno sociale. Quali sono stati degli snodi significativi dal punto di vista artistico, progettuale, organizzativo?

Noi siamo già alla terza generazione, alcuni del gruppo sono in pensione altri poco più che ragazzi! La nostra esperienza, voluta da Gabriele Boccaccini e Adriana Rinaldi, nasce nel 1975 con un collettivo nato dentro l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, in un clima politicamente molto orientato. Questa avventura si sviluppa negli anni Ottanta affianco alle avventure di Basaglia: lavorando assieme agli ex degenti nel ex OP di Collegno abbiamo realizzato un’opera che poi ha dato nel 1986 il nome alla nostra cooperativa, sulla suggestione del film di Andrej Tarkovskij, Stalker. Abbiamo dovuto affrontare diverse difficoltà linguistiche nel riuscire a raccontarlo, oggi si potrebbe definire una performance partecipativa site-specific noi però lo chiamammo “teatro ambientale a percorso”. Così come per la definizione del ruolo degli ex degenti che con noi attraversavano l’opera, che definivamo spett-attori, adesso si potrebbe parlare di audience engagement. All’epoca non era condiviso tutto un vocabolario di pratiche. 

Nei Novanta, dopo essere stati a lungo raminghi, approdiamo per circa 10 anni alla Cittadellarte Fondazione Pistoletto di Biella, che adesso è un’eccellenza nel campo delle arti visive; al tempo era poco più che una fabbrica abbandonata, siamo stati tra le prime attività avviate. Nei Duemila troviamo un ex garage abbandonato in periferia di Torino, alle Vallette: pur con tutta la serie di criticità tipiche del fare cultura in quartieri periferici, nel 2006 inauguriamo CAOS, le Officine per lo Spettacolo e l’Arte Contemporanea: un centro culturale che si occupa di assistenza a giovani compagnie, promuovendo stagioni, festival, attività di inclusione sociale, rigenerazione urbana. Dal 2015 abbiamo trovato una dimensione molto fertile all’estero soprattutto in contesti francesi (in quella dimensione definita lieu publique), inglesi (che parlano di outdoor o partecipatory theatre), ma anche in altre parti dell’Europa e in Asia. In Italia, ancora una volta ci scontriamo con una difficoltà di linguaggio, si fa fatica a trovare una collocazione a questa dimensione che coniuga l’istallazione con la performance art partecipata.

Mi parleresti più nel dettaglio della vostra profonda adesione alle arti visive in connessione con gli aspetti performativi? Come si sviluppa il processo, cosa nasce prima, l’idea, l’immagine, il suo attraversamento…

Noi siamo legati per storia ed esperienze condivise al mondo delle arti visive dell’Arte Povera, e in particolare a quegli artisti di aria piemontese come Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Giuseppe Penone, Gilberto Zorio. Uso una parola che abbiamo coniato negli anni Novanta per descrivere il nostro lavoro,  “arte transitiva”: per noi non è tanto interessante giungere all’operazione artistica, al suo fine, ma costruire quell’opera per produrre dei ponti di relazione. Quando realizziamo le nostre istallazioni, questo avviene sempre assieme ai “viaggiatori” che ci accompagnano nell’atto di creazione attraverso l’utilizzo di oggetti multipli e poveri. Va detto, poi, che a noi la parola “teatro” è sempre stata molto stretta. Di fatto, a inizi ‘900 le avanguardie storiche per prime hanno rotto il tabù della tecnica, mettendola in crisi, mettendo in crisi il professionismo, ma la multidisciplinarietà diventa patrimonio comune con solo negli anni Ottanta. C’è da dire inoltre che la genesi dei nostri lavori segue sempre una gerarchia definita, i performer sono funzionali nella misura in cui sono “operai”, “artefici”, non ci cuciamo addosso un personaggio ma siamo “alchimisti” di una composizione in atto messa in moto da Gabriele. Il progetto ovviamente può prendere delle dimensioni inaspettate soprattutto se coinvolge il pubblico. 

Venendo allo spettacolo che presenterete a Pergine Festival il prossimo 28 ottobre: La nebbia della lupa è caratterizzato una volontà evocativa plurima, data dal fenomeno atmosferico di cui parla, dalle narrazioni orali ad esso correlate, e poi da tutti gli elementi scenici e performativi. Quale tra questi conduce l’azione in maniera prevalente?

Si potrebbe rispondere in molti modi, ma vorrei darti una risposta da “dietro le quinte”:  in realtà – e questa risposta ha che fare con la genesi di molti nostri lavori – noi partiamo da alcuni elementi strutturali e compositivi separati tra di loro che diventano le nostre guide. Nel caso de La nebbia della lupa siamo partiti dall’osservazione e dall’interazione con alcuni oggetti, quali le lunghe aste con le lanterne, per esempio. L’altro elemento fondante è quello della narrazione. Ciascuno dei diversi nuclei “drammatici” viene composto e assemblato da Gabriele secondo un orizzonte di senso che è quello della storia, cercando di avvicinare anche quegli spettatori meno inclini al racconto più immaginifico e figurativo che ci ha caratterizzato a lungo e che poteva mettere in difficoltà rispetto alla linearità della storia. Dando una chiave di lettura, i diversi nuclei vengono cuciti e mantenuti insieme da una voce narrante, e questo facilita tutti; nel caso della Nebbia della lupa, stiamo parlando del sogno e quindi, una volta chiarito questo contesto possiamo sbizzarrirci, e, come diciamo a un certo punto nello spettacolo “ognuno riesce a vedere ciò che riesce a immaginare”. Poi, in realtà, la composizione e la genesi partono da altro, per esempio dalla musica dal vivo che c’è sempre nei nostri lavori, e che è in grado di conferire atmosfere ben precise, attraverso diversi stili e mezzi (in questo caso OzMotic crea e campiona in live electronics una grande quantità di materiali sonori).

 

Venendo invece all’eccezionalità di questo momento storico, come lo avete affrontato, sia in quanto compagnia, che come centro culturale?

Praticamente non ci siamo mai fermati, a febbraio abbiamo riconvertito tutte le Officine CAOS in un centro di smistamento alimentare per chi non aveva i mezzi per potersi sostentare; quasi tutte le mattine curavamo la logistica, coordinavamo una flotta di 10 volontari che portavano alimenti a chi non si poteva muovere da casa… È stata un’avventura, stare in mezzo alla gente ci piace e quindi in un modo o nell’altro dovevamo continuare a farlo! Poi, d’altra parte, e anche questo va assolutamente al di là della retorica, abbiamo iniziato a sperimentare in sala delle nuove azioni. Abbiamo agito rispondendo all’emergenza anche a livello simbolico con nuove modalità di approccio che ancora non abbiamo completamente definito, che stiamo ancora ricercando, ma siamo convinti che l’arte possa cambiare la vita. Di fatto, però, pensando anche al futuro, noi crediamo che lo spettacolo dal vivo debba rimanere tale, altrimenti diventa altro. Che poi la conversione digitale sia uno strumento utilissimo siamo d’accordo, le sperimentazioni in streaming o in virtuale sono estremamente interessanti ma hanno altre prospettive, altre visioni. Nel caso dell’arte partecipata, il livello percettivo sensibile ha necessariamente bisogno della dimensione dal vivo perché sei in gioco rispetto a una visione e non è possibile fare diversamente per poter raggiungere quella temperatura.

 

Redazione

Il semplice profondo, 28 ottobre 2020, Pergine Festival. Clicca qui per info e prenotazioni

 

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