Recensione. La filosofia nel boudoir del Marchese de Sade diretto da Fabio Condemi. Visto al Teatro India di Roma
C’è una domanda che risuona, in modo evidente, potente per come appare nell’ultima scena dello spettacolo; proiettata sugli schermi trasparenti che per tutta la durata hanno il compito di accogliere collage, scritte, effetti visivi e cromatici eseguiti dal vivo con liquidi, colori, e iconografie manomesse: “dobbiamo bruciare Sade?”.
Non è un caso che Fabio Condemi faccia apparire questa scritta in apertura della scena finale, quella più violenta, quella in cui la violenza diventa inaccettabile in quanto rappresentazione di un modello morale irricevibile proprio perché basato sulla cancellazione dell’altro, della vita umana.
La filosofia nel boudoir, diretto da Fabio Condemi, è una riflessione, senza sconti, sull’opera di De Sade pubblicata nel 1795 in forma di dialogo drammatico. La domanda di cui sopra lascia emergere proprio una continua interrogazione al testo, l’obiettivo non sembra essere quello di allestirlo, di trovare una modalità teatrale per animarlo (cosa che comunque riesce benissimo vista la maestria e la fantasia scenica del regista), piuttosto c’è la necessità di entrare in relazione, in crisi con un’opera – e la sua impalcatura filosofica – pubblicata lo stesso anno della costituzione francese rivoluzionaria, con il sottotitolo “Dialoghi destinati all’educazione delle giovani fanciulle”.
È un lavoro che necessita di radicalismo, al quale non si sottrae la compagnia: ecco quei corpi nudi in grado di superare qualsiasi inibizione. Nella prima scena, di un esacerbato erotismo anatomico, i sessi dei due attori sono esposti senza indugio. Più volte Madame de Saint-Ange (Elena Rivoltini, suoi anche i vocalizzi alla loop station) ricerca un contatto seduttivo con lo spettatore: il monte di venere in vista, i seni scolpiti. Alla sua sinistra Augustene (Marco Fasciana) con la propria virilità data in pasto allo sguardo del pubblico. Poi c’è la giovinezza di Eugénie (Carolina Ellero, che imprime la giusta cattiveria al proprio personaggio), il suo corpo minuto ma scultoreo, quasi androgino.
A dare i ritmi di questa lezione sul libertinaggio nei costumi sessuali e nella morale c’è Dolmancé, un Gabriele Portoghese come sempre in grado di far risuonare la parola alta (aveva già lavorato nel Jakob Von Gunten e poi le recenti esperienze con il lirismo di Kate Tempest nelle regie di Giorgina P.), capace anche di conferirle pastosità e soprattutto ironia. Tratto evidente, quest’ultimo, nella scena in cui la ragazza perde la verginità in un’orgia con gli altri personaggi – recitata in questo caso con grande intelligenza cercando erotismo e morbosità solo nelle parole, in un reading in cui il comico è manifesto. Ma è la lettura in generale del testo ad essere situata a un livello tale nel quale l’orizzonte del tragico sfuma in quello del grottesco; contribuisce in questo senso la traduzione (dello stesso Condemi) efficace, ma quotidiana solo nella scelta di alcuni termini.
Lo spettacolo, appena passato dalla Biennale di Venezia e prodotto dal Teatro di Roma, è in scena al Teatro India (dove Condemi partecipa al progetto residenziale di Oceano Indiano) fino all’11 ottobre – meriterebbe anche più di una visione – e si dota di una scenografia non troppo dispendiosa (e in parte organizzabile dagli attori stessi) tratto distintivo di un teatro di regia semplice nei mezzi ma dalle idee importanti: qualche microfono, lavagne luminose, una piccola piscina quadrata di plexiglass con acqua e uno sfondo di alta vegetazione a simboleggiare il regno della natura.
La natura, appunto: è qui che lo spettacolo di Condemi riesce a mettere in moto le questioni più interessanti, De Sade per bocca di Dolmancé si appella alla natura come origine di qualsiasi attività in grado di portare l’uomo al godimento del proprio piacere, verso l’edonismo più totale, quello incapace di guardare oltre il proprio naso, anzi quello che in definitiva è in grado di passare sopra i corpi e le vite degli altri. È infatti nella natura che avvengono i crimini della scena conclusiva. Con una sorta di ribaltamento della morale verrebbe da pensare proprio al discorso comune di chi si oppone oggi alla libertà dei costumi sessuali non riuscendo a vedere oltre l’eteronormatività: quante volte viene sbandierato un contronatura come paletto ultimo di una retorica liberticida.
Anche nel parossistico discorso del Marchese la rappresentazione sovrumana della libertà dei costumi e della morale avviene per mezzo del concetto di natura che sostituisce il dio di cui proprio Sade si fa beffe. Come se il pensatore qui incarnato da Dolmancé a forza di negare qualsiasi regola sia incappato in un vicolo cieco dal quale l’unica via di uscita è la negazione stessa della vita, dunque la morte, la fine della specie, appunto, come spesso viene evocata.
Se l’interrogativo, retorico, preso a prestito da Simone De Beauvoir, “dobbiamo bruciare Sade?”, ha dunque risposta già nella realizzazione dello spettacolo annientando così – si spera – qualsiasi tentativo di censura esterno, il dibattito però rimane aperto sulla questione morale del singolo nei confronti della società; tanto che il finale con cui viene raccontata la crudeltà di Eugénie e dei suoi amici ai danni della povera madre (Candida Nieri) non viene interrotto neanche dal buio e lo spettatore, preso dall’abitudine degli applausi, si ritroverà a festeggiare dei perversi assassini.
Andrea Pocosgnich
Roma, Teatro India, in scena fino al 11 ottobre 2020
La filosofia nel boudoir
di D.A.F. De Sade
traduzione e adattamento di Fabio Condemi
regia e drammaturgia di Fabio Condemi
drammaturgia dell’immagine, dispositivo visivo e costumi di Fabio Cherstich
sound designer Igor Renzetti
light designer Camilla Piccioni
con Carolina Ellero, Marco Fasciana, Candida Nieri, Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini